Visioni Riflessioni Passioni

FRAMMENTI DEL CINEMA ERRABONDO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

EL CONDE

Premiato stranamente a Venezia per la Miglior Sceneggiatura (immaginiamo non per motivi tecnici, essendo volutamente squilibrata e libera, ma per l’idea narrativa), il nuovo Larraín conferma la lucidità biopolitica dell’autore cileno. Letteralmente post mortem, El Conde conferma la visione della storia cilena – e novecentesca in generale – come intimamente legata al corpo e alla sua dissoluzione. Non solo Pinochet è un vecchio, laido vampiro che non ha nemmeno il coraggio lasciarsi morire, ma si inscrive in una genìa di sfruttatori, torturatori e prevaricatori che solo l’horror (sociale) può descrivere. Ciò che ha attenuato gli entusiasmi critici è probabilmente la martellante monotonia di un film-satira da due ore, ma ciò appartiene più alla disabitudine nei confronti di questa struttura (che peraltro non nega lo splendore visivo murnaiano e sjostromiano) che alla riuscita dell’operazione. Costruito come una pila di paradossi che si spostano l’uno sull’altro, legati spesso a gag e repentini cambiamenti di prospettiva, El Conde esplora l’allegoria alle estreme conseguenze: creare un paio di allegorie è facile, usarle come materiale di base e invertire il rapporto con la narrazione letterale tutto un altro paio di maniche. E così, la stirpe della strage e della tortura, dell’avidità e del potere non viene (come si poteva temere) rappresentata e derubricata come banale ur-fascismo metastorico, bensì come una continua attività contro-rivoluzionaria che si chiama in tutto il mondo e in tutti i tempi: conservazione.

MANODOPERA

Negli anni è aumentato il rischio di leziosità e sopravvalutazione della stop motion, come se la sola fatica nel realizzare questa forma di animazione fosse di per sé lodevole. Non è il caso di Alain Ughetto, che omaggia la durissima storia di emigrazione dei parenti italiani in Francia con una forza espressiva e narrativa straordinarie. Pieno di dolore, umorismo, umanità, Manodopera riesce in particolare nell’impresa di restituire l’autenticità di un mondo che l’occidente ha del tutto sepolto nella memoria ormai perduta di quelle generazioni, riuscendoci attraverso una tecnica (e una struttura narrativa talvolta astratta) che avrebbero dovuto sottrarre realismo. Sorpresa di questo scorcio post-estivo.

FRAMMENTI DI UN PERCORSO AMOROSO

Scommessa vinta di Chloé Barreau: unire l’archivio di immagini e lettere di ex amanti che la regista ha maniacalmente conservato negli anni con le interviste agli stessi, invecchiati di oltre vent’anni. Pur con qualche sbeccatura compositiva (troppa musica) e forse mancando un più radicale discorso sull’archivio personale (molto presente invece nei migliori doc contemporanei), il film seduce e funziona. Un po’ perché è come se si riconfermasse come vero uno stereotipo antropo-cinematografico (i francesi pensano e raccontano l’amore meglio degli altri) e un po’ per gli squarci di umanità degli intervistati: chi sorride del sé stesso giovane, chi non l’ha superata, chi è ancora innamorato, chi ormai se ne frega del tutto, chi – semplicemente – capisce che così è le vita.

UNA STERMINATA DOMENICA

Un tempo i critici stigmatizzavano il “cinemino CSC” minimalista e timido che sembrava uscire dagli allievi della Scuola. Da vari anni l’aria è cambiata. Autori come Alain Parroni masticano un linguaggio arthouse internazionale in grado di densificare e elettrizzare la dimensione formale anche se le storie raccontate (come questa) non hanno particolare quantità narrativa. In più, le ambizioni sono ammirevoli: l’idea di raccontare una gioventù indecifrabile e tagliata fuori cercando di colmare il divario tra il cinema di Claudio Caligari e la Roma della linea Fellini/Sorrentino è tanto audace quanto generosa. Film più da esperire che da teorizzare, lascia buone sensazioni (attori compresi).

PATAGONIA

Altro esordio di qualità, stavolta di Simone Bozzelli, con una vicenda che ricorda qua e là il bel Calcinculo di Chiara Bellosi del 2022. Proprio questa Italia marginale, rave, estraniata, polverosa, extra-urbana, da Nomadland della provincia nostrana, colpisce per originalità ed esattezza iconografica. Meno il rapporto tossico tra i due protagonisti, uno carismatico e uno soggiogato, che pare un’ossessione della nostra cinematografia (dal Sorpasso a L’imbalsamtore: che sia una metafora eterna dei seduttori politici e degli elettori plagiati?). Occhio: stiamo coltivando un blocco di nuovi e giovanissimi attori da valorizzare. Speriamo se ne accorgano anche le produzioni più grosse.

L’EXPERIENCE ZOLA

L’ammazzatoio di Zola è uno dei romanzi chiave per capire le trasformazioni della società moderna (e il suo lato oscuro) nel secondo ‘800. Matarrese racconta il progetto di una versione teatrale con una regista e un attore la cui vicenda dietro le quinte si plasma via via in modo simile al dramma. La quarta parte ogni tanto viene giù e tra teatro e cinema i confini svaporano. Se non fossero idee antichissime, saremmo più euforici, anche se la forza espressiva degli interpreti colma alcune ovvietà drammaturgiche. Ma preferiamo il bellissimo Siamo qui per provare di Greta De Lazzaris e Jacopo Quadri, non lontano come ispirazione.

L’INVENZIONE DELLA NEVE

C’è una dimensione teatrale anche nel ritorno sul grande schermo di Vittorio Moroni. La storia di una madre “negata” e del suo intermittente rapporto con la figlia viene gestito in due modi: uno è fortemente teatralizzato, e ruota intorno alla performance anti-realista di Elena Gigliotti, la protagonista; il secondo, metaforico, viene affidato alle animazioni di Toccafondo, come sempre convincente e qui forse più oscuro del solito. Piccolo, piccolissimo film, che testimonia però della coerenza del regista lombardo.