Visioni Riflessioni Passioni

URAGANI (DI SENSO)

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TWISTERS

Lo strepitoso capostipite di De Bont sancì il “blockbuster teorico” degli anni Novanta (meccanismi spettacolari che fungevano da documenti consapevoli dello stato dell’arte dell’effetto speciale e da meta-sfide supercinematografiche: filmare il vento una di queste). Il sequel trent’anni dopo cambia obiettivo: accenni minimali al cambiamento climatico e attenzione invece alle “due Americhe” (meteorologia scientifico/progressista contro domatori cowboy di tornado). Vincono i secondi, l’America tanto profonda e radicata da trivellare un pickup sul terreno per non farsi portare via dagli uragani (della Storia). Intelligentissimo fingendo di essere rozzo. Con un pizzico di cinefilia, tra Oz e Frankenstein.

HORIZON – CAPITOLO 1

Avremmo dovuto analizzare il doppio capitolo di quattro, ma l’insuccesso ha rimandato a data da destinarsi il secondo episodio. Del primo si può dire (a parte un curioso e accumulatorio teaser finale del numero due) che si tratta di un’opera forse leggermente diversa da quel che ci si aspettava. Assai più “manniano” che “eastwoodiano”, trova nella riflessione sulla landa e sulla proprietà un fulcro di racconto essenziale, che tiene a bada i molti satelliti narrativi centrifughi e bruscamente ellittici. Niente western crepuscolare e malinconico, molta più azione controversa e durezza da frontiera, campo in cui funziona benissimo. Lo spirito è comunque seriale a tutti gli effetti, tanto da farci chiedere (visto che la spettacolarità e il formato appaiono più claustrofobici del previsto) se non valesse la pena pensarla da subito come una serie prestige da piattaforma, ovvero ciò che Warner adesso cercherà comunque di ottenere dal girato.

FLY ME TO THE MOON

Una volta Gualtiero De Marinis scrisse di non ricordo quale film un commento che suonava più o meno: “è talmente pedante che se non capisci il messaggio viene a bussarti a casa per ripeterlo”. Ecco, il film di Greg Berlanti è così. Da una parte impagina il tutto come un classico platform movie (cioè una specie di stile da vecchio film per la TV però con valori produttivi da 100 milioni di dollari), dall’altra utilizza la storia della “pubblicità della Luna” come un lungo, snervante discorsetto sui media, sulla pubblicità, sull’America, sul concetto di falso storico. Almeno si può vedere come un “documentario” su Scarlett Johansson: i suoi oufit, i suoi accenti (in lingua originale), i suoi ritmi da screwball meritavano di meglio.

IMMACULATE

C’è che si appassiona a questo tardivo ritorno (mainstream) della nunsploitation, che però dell’epoca d’oro possiede solo le nun e ben poco del godurioso expolitation necessario. Vale anche per l’horror con Sydney Sweeney, reduce da una commedia di successo e subito affossata dal dozzinale “convento delle torture” cui non si sa bene perché si è prestata. Magari per noi italiani il tutto peggiora a causa della solita rappresentazione caricaturale della religiosità nazionale (con l’aggravio degli attori locali mal gestiti), ma anche volando più alti – pensiamo al messaggio anti-patriarcale – si rimane con un crocefisso di plastica in mano. Praticamente il peggio dell’horror commerciale mescolato al peggio del prestige horror.

GLI INDESIDERABILI

Note dolenti. I dubbi che già si insinuavano nel troppo elogiato I Miserabili (non molto dissimile dal cinema della banlieue che sembrava aver detto quasi tutto negli anni Novanta), si confermano con l’opera seconda. Sia pure aperto e chiuso da due sequenze cinematograficamente lucide e forti, il lavoro di Ladj Ly rimane ancora a un livello schematico di rivendicazione sociale e urbana. Giustissima, s’intende, ma indecisa a metà strada tra la scelta verbocentrica del socialismo di Guédiguian e l’estetismo rapinoso di Romain Gavras.

ERA MIO FIGLIO

Eccolo, il famoso cinema medio che nelle sale non esiste(rebbe) più. Ma chi se lo fila oggi, un film introspettivo, autunnale e soffuso come Era mio figlio di Savi Gabizon? Peccato, perché la storia di un padre che scopre di avere un figlio adolescente quando questo è già morto, e viaggia cocciutamente a ritroso per catturarne tracce postume, funziona come dramma che si ferma a un passo dal mélo. La recitazione implosa di Richard Gere, che dona a un personaggio di potere tutta la vulnerabilità necessaria, è a sua volta un piccolo film-nel-film. Non un capolavoro, ovviamente, ma per l’appunto quel cinema che serve (o serviva) a fidarsi del grande schermo. E delle opere minori come compagne d’esistenza.