Visioni Riflessioni Passioni

VERITÀ NASCOSTE E TERRITORI (IN)ESPLORATI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

SKAM 5

Nella rotazione dei personaggi di Skam, in questa insperata quinta stagione della serie, tocca a Elia. Il problema trattato questa volta è di natura fisica e sessuale, scelto con sensibilità, coraggio e un pizzico di furbizia. Cambia qualche nome nel team creativo e forse si nota: non è facilissimo andare avanti in mare aperto senza il lavoro di adattamento pre-esistente. Risultato un po’ appannato. Intendiamoci, Skam rimane la serie teen migliore in assoluto, e ha probabilmente cambiato il modo stesso di guardare alla cultura adolescenziale e ai processi di autenticazione che ne stanno alla base. Il pattern, insomma, resiste così come resiste il piacere di guardare questo mondo. Peccato per alcune forzature drammaturgiche (il sub-plot sugli abusi del professore) e per i tentativi di legittimazione che nessuno chiedeva (il leitmotiv antonioniano).

VIDEODROME

Torna in sala il film più esemplare della filmografia di Cronenberg. In Videodrome ci sono tutti i temi, squadernati uno per uno: il rapporto carnale con i media; il mix di thriller, horror e fantascienza; la propensione a creare nuove forme cinematografiche; la tensione verso il film come installazione di arte contemporanea; il conflitto tra narrazione ed esposizione; l’indecidibilità del reale; la domanda filosofica sul mutamento dell’uomo nel contesto socio-tecnologico. A rivederlo oggi, colpisce in positivo la forza rozza e ruvida delle immagini, il procedere marziale dell’ultima, allucinatoria, mezzora. “Lunga vita alla nuova carne” urla Max Renn in una pulsione al tempo stesso rivoluzionaria e suicida. E Videodrome è anche scatola di attrezzi critici per Crimes of the Future, che se ne conferma eco malinconica, alla fine del mondo e alla fine del cinema.

PINOCCHIO

La poetica di Zemeckis è quella del contatto. Una filmografia spesa a indagare il ruolo delle immagini mainstream nel modellare l’immaginario collettivo: contatto tra reale e virtuale, autentico e artificiale, passato e presente, mondo concreto e mondo narrato. Alieni, cartoon, leggende, streghe, fantasmi, personaggi letterari o freaks solitari attraversano tutti la storia (americana) in contatto con l’aldiquà, essenziale per definirsi. Questa volta il regista (che scrive e produce) immagina un Pinocchio burattino animato come nel classico Disney (identico) ma trasportato nell’universo ibrido (live action o digitale) delle tecniche attuali. Ne esce un monstrum cupo, soffocante e troppo legato ai fili branditi da Disney+. Non so se possa essere interpretato, da proposta di Mariuccia Ciotta, come un’operazione simile allo Psyco di Gus Van Sant fatta su Collodi. Mi pare ardito, ma a Zemeckis una chance la concediamo volentieri. Ci penseremo su.

LOVE LIFE

Con film come questo il rischio di stereotipo culturale è dietro l’angolo, persino negli elogi. Vedendo Love Life ho pensato costantemente alla delicatezza del tocco, alla calma narrativa capace di sedare i momenti più traumatici per i protagonisti, alla serena compostezza delle inquadrature. Ma soprattutto ho pensato qualche volta a Ozu, qualche volta a Kore’eda e qualche volta a Hamaguchi, ovvero alcune delle non molte cose che so analizzare del cinema giapponese. Sono dunque certo che Kôji Fukada sia diverso da tutti (e lo è chiaramente) ma gli schemi mentali del cinefilo rischiano di inquadrarlo come una versione in minore di costellazioni più note. Sforzandosi di prenderlo da solo, in autonomia, il film costruisce un rapporto di sincerità e pacatezza con lo spettatore, accompagnando i suoi personaggi in un percorso di strettoie emotive e dubbi luttuosi, la cui qualità principale è quella di essere universali.

