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Tag: Michael Mohan

URAGANI (DI SENSO)

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TWISTERS

Lo strepitoso capostipite di De Bont sancì il “blockbuster teorico” degli anni Novanta (meccanismi spettacolari che fungevano da documenti consapevoli dello stato dell’arte dell’effetto speciale e da meta-sfide supercinematografiche: filmare il vento una di queste). Il sequel trent’anni dopo cambia obiettivo: accenni minimali al cambiamento climatico e attenzione invece alle “due Americhe” (meteorologia scientifico/progressista contro domatori cowboy di tornado). Vincono i secondi, l’America tanto profonda e radicata da trivellare un pickup sul terreno per non farsi portare via dagli uragani (della Storia). Intelligentissimo fingendo di essere rozzo. Con un pizzico di cinefilia, tra Oz e Frankenstein.

HORIZON – CAPITOLO 1

Avremmo dovuto analizzare il doppio capitolo di quattro, ma l’insuccesso ha rimandato a data da destinarsi il secondo episodio. Del primo si può dire (a parte un curioso e accumulatorio teaser finale del numero due) che si tratta di un’opera forse leggermente diversa da quel che ci si aspettava. Assai più “manniano” che “eastwoodiano”, trova nella riflessione sulla landa e sulla proprietà un fulcro di racconto essenziale, che tiene a bada i molti satelliti narrativi centrifughi e bruscamente ellittici. Niente western crepuscolare e malinconico, molta più azione controversa e durezza da frontiera, campo in cui funziona benissimo. Lo spirito è comunque seriale a tutti gli effetti, tanto da farci chiedere (visto che la spettacolarità e il formato appaiono più claustrofobici del previsto) se non valesse la pena pensarla da subito come una serie prestige da piattaforma, ovvero ciò che Warner adesso cercherà comunque di ottenere dal girato.

FLY ME TO THE MOON

Una volta Gualtiero De Marinis scrisse di non ricordo quale film un commento che suonava più o meno: “è talmente pedante che se non capisci il messaggio viene a bussarti a casa per ripeterlo”. Ecco, il film di Greg Berlanti è così. Da una parte impagina il tutto come un classico platform movie (cioè una specie di stile da vecchio film per la TV però con valori produttivi da 100 milioni di dollari), dall’altra utilizza la storia della “pubblicità della Luna” come un lungo, snervante discorsetto sui media, sulla pubblicità, sull’America, sul concetto di falso storico. Almeno si può vedere come un “documentario” su Scarlett Johansson: i suoi oufit, i suoi accenti (in lingua originale), i suoi ritmi da screwball meritavano di meglio.

IMMACULATE

C’è che si appassiona a questo tardivo ritorno (mainstream) della nunsploitation, che però dell’epoca d’oro possiede solo le nun e ben poco del godurioso expolitation necessario. Vale anche per l’horror con Sydney Sweeney, reduce da una commedia di successo e subito affossata dal dozzinale “convento delle torture” cui non si sa bene perché si è prestata. Magari per noi italiani il tutto peggiora a causa della solita rappresentazione caricaturale della religiosità nazionale (con l’aggravio degli attori locali mal gestiti), ma anche volando più alti – pensiamo al messaggio anti-patriarcale – si rimane con un crocefisso di plastica in mano. Praticamente il peggio dell’horror commerciale mescolato al peggio del prestige horror.

GLI INDESIDERABILI

Note dolenti. I dubbi che già si insinuavano nel troppo elogiato I Miserabili (non molto dissimile dal cinema della banlieue che sembrava aver detto quasi tutto negli anni Novanta), si confermano con l’opera seconda. Sia pure aperto e chiuso da due sequenze cinematograficamente lucide e forti, il lavoro di Ladj Ly rimane ancora a un livello schematico di rivendicazione sociale e urbana. Giustissima, s’intende, ma indecisa a metà strada tra la scelta verbocentrica del socialismo di Guédiguian e l’estetismo rapinoso di Romain Gavras.

ERA MIO FIGLIO

Eccolo, il famoso cinema medio che nelle sale non esiste(rebbe) più. Ma chi se lo fila oggi, un film introspettivo, autunnale e soffuso come Era mio figlio di Savi Gabizon? Peccato, perché la storia di un padre che scopre di avere un figlio adolescente quando questo è già morto, e viaggia cocciutamente a ritroso per catturarne tracce postume, funziona come dramma che si ferma a un passo dal mélo. La recitazione implosa di Richard Gere, che dona a un personaggio di potere tutta la vulnerabilità necessaria, è a sua volta un piccolo film-nel-film. Non un capolavoro, ovviamente, ma per l’appunto quel cinema che serve (o serviva) a fidarsi del grande schermo. E delle opere minori come compagne d’esistenza.

GIRO DEL MONDO TRA CINEMA E PIATTAFORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

SCOMPARTIMENTO N. 6

Compartment No. 6 recensione film di Juho Kuosmanen con Seidi Haarla

Tratto da un fortunato romanzo di Rosa Liksom di dieci anni fa, il film di Juho Kuosmanen ha vinto il Grand Prix speciale della Giuria a Cannes 2021, aumentando i dubbi su quel palmarès (ci eravamo già lamentati dell’attenzione posta a La persona peggiore del mondo). Il road movie tra sconosciuti (lui e lei, non eteronormativi) sullo sfondo di una natura nordica estremamente fotogenica – al solito – percorre ambiti piuttosto prevedibili. A circa metà film, chi mastica un po’ di formule sceneggiatoriali sa scrivere su un fazzoletto di carta quel che avverrà dopo. Si è scritto che c’è aria di Linklater. Magari! Manca, del grande regista americano, tutta quella palpitante capacità di stare allo stesso tempo con un piede dentro lo stile-Sundance e con l’altro dentro un atmosfera vague fatta di continue accensioni e spegnimenti emozionali. Comunque Scompartimento n. 6 è utilissimo in aula: è infatti un esempio matematico di quel che si definisce “film da festival”.

