Nuova puntata dei recuperi di articoli del passato (questo pezzo proviene dal mensile “Duellanti”, oggi cessato): rileggendo le righe interpretative sulle metafore del virus e sull’irrappresentabilità del contagio, ho considerato curioso ripubblicare queste righe sul film di Steven Soderbergh – ho solamente eliminato alcuni commenti su contesti di cronaca e politica di quel momento.
CONTAGION
Bisogna ammettere che Steven Soderbergh ha compiuto un viaggio molto lungo all’interno della critica cinefila. In molti, anche il sottoscritto, lo hanno accusato a lungo di furbizia, finta indipendenza, spocchia autoriale. Ora, dopo alcuni film epocali per il cinema contemporaneo – tali sono sia Che sia The Informant – il regista americano giunge a capitalizzare la sua estetica e la sua profonda politicità grazie a Contagion.
Perché Contagion sarebbe così importante? Per diversi motivi. Anzitutto, va ammesso onestamente che l’opzione di valore in questo caso decide di non tenere conto di alcuni squilibri strutturali, notati da molti critici – ad esempio la claudicante linea narrativa con Marion Cotillard ostaggio dei contadini asiatici, oppure la reticenza nei confronti di quel che avviene ai vicini di casa di Matt Damon, e altro ancora. Più macroscopicamente, tuttavia, Soderbergh supera di slancio questi sia pur seccanti problemi di scrittura, grazie a un’ipotesi di cinema di flagranza teorica sorprendente. Il tema del virus, che rischiava di essere ormai bollito e ribollito da film sempre più inetti e anodini (compreso il remake del seminale La città verrà distrutta all’alba), viene rilanciato con forza puntando tutto sulla metafora del contagio economico. Le borse e le merci ormai abitano un mondo reticolare dove, paradossalmente, tutto è in relazione di causa ed effetto proprio nel momento in cui tutto è atomizzato, senza più modelli sociali o ideologici che tengano (sia in Occidente sia nel mondo musulmano, come noto attraversato da onde anomale gigantesche).
Il virus, ovviamente, viaggia rapidissimo insieme alle persone. E può annidarsi negli aeroporti e sui velivoli con nocività assai maggiore dei kamikaze dell’11 settembre. C’è di più, però. Soderbgerh, che non vuole (e forse non può, per motivi di budget) mettere in scena la consueta apocalisse urbana e spettacolare, flette sulla tecnologia il problema della rappresentazione. Il virus è un’entità concreta – le persone si ammalano e muoiono a migliaia – ma noi vediamo i personaggi quasi sempre alle prese con schermi, laptop, smartphone, video di sorveglianza, registrazioni digitali e analisi computerizzate. A sua volta la messa in scena, su un tappeto musicale artificiale, prosegue l’ossessiva ricerca di Soderbergh (uno dei pochi insieme a Michael Mann) sulla ripresa digitale, che garantisce una densificazione dello spazio rappresentato e, con le luci giuste, crea un effetto museale e video-artistico ad ogni ambiente inquadrato.
Siamo dentro un cinema ormai tecnologizzato in ogni sua particella: il film è girato in digitale, proiettato in digitale nei multiplex, rappresenta un mondo digitale, musicato digitalmente, ma ha a che fare con tosse, sputi, vomito, sudore, influenza e morte. Soderbergh ci restituisce – con un’allegoria che somiglia molto a un paradosso – la crisi economica sotto forma di catastrofe umanitaria. La tecnologia modifica i nostri comportamenti, la nostra società, la cultura e anche la natura, oltre ovviamente a modificare il cinema. La virtualizzazione delle procedure non significa però che la realtà sia una chimera inafferrabile, è anzi sempre lì a chiederci il conto, non fosse altro perché si muore, e si muore per le crisi economiche e per la guerre, per le carestie e per le dittature, e persino per tutte queste cose insieme, come nella tragedia somala.
Lo spiegano anche le svolte narrative del film. Contagion è uno dei pochi “virali” dove il governo si comporta tutto sommato correttamente. A parte quando gioca sporco con il placebo scambiato per antidoto allo scopo di dissequestrare la collega rapita, ci troviamo di fronte a istituzioni che seguono i protocolli, se divulgano informazioni segrete lo fanno in buona fede, e cercano di affrontare il dramma nella maniera più concreta. Il blogger antagonista ci fa una figura a dir poco sconcertante (anche se allo spettatore complottista Soderbergh concede la chance di credergli fino alla fine), e – con buona pace di chi trovasse in Contagion un discorso reazionario e pro-corporazioni – tutte le soluzioni alternative e miracolose si riducono a nulla.
Perché Soderbergh spazza via la tradizionale diffidenza del virale nei confronti delle istituzioni? Per realismo, appunto. E per ricordarci che i problemi stanno a monte. Il finale del film, in cui vediamo il pipistrello che contagia il maiale, funziona come causa primaria. Tutto nasce così: dal funzionamento industriale del capitalismo (e, aggiungiamo noi vegetariani, dallo sfruttamento intensivo dell’uomo sull’animale). Quando poi le crisi esplodono non c’è più modo di contenerle. Ci spazzano via in un attimo.
E Contagion ci ricorda anche che i protocolli, i sistemi governativi, le regole internazionali sono lente. Di fronte a una pandemia o a un default contagioso, la crisi viaggia a minuti mentre le contromosse necessitano di mesi. E non c’è nulla di diverso che si possa fare, almeno fino a che queste stesse istituzioni regolano il nostro mondo. Ecco perché Contagion esclude ogni elemento figurativo e narrativo di stampo religioso, magico o fantascientifico, per privilegiare invece la dimensione logica, etica, e di fatto laica del suo exemplum.
La crisi, qualunque essa sia, appare irrappresentabile. Come si capisce bene dalla sequenza più bella del film, quella in cui i ricercatori cercano di osservare – nel video di sorveglianza che riprende Gwyneth Paltrow, prima vittima – il momento esatto in cui, con un soffio o un contatto, la donna potrebbe aver contagiato qualcun altro. Ma il virus non ha una forma, e le telecamere, anche se ad alta definizione, non riescono a catturarlo. Il paradosso di Soderbergh: tra titoli tossici e malattie aeree, il mondo non ha più una materia cui fare riferimento, eppure il nostro corpo è ancora al centro della catastrofe.