MAIGRET

La diarchia francese di cinema d’autore eternamente post-vague, da una parte, e cinema di genere (commedia e polar su tutti), dall’altra, è talmente stringente che ritrovare un po’ di cinéma de papa allarga il cuore. Ce lo restituisce Patrice Leconte, da sempre sottovalutato dalla cinefilia in quanto troppo borghese e troppo formale, con la sua versione di Maigret. Da Simenon ormai non si può trarre molto di davvero originale o sorprendente, ma bastano poche scelte per costruire un film riuscito. Malinconia, sì, ma quale? Quella di una Parigi renoiriana, di un Depardieu quasi postumo a se stesso, di un racconto sulla giovinezza che fugge troppo in fretta, lontanissimo da ogni piacere malizioso nello sbeffeggiare l’ipocrisia della società francese (à la Chabrol). Maigret ha una giusta misura, un’idea di cinema composto ed esatto, una sua crepuscolare dignità. Tanto basta.

WATCHER

Torna ogni tanto nel cinema di genere statunitense la paranoia verso la vecchia Europa (vedi Hostel o Midsommar). Qui c’è una giovane donna americana che segue il marito a Bucarest, città di origine di lui e spaventosa Urbe ex-sovietica, spoglia e noiosa, per lei. Non bastasse il sapore di est da farle venir voglia di suicidarsi, ecco che uno psicopatico molto hitchcockiano comincia a spiarla dalla finestra di fronte e probabilmente a seguirla per le orride strade. Sarà lui il serial killer di cui parlano i giornali rumeni? Raccontata così, sembra una vaccata eurofobica. In verità, si tratta di un discreto thriller la cui regista, Chloe Okuno, sfrutta al meglio l’architettura e gli spazi, oltre che un sound design tra i migliori (almeno per essere un B-movie). E il tema della mascolinità tossica – internazionale – per una volta è insinuato con sapienza. Certo, ci stiamo accontentando un po’, come accade quando quel che passa il convento abbassa le pretese.

MARGINI

Hardcore punk e cinema italiano. Già questo binomio ispira simpatia. Non siamo però di fronte a un manifesto di sudore e pogo dell’underground nazionale ma a una storia di musica e amicizia ambientata nei primi anni Duemila nella provincia toscana. La band protagonista è parte per il tutto di un movimento dal basso che sicuramente si può riconoscere negli scombinati personaggi di Niccolò Falsetti, tra la scarsità di risorse economiche, la separazione tra palco e vita, l’incomprensione della “maggioranza silenziosa”. Margini possiede meriti e limiti che coincidono con la scelta stessa del tono da commedia. Da una parte la chiave umoristica disegna un ammirevole sorriso sbilenco su una provincia meccanica troppe volte raccontata col digrignare dei denti; dall’altra lo humour diventa talco sulla pelle, simpatia a tutti i costi e assoluzione generalizzata del mondo che proprio l’HC voleva rifiutare.

PER NIENTE AL MONDO

Quasi sempre, qui a bottega odiamo i “finalmente”. Quindi non diremo “finalmente un bel noir italiano” perché ce ne sono già stati (Tavarelli, Alfieri, Cescon, De Angelis, Cupellini e altri). Però di serrati come questo di Ciro D’Emilio non poi tanti. Giocato su diversi piani temporali, e basato su una storia piuttosto originale (uno chef che finisce nel gorgo del crimine per motivi kafkiani e casuali), Per niente al mondo vive di messa in scena. Basterebbe la rapina finale, ma in generale mezzi espressivi alla francese (polar) e all’americana vengono utilizzati con secchezza, senza nemmeno mostrare troppo autoerotismo sulla bravura tecnica. Il nord-est ne è immancabile sfondo, anche se il regista è napoletano. Occhi sempre più aperti su Guido Caprino, figura attoriale ormai solidissima, un passo sotto lo star system.