TICK, TICK… BOOM! 

Tick, Tick... Boom!: recensione del film - Cinematographe.it

Produzione con i contro-c..rismi per questo musical Netflix, prima regia della star Lin-Manuel Miranda di Hamilton (e altro). Biografia giovanile del compositore di Rent (Jonathan Larson, morto prematuramente all’apice del successo), ha come mattatore Andrew Garfield, più generoso e frenetico che perfetto. Attenzione: è un musical dove di fatto non si balla. Si canta soltanto, e si cantano le belle canzoni del musical del titolo e di quello precedente, rimasto inedito ma poi confluito nel secondo. Se non avete capito la frase appena scritta, è perché tutto il film gioca sull’idea di un meta-musical inscatolato, dove le storie altro non sono che adattamenti e re-framing di un unico flusso di creatività. Si astengano i Broadway-fobici, perché qui rischierebbero una fastidiosa orchite. Gli amanti invece troveranno cose buone e meno buone, con un approccio comunque onesto.

RED NOTICE

Red Notice: Gal Gadot, Ryan Reynolds e Dwayne Johnson in un momento del  film: 546633 - Movieplayer.it

Ancora Netflix per uno dei film più stroncati del mondo. E chi potrebbe dire che è “bello”? Non può certo esserlo nel senso del bello spielberghiano o zemeckisiano (viste le citazioni da Indiana Jones e Pietre Verdi varie), perché i tre protagonisti sono uno più ingessato dell’altro e lo spy-action internazionale non possiede nessuna intima cinefilia grossier. Detto questo, è il film più visto della storia della piattaforma, il più costoso, e si affianca a Tyler Rake, 6 Underground, Spenser Confidential in quell’autorialismo vulgar e in quella ricerca quasi cocciuta di uno spettacolo popolare scervellato che interessa noi teorici – magari meno lo spettatore di bocca raffinata. Rispetto a Michel Bay o Sam Hargrave, però, Rawson Marshall Turber non sembra nemmeno avere la passione per la distruzione totale o per la sequenza spettacolare come filosofia del pericolo oculare. Peccato.

IL VISIONARIO MONDO DI LOUIS WAIN

The Electrical Life of Louis Wain: Benedict Cumberbatch dipinge gatti nel  nuovo film, immagini - Mauxa.com

Esce direttamente su Prime Video la biografia dell’omonimo artista vissuto a in Inghilterra tra Otto e Novecento. Era un tipo stravagante ed ebbe un enorme successo nell’illustrazione popolare disegnando gatti antropomorfizzati – non arrivando al punk di Fritz the Cat ma lasciando loro qualche strana inquietudine anticoloniale negli occhi. Al regista Will Sharpe è sembrata una buona idea arredare e riprendere il mondo britannico di quegli anni come se fosse visto in parte dallo sguardo artistico di Wain e in parte da un gusto pre-lisergico. Ma l’estetica è da feuilleton BBC d’antan e a nulla vale la performance di Benedict Cumberbatch (su cui andrebbe aperto un discorso, visto che alterna ruoli intensamente riusciti ad altri deboli in modo deprimente). Che cinema è questa roba qui? Uno streaming di lusso per domeniche pomeriggio? Un film d’essai capitato sulle piattaforme in epoca di vacche magre? Un ennesimo esempio di come qualsiasi prodotto è ormai un pezzettino di uno specchio senza forma?

SIR GAIWAN E IL CAVALIERE VERDE

Sir Gawain e il Cavaliere Verde", la recensione del film Amazon Prime Video  con Dev Patel :: Blog su Today

Come accade sempre nell’epoca dei social, questo strano esperimento di David Lowery (regista davvero curioso, nei due sensi dell’aggettivo – curioso lui alla ricerca di forme inconsuete, e curioso per noi come personaggio) ha prima ricevuto lodi sperticate e poi affrontato uno shit-storm epocale. In verità, questo coraggioso recupero di una leggenda minore legata al ciclo arturiano ha sicuramente alcuni meriti, a cominciare dal fatto che la quest magico-folcloristica è portata avanti da un cavaliere inadeguato, che sbaglia tutto ciò che può sbagliare e che per correggere i propri errori deve compiere il sacrificio più grande. Passare due ore a vedere i fallimenti di un “viaggio dell’eroe sbagliato” è abbastanza folle da suscitare simpatia, sicuramente più degli elementi visionari e boormaniani – non sempre all’altezza. C’è poi una serie di allegorie e rimandi che bisogna scovare sul web, perché (a meno che non siate espertissimi della letteratura bretone e dei suoi significati) sfugge inspiegata. In Italia direttamente su Prime Video.

THE VOYEURS

The Voyeurs: il finale e la spiegazione del thriller erotico di Amazon

Sempre su Prime Video circola da alcune settimane questo thriller erotico che si vorrebbe rifare, più che a Hitchcock (con citazioni puerili da La finestra sul cortile e La donna che visse due volte), ai suoi epigoni anni Ottanta – tra Verhoeven e De Palma. Quel che ne esce è un Zalman King 2.0, con patinate porcherie miste a una trama mystery senza capo né coda. Spiace per Sydney Sweeney, prorompente e seduttiva come altre volte, cui si spera che un errore del genere non pregiudichi la carriera.