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Tag: M. Night Shyamalan

IL CINEMA DI FERRAGOSTO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

ALIEN: ROMULUS

Per fortuna si torna su un’astronave e si torna alla caccia. Ci sono voluti molti anni per capire che cosa fare della saga aliena, ma Ridley Scott alla produzione e Fede Alvarez in regia (e sceneggiatura) hanno trovato la quadra rispolverando l’idea originaria: un’anima interna da B-movie fortemente ancorato alla valorizzazione estetica del set. Con una storia riuscita (sia pure troppo preoccupata e parassitaria – è il caso di dirlo – nei confronti della mitologia originaria, compresi i rovinosi Prometheus e Covenant), Alien: Romulus scarta qualsiasi tentazione allegorica. Anche se ci sono un androide nero, ribelli multietnici, maternità orrorifiche, simboli fallici e vaginali a iosa, nulla di tutto questo suscita grandi metafore. Conta l’azione, come giusto che sia, e conta che mostri e umani si confrontino secondo i codici animaleschi ed elementari della selezione naturale. Adorabile il fatto che sia stato girato in Ungheria e che ungherese sia la folta troupe (compreso, al prostetico, l’ottimo Iván Pohárnok, quello di Midsommar). Si segnala una maestosa sequenza in assenza di gravità, e una Cailee Spaeny (altezza 1,55 contro l’1,82 di Sigourney Weaver: e questo cambia molto nella dinamica dei movimenti), sempre più elettrica dopo la Priscilla di Sofia Coppola e la fotografa di Civil War: quando si dice saper scegliere i film giusti.

TRAP

I due cervelli-cinema americani al momento sono Soderbergh e Shyamalan. Il secondo cerca di restare attaccato al mainstream con un doppio meccanismo: thriller/horror sempre più “estivi” (nel senso di divertissement) e teoria dello sguardo sempre più estrema. Trap raggiunge vette di consapevolezza filosofica acutissime nel momento stesso in cui mette al rogo ogni meditabonda lentezza à la The Village. Stavolta Shyamalan chiede aiuto al patrimonio di De Palma per arrivare al solito Hitchcock da una libidinosa e libidinale porta secondaria. Siamo con l’assassino? Non del tutto, ma è il killer a insegnarci che bisogna saper guardare, distogliere l’occhio dal palco e analizzare lo spazio (sociale) circostante. Solo quando anche gli altri (le altre: la popstar, la moglie, la figlia) imparano a uscire dagli schemi e dai rapporti di forza stabiliti, possono affrontare la furia omicida maschile. Povere famiglie USA, che Shyamalan fa a fettine da The Visit in poi. PS. aspiranti registi del CSC: prendete i film di questo autore per apprendere lezioni di regia inquadratura per inquadratura.

CATTIVISSIMO ME 4

Tutto dipende dalle aspettative. Se, come chi scrive, andate in sala consapevoli che l’età dell’oro dell’animazione sperimentale di massa è finita da 10-15 anni, il quarto episodio della saga (ma in verità sesto, contati quelli dei Minions) apparirà meno letale del previsto. Se invece arrivate carichi a molla e intransigenti verso le furberie Illumination, beh allora ci saranno solo irritazione e astio. La storia è scritta piuttosto male (linee narrative che faticano a convergere), ma l’aspetto ritmico/stimolativo giustamente prevale, e il tutto – inteso come catalogo di gag e accidenti – funziona come anti-depressivo cinematico e anti-spastico da grande schermo. Per il resto, che qualcuno ci salvi dai music supervisor e dalle playlist vintage sparate a palla in colonna sonora (funzionò solo nel primo Guardiani della Galassia, il resto è noia).

MILLER’S GIRL

Al minuto uno la voce fuori campo di Jenna Ortega ha già pronunciato la parola “gotico”. Pur non c’entrando nulla con il contesto (la storia di una studentessa che cerca di sedurre il professore di Letteratura spingendolo a superare i confini etici), la piccola star è immersa in un contesto fantasmatico e decadente. Ambientato in soli quattro spazi (l’aula, il giardino della scuola e le due case), questo dramma verbosamente confuso sull’incertezza delle regole dell’attrazione riesce a fallire ogni singola occasione di interesse narrativo e di sottigliezza psicologica. Attraversato da una percepibile misoginia, chiude con un finale ancora più irrisolto e ambiguo. Razzie Award in arrivo, anche per il povero Martin Freeman, incolpevole ma disastroso.

