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RITORNI (ALLE ORIGINI) E RIPARTENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

RITORNO A SEOUL

Basterebbero i primi due minuti, con lo scambio di soggettiva sonora e una canzone struggente, a dire del talento di Davy Chou (regista franco-cambogiano, ultra cinefilo e cosmopolita). Anche la protagonista, interpretata con formidabile umanità da Ji Min-Park, è sospesa tra Europa e Oriente, Francia e Corea, con tutti i problemi di ritorno alle radici e alle origini. Invece che un dramma lamentoso sull’espatrio, questa sorprendente e malinconica opera sghemba preferisce atmosfere sospese, spazi che assorbono emotivamente, scambi umani inconsueti. L’idea vincente è “lottare” col carattere del personaggio: adorabilmente spigolosa, lei; tenero, sinuoso, il film. Era al Certain Regard 2022 e nella short list dell’Oscar straniero 2023. Avercene.

BEAU HA PAURA

Trattato teorico (un po’ sfuggito di mano) di come comico e horror convivono, il film di un Aster in totale libertà creativa verrà rubricato tra i deliri di questa strana epoca dove dovrebbero dominare gli algoritmi e invece ci si lamenta perché dominano gli autori. C’è di tutto, in questa storia divisa in quattro rigidi atti (altro che flusso di coscienza), dalla psicanalisi alla metafora del capitalismo, dal racconto americanologico all’avanguardia. Ma, a furia di pensare al regista e ai suoi demoni edipici, ci si è forse dimenticati la pista principale: e se fosse un nuovo capitolo del Joaquin Phoenix universe? In fondo anche Joker aveva seri problemi con la mamma con risate fuori posto, e ci sono connessioni evidenti con Lei, Vizio di forma e The Master per non parlare dell’operazione Io sono qui! che pare un prequel situazionista dell’allucinazione di Beau.

I GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 3

Ormai quelli del MCU non sono più da tempo racconti unitari ma collage di storie che si fermano e ripartono almeno 3-4 volte durante le lunghe ore di visione, un puzzle di cortometraggi legati faticosamente da una storyline sempre uguale (un cattivo mistico che vuole distruggere e rifare il mondo). Se è un’estetica, ridateci il postmoderno. James Gunn punta tutto su Rocket per aprire più spudoratamente la cassaforte infantile (un quarto di film è fatto di peluche parlanti, cui si aggiunge il cane più fastidioso e peggio ripreso degli ultimi anni), anche se poi non resiste a un po’ di salutare gore in salsa “suicide squad”. Dopo due ore e mezza di discontinuità tra cose riuscite (l’iconografia dei pianeti) e cose pessime (la musica usata a casaccio), non si sa se piangere l’addio dell’autore visionario o augurarsi un produttore showrunner più dispotico di Kevin Feige.

L’AMORE SECONDO DALVA

Cambio di sguardo. Lontana dal cinema dell’indignazione programmata, Emmanuelle Nicot decide di invertire il punto di osservazione su un grave caso di abuso famigliare e analizzare una piccola vittima che non sa di esserlo. Che anzi difende il carnefice, ingannata da un amore perverso e violata nello spazio di crescita, infine costretta a credere a una realtà umana alternativa. Il percorso di recupero, anch’esso, deve passare attraverso tappe abbastanza inedite, poco pedagogiche. Piccolo film, che non punta al capolavoro ma ha un partito preso di racconto che merita lodi sincere.

PLAN 75

Ingegneria sociale o diritto all’eutanasia? Il cinema giapponese, spesso alle prese con la concettualizzazione narrativa della morte (qualcuno ricorda Departures?), torna ad affrontare il problema di petto: che ne sarebbe di una società che spingesse gli over 75 ad ammazzarsi dolcemente per levarsi di mezzo e lasciare spazio ai parenti più giovani? Chie Hayakawa rischia parecchio, per esempio la demonizzazione della morte decisa consapevolmente, nel momento in cui mette sull’altro piatto della bilancia affetti inter-generazionali e filosofia della solidarietà. Ma la quieta calma dello stile stempera il conservatorismo e vira verso la fantascienza alla Ishiguro.

GLI ULTIMI GIORNI DELL’UMANITÀ

Il bello del film-vita di Enrico Ghezzi è che ha reso ghezziani tutti coloro che lo circondano e che hanno costruito con lui e per lui il montaggio. Dalla famiglia (con la figlia Aura al centro di gravità) ai collaboratori, registi, amici che hanno aiutato. In mezzo, un oceano in-archiviato di immagini che seguono varie traiettorie tra le quali spiccano: estratti di film (che esplorano la cinefilia ghezziana da programmatore), home movies (i più struggenti, dove scopriremo come spiare da un buco della serratura può essere un gesto di amore paterno), found footage, riprese teatrali (un Ronconi strepitoso), lacerti di Ghezzi-video, testimonianza riprese alla buona da incontri di grandi autori, per esempio Straub e Huillet. Un film di fantasmi, dove torreggia lo spettro fatico dell’autore, che si esibisce senza esibirsi, con un passato che non è più presente.