Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
CAPTAIN AMERICA: BRAVE NEW WORLD

Non sappiamo se questo pigrissimo e poco ispirato capitoletto col nuovo Captain America sia così dimesso perché serve a imbastire una riorganizzazione Marvel o se la crisi di creatività plateale del MCU prosegua imperterrita. Certo, tra le sorprese già ospitate dal trailer e uno stile quasi da soap opera del primo pomeriggio, ogni elemento “erogeno” del cinefumetto viene raffreddato e depotenziato. Persino il Red Hulk che ruggisce sulla Casa Bianca in rovina (quale metafora più adatta all’oggi?) è un’immagine potente ma quasi nascosta tra le pieghe di un lavoro che risente dei lunghi tempi di lavorazione e di un cast svogliato. Ci vorrà ben altro per i nuovi Avengers, che per di più atterreranno in un mondo politicamente stravolto (che fatica per il cinema inseguire novità che cambiano a ogni ora).
THE GIRL WITH A NEEDLE

Mettiamo subito da parte i pregiudizi morali. Non è l’eventuale estetismo il problema del Novecento oscuro e repellente di Van Horn. Casomai è la cosa più attraente, perché un autore danese formalista, citazionista, provocatorio, estetizzante qui a bottega interessa mille volte di più di qualsiasi Walter Salles. Ma non tutto luccica. ed è un peccato non aver spinto l’intera texture sul bellissimo “horror feuilleton” della prima parte, in un’Europa post-Prima Guerra mondiale dove i reduci feeak e la povertà più nera danno vita a un mondo inaccettabile. Tutta la vicenda dell’assassina di bambini, invece, ingolfa il progetto, anche se poi il finale riapre una finestra mélo non banale. Una volta si diceva “interessante” per salvarsi in corner. Ecco: interessante.
IO SONO ANCORA QUI

La solita tassa che paghiamo al cinema d’impegno civile e al cinema da festival. Walter Salles si conferma cineasta con precisi limiti (probabilmente auto-imposti), testardamente interessato a racconti esemplari serviti con schematismi narrativi e retoriche stilistiche binarie, didascaliche e ridondanti. Chi (a parte Trump, Putin e Bolsonaro) potrebbe aver da ridire rispetto al messaggio contro le dittature che la storia di questa donna-coraggio brasiliana ci tramanda? Ma nel 2025 non è pensabile insistere su film-dossier di questa prevedibilità, dove niente ha la forza drammatica o lo “scandalo” umano della libertà che se ne va.
BROKEN RAGE
Dio protegga Takeshi Kitano. Ormai relegato nella nicchia cinefila e lontano dalle ampie distribuzioni d’essai di un tempo, l’irriducibile autore giapponese si ripresenta con un racconto di un’oretta. La prima metà è (sarebbe) uno yakuza movie, la seconda è la sua versione demenziale. Diciamo sarebbe perché – come notato anche da Marcella Leonardi – ci troviamo di fronte a due film comici, in verità. Il primo è la rarefazione glaciale delle già tipiche “gangster gag” di Kitano – che chissà come, riuscì all’epoca d’oro a mettere insieme umori di Melville e di Tati. La seconda rispetta i codici del Kitano “banzai” slapstick, con un paio di momenti ben oltre l’esilarante. Siamo fuori da ogni confine, nel mare aperto di un cinema personale che si reinventa ridendo a crepapelle.
BABYGIRL

Per carità, benissimo detestarlo o non trovarci nulla di eccezionale. Purché non si insista che si tratta di un raffinato thriller che ha smarrito la strada. Ma quale thriller. Non c’è una sola sequenza che non sia satirica, deformata, inquinata, inversa, o che vada presa alla lettera. Tutto Babygirl è una anamorfosi. Una parte è un’analisi divertita dei guai in cui ci si caccia quando si insegue un desiderio sessuale poco tollerato dalla società (anche in epoca di sessuologia woke); un’altra è un meta-film su Nicole Kidman, sul suo statuto di celebrity, sui gossip intorno al suo aspetto “chirurgico”, sulla sessualizzazione del suo ageing. Per fortuna la giuria di Venezia è stata più avanti di tanti critici, e ha capito che cosa ha fatto l’attrice, premiandola.
UNA VIAGGATRICE A SEOUL

Hong Sang-soo distribuito! Evvai. Certo non sarà facile per i meno avvezzi “abitare” questo racconto molto lieve e molto matto su una francese che non si sa perché si trova in Corea, non si sa come riesce a diventare insegnante della sua lingua per coreani agiati, non si sa in quale relazione sia con il ragazzo che la ospita, non si sa che cosa ha fatto prima e cosa farà dopo. Il tutto attraverso 3-4 macro-sequenze lunghissime a piano fisso, dove Rohmer si incontra a passeggio con Mazursky, senza nemmeno un’oncia di preoccupazione su che cosa si dovrebbe aspettare il pubblico. Adorabile.
DIVA FUTURA

Si oscilla tra la soddisfazione di vedere finalmente raccontato il porno italiano (qui e altrove) e la sensazione che ancora la chiave (ehm) non si sia trovata. L’osceno resta osceno, si può solo alludere (ma: o troppo o troppo pop-porno). L’orribile verità delle luci rosse sembra una chimera, sfuggente come un orgasmo fake davanti alla camera. La storia di Schicchi è un po’ il solito Groenlandia-movie su un tipo che si inventa un mondo spettacolare e rovescia l’Italia bacchettona, e un po’ un requiem su un Paese cattolico dove le contraddizioni sul corpo e le sue rappresentazioni sono troppo radicate. Nessuno dei due funziona, anche per una struttura narrativa sballata. Sarà per la prossima.
THE ORDER

Direttamente in piattaforma un titolo in concorso a Venezia 2024. Non cadiamo nel giochino “ci doveva stare/non doveva essere selezionato”. Diciamo solo che James Gray (di cui si è fatto il nome) è lontano anni luce. E, nella sua rude trasparenza, non eguaglia nemmeno altri “thriller con neonazisti” come Dead Bang del grande John Frankenheimer. Justin Kurzel tende sempre a evocare “cinemi” che poi regolarmente si stemperano nella convenzionalità. Forse ci sarebbe voluto un Craig Zahler per fare davvero male. Certo non aiuta un Jude Law tutto maledettismo e occhi stralunati. Alla fin fine: da piattaforma.
UNA BARCA IN GIARDINO

Che periodo fantastico per l’animazione. Capita persino che un animatore 86enne come Jean-François Laguionie giri proprio adesso il suo miglior film. Si tratta della storia di una ossessione quasi casuale, costruire una barca dentro un cortile di una casetta in provincia. Un kolossal in piccolo, un lavoro di bricolage che diventa troppo grande, fino a che – senza eccessi o piagnistei – quello spazio e lo spazio domestico/famigliare si confondono e si inclinano (o incrinano). Sguardo asciutto ma commosso sulla famiglia, una molecola di Paese e di generazioni narrata con un tratto ceruleo, lineare, bello, tipico di questo autore.