Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
ADOLESCENCE

Capace di generare un dibattito giornalistico e sociale molto ampio, la miniserie Netflix – arrivata senza apparente clamore – assume vari punti di vista: giovanissimo criminale, famiglia, polizia, educatori. Quattro episodi di circa un’ora girati ciascuno in piano-sequenza. Sebbene lodevole, il progetto tecnico appare superfluo, o – peggio – segnato da quell’ideologia dell’autenticità che continua a costituire un’evidente buccia di banana, poiché nasconde altri problemi (per esempio la scarsa credibilità del contesto famigliare, estraneo alla gran parte delle statistiche e degli identikit sociali). In ogni caso un buon lavoro, a patto di non farne un esempio di sociologia del presente.
DIECI CAPODANNI

Anche la serie di Rodrigo Sorogoyen, Sara Cano, Paula Fabra (citiamo tutti perché si rischia sempre il famoso “effetto Mark Frost”, secondo cui si ignorano gli ideatori meno famosi) si potrebbe cinicamente riassumere con “nulla di nuovo ma detto benissimo”. Né lo schema narrativo (usato anche in Italia in passato) né i drammi di coppia offrono alcunché di innovativo, così come gli eventi storici sullo sfondo (pandemia in primis) appaiono gestiti in modo elementare. Tuttavia l’intensità recitativa, la credibilità sentimentale, la finezza dei personaggi e dei racconti, l’ottima gestione del tempo diegetico ne fanno una serie notevole e potente, da cui è difficile staccarsi.
GRAND THEFT HAMLET

Un documentario machinima? Si può fare. Se la cosa più affascinante dei videogame per chi non gioca sono proprio le latenze e l’iconografia virtuale come forma di scenografia: l’idea di usarne l’architettura grafica per la realizzazione di una performance teatrale è sorprendente. Non vediamo alcuna immagina generate dal vero – che per un documentario non di montaggio apre scenari teorici parecchio interessanti – e ascoltiamo solo la voce dei giocatori. La morte è dietro l’angolo, con gli attacchi improvvisi e violenti di altri giocatori alle prese con le proprie linee narrative. Alla fine vince Shakespeare, che evidentemente sopravvive “adattandosi” a ogni scenario, compreso questo. Più bello da raccontare che da vedere? Probabilmente sì, ma non ne attutisce la forza.
PARADISE

Dan Fogelman sa il fatto suo. Ormai riconoscibile per alcuni tratti ricorrenti (la caduta di mascella alla fine del primo episodio, la gestione di due piani temporali paralleli, il mix tra TV tradizionale e serialità complessa), questa volta si applica al fanta-thriller. Non ci sono dati particolarmente sconvolgenti, e del resto la distopia si nutre di un visibile accumulo di cliché del genere. Il crescendo, però, funziona. E proprio l’assenza di orpelli, il disinteresse a soluzioni quality (non troverete piani-sequenza lunghi mezzora), la fedeltà al racconto per il racconto suonano oggigiorno come medaglie al merito. E il settimo episodio è di efficacia impressionante.
THE LANDMAN

Continua la mitografia dell’America contemporanea da parte di Taylor Sheridan. Anche qui si conferma scrittore di qualità formidabili, in un universo petrolifero che imita, deformandolo, quello dei ranch di Yellowstone. Sheridan individua culture e racconti estranei a tutta la serialità progressista, e non fa mistero della sua ammirazione conservatrice per Stati Uniti capitalisti e duri. Tuttavia ne ammette contraddizioni, ingiustizie, crudeltà, e offre sempre ritratti sinceri e possenti delle altre comunità. Quel che conta, comunque, è la fluidità romanzesca, che fa perno su personaggi senza peli sulla lingua tra i quali prevalgono donne indomabili e carismatiche.
NICKELBOYS

Complice la distribuzione diretta su Amazon Prime Video, la trasposizione del famoso (e bellissimo) romanzo di Colson Whitehead è passato sotto silenzio. Eppure, in epoca di stupori tecnici, sarebbe stato interessante analizzare con più calma il primo film della storia a far dialogare due soggettive per tutta la durata del racconto. Visto ciò che succede ai due amici maltrattati e segregati nell’istituto di rieducazione razzista della Nickel, per una volta l’acrobazia stilistica è giustificata: è proprio dallo sguardo dell’uno sull’altro, e dal gioco sulle identità negate dell’afroamericano, che nasce il discorso di fondo. C’è un’aria da Barry Jenkins fin troppo esibita, ma RaMell Ross capitalizza al meglio il suo curriculum di fotografo, documentarista e accademico.
MISTERI DAL PROFONDO

Il cinema da piattaforma appare sempre più schizofrenico e incapace di generare tessuto discorsivo. La fantascienza di The Gorge, in verità, ha un tiro da b-movie che non dispiace affatto. L’idea scenografica della gola profonda abitata da mostri, con i due avamposti (USA/Russia) che si guardano e si attraggono, funziona da tutti i punti di vista: narrativo, stilistico, meta-cinematografico (c’è anche una citazione curiosa dei precedenti ruoli che hanno reso noti i due protagonisti Anya Taylor-Joy e Miles Teller). Peccato che via via l’impianto venga negato, in nome di un survival da apocalisse zombi non sostenuto né dal budget né da competenze action. E alla fine l’inno all’umanità che batte la geo-politica diventa stucchevolmente fiabesco.