MADE IN ENGLAND: THE FILMS OF POWELL AND PRESSBURGER

A scuola di cinefilia. Il doc di David Hinton (ora su MUBI) è cinefilo due volte. La prima perché è proprio quel tipo di amore per il cinema che ci ha fatto amare Powell e Pressburger (provate a guardare senza cinefilia Scala al Paradiso o I racconti di Hoffmann e perderete tutto); la seconda è lo sguardo del narratore Martin Scorsese. Scorsese, come già dimostrato tante volte, possiede una vocazione unica per le analisi critiche dei film che ama, riempite di così tanto affetto e tale ricchezza interpretativa da diventare irresistibili. Se si aggiunge che è stato proprio il cineasta americano a “salvare” Powell dall’oblio e a dargli una nuova vita artistica, la commozione tracima (per una volta, un sentimentalismo ben riposto). La qualità degli estratti è sublime, e anche questo va apprezzato per uno dei migliori documentari sul cinema di sempre.

BABY RUBY

Inedito distribuito da Netflix, Baby Ruby è opera di una stimata drammaturga teatrale, Bess Wohl. Purtroppo è il classico caso di buone intenzioni sostenute da un impianto simbolico greve e pedante. La storia di una giovane donna, appena diventata mamma, alle prese con una depressione post-partum non diagnosticata, viene messa in scena come un delirio paranoico dai tratti orrorifici. Ciò permette a Noemie Mérlant un generoso tour de force attoriale ma perde il confronto con tutte le messe in scena traumatiche di questi anni. A proposito di maternità problematiche o negate, basta infatti citare Hungry Hearts di Saverio Costanzo, Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, Titane di Julia Ducornau, La figlia perduta di Maggie Gyllenhaal o la serie Servant per avere un ricco ventaglio di approcci al tema non banali e ricchi di metafore meno consumate.

CINEMA CHE CORRE, SERIE CHE PARLANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE FLASH

Questo è ancora un DCU pre-Gunn, anche se ha l’aria di quello che getta il guanto di sfida alla Marvel. Ne scopiazza i multiversi in modo plateale (almeno rispetto alla Sony: qui sono i vari Batman della storia a tornare, più qualche Superman), offre retromarce cronologiche legnose – pur ispirate al Richard Donner del primo Kent di Christopher Reeve – e si salva con un doppio Flash decisamente spassoso. Che dire? Meglio dell’ultimo MCU ma – se paragonato per esempio allo SpiderVerse – sembra un pachiderma rugoso e anziano, per di più disegnato malino. Andy Muschietti comunque merita di essere seguito nei prossimi passi super-eroistici.

TYLER RAKE 2

Ecco la differenza tra l’evoluzione dell’action targata John Wick (che proprio nell’attitudine meccanica e parossistica trova il senso del presente) e quelli di Netflix. Il virtuosismo si conferma: anche nel sequel troviamo un piano-sequenza (23 minuti) vertiginoso, a dire il vero non purissimo per un paio di evidenti interventi al montaggio. Ma la domanda è: chi se ne frega? Rake non racconta nulla, né il mercenarismo post-coloniale, né l’estetica della violenza, né il nichilismo dell’eroe. La sfumatura mélo del killer con sentimenti paterni non fa che rendere il tutto ancora più increscioso. PS.: ma quanto è bella a 40 anni Golshifteh Farahani?

DENTI DA SQUALO

Siamo tornati alla famigerata “operina prima”? Non si ha nessuna voglia di essere sarcastici, sia chiaro. Eppure rimane un po’ di amaro in bocca a constatare che l’atteso esordio di un regista apprezzato nei corti (Davide Gentile) punta su una storia così basilare, su un’idea interessante ma ribadita ad nauseam spolpandone ogni possibile metafora (uno squalo intrappolato in una piscina di una villa abbandonata), su una storia di formazione delicata quanto automatica. Un po’ di voglia di spaccare tutto il giovane cinema italiano non ce l’ha mai? Giovani attori molto generosi, al contrario di Virginia Raffaele che si conferma inadatta al grande schermo.

