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ESTETICA DELL’ASSENZA

Ovviamente viviamo un periodo pessimo. Inutile negarlo. Cinema chiusi, produzione bloccata, intere professioni congelate e in crisi (dai doppiatori agli uffici stampa), festival rimandati, mondo dell’audiovisivo in panne. Certo, qualche piattaforma gonfia di contenuti ne sta approfittando, ma il fiato sarà corto ben presto.

In televisione le cose vanno appena meglio. Le library sono molto fornite, e alcuni programmi possono comunque andare in onda. In queste settimane, ottimi ascolti stanno premiando i programmi di informazione. La nuova estetica dei talk show e di altri appuntamenti di approfondimento è basata sull’assenza. Non solo il pubblico è assente – mancano solo le sagome per diventare parodia – ma anche gli ospiti rispondono per lo più da casa, in collegamento Skype (o simili).

Ogni tanto, visto che la televisione autoriflessiva è ormai cosa di tutti i giorni, il conduttore segnala che il collegamento è cattivo (e allora l’ospite si fa vedere in video ma parla al cellulare) o si complimenta perché buono (facendo riferimento alla fatidica “valigetta”, che permette nitidezza e trasmissione stabile). Ma, tutto sommato, non va malissimo, anche in evidente assenza di trattamenti estetici e di truccatori per quasi tutti. Anzi, spesso la fastidiosa attesa del digitale tra domanda del giornalista e risposta ritardata del politico o dell’esperto viene cancellata.

In questo contesto di estetica inselvatichita, lo studio vuoto è sicuramente l’aspetto più eclatante, specie per chi ne usava la profondità (pensate a che cosa avrebbe fatto Gianfranco Funari di questa televisione spoglia e apparentemente pauperistica). Lo studio mostra tutta la sua inconsistenza. L’idea stessa che fosse metonimia del mondo là fuori si schianta di fronte all’arena fatta di quinte posticce, sedili abbandonati, e telecamere isolate con i loro fili abbandonati per terra.

Il conduttore deve esasperare funzioni in eccesso: Giordano esplode in un freakshow da camicia di forza, la Gruber si crogiola nell’atteggiamento sanzionatorio (“Non uscite di casa”, “Non andate a fare la spesa troppo spesso”, ecc.), Formigli intensifica la dimensione tormentata del giornalismo d’indagine, Mentana scaraventa sullo spettatore l’aggressività che solitamente riserva ai collaboratori, Vespa non riesce a nascondere l’eccitazione di aver ritrovato le prime serate, e così via. Il contenimento e le negoziazioni che comunque il contesto scenografico e la presenza fisica di pubblico e ospiti garantivano sembrano saltati, lasciando l’informazione televisiva in uno stato di perenne oscillazione tra isteria e razionalità.

E alla fine, la disperata ricerca di voci autorevoli – con il trionfo dello scienziato, poco importa se virologo, epidemiologo, infettivologo, biologo, e altri mestieri abbastanza intercambiabili per il pubblico desideroso di vedere una via d’uscita – supera ogni tipo di limitazione estetica. Molti di loro sono in grado di salvare l’umanità ma non di dotarsi di una webcam decente. E così andiamo avanti in un trionfo di voci metalliche, sillabe saltate, pixel a mosaico, contorni sfocati, asincroni ghezziani, sfondi con foto del matrimonio, librerie mal illuminate e salotti con arazzi esotici negli angoli.

La speranza è che qualcuno stia censendo, registrando, catalogando e analizzando questo periodo eccezionale. La youtubizzazione della televisione generalista è cosa fatta, in poche settimane di lockdown.