EMILY

Della biografia di Emily Brontë (diretta da Frances O’Connor) piace che non spacci Cime tempestose per un romanzo piacevole e sentimentale. Del resto Charlotte, nella prima scena (si parte dal letto di morte di Emily), le chiede come abbia potuto ideare qualcosa di così sordido. Non a caso l’autrice è impersonata da Emma Mackey, che ricordiamo bene in Sex Education già indipendente e ruvida. Spigolosa anche qui, riesce a parare i rischi da feuilleton (e ce ne sono) con il piacere di rovinare le feste e la buona società.

PEDRO-MANIA

Tornano in sala cinque film storici di Pedro Almodóvar in versione restaurata. E cioè L’indiscreto fascino del peccato, Che ho fatto io per meritare questo?, La legge del desiderio, Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Tacchi a spillo. Si tratta di recuperare il cinema incendiario degli esordi e capire (di nuovo) quanto fu sovversivo per il post-franchismo e per l’Europa tutta, mentre si srotolava la transizione dai blocchi ideologici a una nuova era dal futuro incerto. Il lavoro sulle identità sessuali, sulla struttura del racconto, sulla cinefilia punk, sul design e sui colori, è lo stesso che troviamo oggi più formalizzato, forse ammaestrato, talvolta potentissimo, senza il salutare (sebbene irritante) spirito anarcoide – specie nei primi tre titoli elencati.

ANIMAL HOUSE

Nella retro-mania che sta ormai seducendo sale e pubblico di questi tempi salutiamo con piacere il ritorno di un cult movie che tutti pensiamo di conoscere a menadito, forse meno noto però alle nuove generazioni. Il tempo passa e, se lo spirito irriverente e la caciara animalesca da universitari sbronzi appare inevitabilmente saccheggiata da tanti imitatori a seguire, ne guadagnano invece la lucidità politica e il neo-classicismo comico di Landis. Con attenzione al personaggio-chiave: Niedermeyer, sadico americano medio militarizzato e bifolco, che fa ridere ma fino a un certo punto. Una satira anti-Trump quasi 40 anni prima di Trump.

LA DIPLOMATICA

Prima stagione con botto finale (cliffhanger financo eccessivo) di una strana creatura che appare un frutto più creativo che algoritmico dello streaming, non foss’altro che per la luminosa, ironica, tosta e umanissima Keri Russell, che già ci aveva avvinto in The Americans. Quasi come una nemesi di quella spia russa irriducibile fino all’ultimo, qui si trova invece a fare il contrario: mediare, oliare, fare compromessi, convincere, smussare le leadership mascoline, Sullo sfondo, il multilateralismo caotico del 2023 (si parla anche di guerra in Ucraina). Divertente, intelligente, un po’ monotono nei continui confronti dialogici in interni, trova comunque il modo giusto per la serialità di processare la politica internazionale attraverso l’intensificazione narrativa.

SERVANT

Arriviamo in ritardo al bilancio della serie, conclusa qualche tempo fa dopo quattro stagioni horror e satiriche. Troppe. Ma il giochino del sadomasochismo borghese (tra food porn, Polanski, ossessione familista, rapporti di classe) ha funzionato così bene che forse possiamo chiudere un occhio sulla conclusione anodina. Come sempre accade, quando il fantastico passa dall’esitazione alla spiegazione soprannaturale, cede interesse. Rimarranno tuttavia nella memoria i ribaltamenti concettuali d’impronta Shyamalan (produttore e autore di alcuni episodi, come anche la figlia, a prima impressione regista di talento) e la sarcastica claustrofobia onirico-sociale ideata dal creatore Tony Basgallop.

GENERI, POLITICHE, COMUNITÀ IN CONFLITTO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

GLI SPIRITI DELL’ISOLA

Ossessionato dalle simmetrie e dai concetti che vengono frammentati e affidati a singoli personaggi, McDonagh torna nella sua Irlanda teatralizzata e compone un raccontino dell’assurdo amato da tutti. Purtroppo, però, non basta un protagonista che si mozza le dita per ferirci veramente. E nemmeno le mossette di attori che scambiano l’ironia beckettiana per umorismo dark commestibile. Non parliamo poi dell’ecumenismo paternalistico sulla guerra irlandese: un po’ colpa di tutti e in fondo dei soliti maschi bellicosi? La tragedia di un popolo barattata per apologo che distribuisce le colpe facili facili.

BUSSANO ALLA PORTA

Passo indietro sconcertante di un autore sempre un passo avanti, specie nei film più vituperati e sabotatori. Autocitando The Village, E venne il giorno e Signs, Shyamalan scoperchia la sua dimensione politica ma offre il fianco ai pericoli. I suoi aggressori gentili, alcuni omofobi altri simpaticamente folk, sono biblici fin dalla prima mezzora, senza nessuna rivelazione cinefila. Sarebbe comunque solo un capitolo più standard del solito se non fosse per il rischio (non evitato neanche facendo ricorso a qualche effimera ambivalenza) che diventi il cult millenarista dei Qanonisti. Benissimo satireggiare l’élite borghese che ama Pfizer e Biden (sebbene bastasse Servant), ma far torturare due gay con il sorriso sulla bocca e glorificare l’indole compassionevole del potenziale martire omofilo sembra la cosa più cringe che M. Night abbia mai fatto. Poi ognuno scelga con che occhi guardare, naturalmente, ma la lezione scopertissima sul concedere fiducia ai discorsi che non vogliamo ascoltare è un tradimento dell’ambiguità shyamalaniana.

GIGI LA LEGGE

Il vero film del momento è il terzo dell’inclassificabile Alessandro Comodin. Ogni discorsino da convegno sui confini tra reale e finzione del doc contemporaneo viene centrifugato dalla spiazzante autenticità astratta del mondo messo in scena. In una provincia friulana che si situa tra Twin Peaks, Bruno Dumont e la natura di Apitchapong W., si muove Gigi la trottola (o Gigi il polizotto) tra strani suicidi, tempo perso nell’abitacolo della volante e surreali dialoghi col vuoto o con la ricetrasmittente. Appena pensi che sia un ritratto umoristico di un fool ti ritrovi di fronte alla complessa, inquietante umanità del protagonista, che è quel che sembra e fa esattamente la vita che vediamo davanti allo schermo. Eppure è come una terra vista dalla Luna, o quanto meno una realtà duplicata cui attingiamo senza essere davvero vicini a toccarla.

GREAT FREEDOM

Arriva su MUBI il candidato austriaco all’Oscar 2022, una storia esclusivamente al maschile che racconta la persecuzione e la vita carceraria di un omosessuale dal dopoguerra a fine anni Sessanta. Spedito direttamente dal campo di concentramento alla cella (in democrazia puoi tornare a essere ebreo ma non gay), Hans non può fare a meno di desiderare, e rifiuta la deprivazione sessuale. Incontrerà amanti e amici, uno in particolare che gli farà trovare la libertà dietro le sbarre. Ecco la differenza tra i film “civili” che fanno il compitino e i film che se ne fregano di illustrare tutto, preferendo spiegarsi con il cinema (inizio e finale in tal senso sono da proiettare nelle scuole di regia).

YOU PEOPLE

Il materiale c’era tutto: una commedia Netflix in epoca di segregazione reciproca tra gruppi sociali e culturali, una storia d’amore alle prese con quest’America impazzita e rancorosa, una satira delle due borghesie (ebraica e black) vittime degli stereotipi e del reciproco hate, un sacco di facce che si è felici di ritrovare (da Julia Louis-Dreyfus a Eddie Murphy, da Nia Long a David Duchovny, con un cammeo persino di Elliott Gould). Purtroppo una regia/montaggio da studenti del college e un terzo atto irricevibile sprecano il meglio. E Jonah Hill dovrebbe capire che ormai a 40 anni la recitazione nerd non funziona più.