Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
EUPHORIA 2
Pur senza la carica pornografica e virulenta della prima stagione, la creatura di Sam Levinson (e Zendaya) continua a produrre ottima serialità. Lo slittamento frenetico tra teen drama, serie shock, crime (più sviluppato stavolta, e non a caso) e tossicità varie funziona con intermittenze sempre più studiate. Dal punto di vista narrativo trionfa il montaggio alternato corale, dal punto di vista stilistico ricompaiono – forse meno esibite – le acrobazie di camera work che avevano portato la prima stagione ad essere analizzate nelle aule universitarie e nelle scuole di cinema. Per il resto potremmo parlare per ore di colori, fotografia, fashion, makeup e del caleidoscopio visuale che fa la forza di Euphoria, ma ci limitiamo a segnalare le ultime due puntate, con uno spettacolo teatrale che moltiplica e porta a vertigine la materia del racconto. Nel mentre, scorrono a commento musicale le note di Ennio Morricone, Nino Rota, Francis Lai, Georges Delerue, e altre colonne sonore famose e meno famose, con ghiotta cinefilia e piacevoli spiazzamenti audio-sonori. Menzione d’onore alle formidabili Maud Apatow e Sydney Sweeney.
PAM & TOMMY
Quel che doveva essere e quel che è stato. Quel che doveva essere: un American Crime Story dedicato al sex scandal di Pamela Anderson e Tommy Lee, un’indagine sulle origini del voyerismo Internet, una riflessione sul mezzo audiovisivo e sul fandom, una storia andersoniana di dropout e di poveri diavoli americani, una radiografia della celebrity culture anni Novanta, un racconto vintage sulla cultura pop di fine secolo, un ritratto di Pamela come vittima di un sistema mediatico brutalmente maschilista. Quel che è stato: tutta questa roba ma confusissima, scritta in modo scriteriato, girata con totale discontinuità tra un episodio e l’altro, dispersiva e magmatica. Detto questo, mentiremmo se dicessimo che non ci siamo divertiti, soprattutto grazie a Lily James, generosissima. Curiosamente, la serie comincia apparentemente incendiaria dal punto di vista sessuale (con tanto di pene “parlante” di Tommy Lee) per finire castissima: il video incriminato è fuori campo, il seno di Pam sempre occultato, la pruderie in soffitta.
FEDELTÀ
Il partito del disastro ha già spernacchiato la serie tratta da Missiroli e diretta da Cipani e Molaioli. E infatti non si può certo affermare che sia una serie riuscita, ma di certo aveva un progetto produttivo piuttosto chiaro: adattare il romanzo in direzione Sfumature (meno eros e niente sadomaso, ovviamente, ma l’estetica e le musiche sono quelle lì) e parlare di coppie precarie con desideri inconfessabili a un pubblico di trenta-quarantenni. Per una volta, insomma, niente teen e niente fantasy (non è che le altre serie italiane su Netflix abbiano del resto brillato). Irrita la Milano dei loft, delle gallerie e dei bistrot intellettuali – simile a quella di Supereroi, che però era più imperdonabile – ma se si abbandonano un po’ di pretese e si guarda alla cosa senza aspettarsi più di tanto c’è di peggio (almeno per chi si nutre del plancton audiovisivo ogni giorno della sua vita e ne vede di tutti i colori). Bisogna poi ammettere che almeno Fedeltà non fa parte di quelle “fiction” che potremmo vedere sui canali generalisti, capitate per caso sulle piattaforme (strategia Prime Video).
L’AMICA GENIALE 3
Terza stagione con un cambio importante in regia. Dopo Saverio Costanzo (che aveva anche compiti da showrunner) arriva Daniele Luchetti, che ha l’umiltà – e forse il mandato – di non modificare stile e impianto. Magari mancano i momenti più flagranti e stilosi, per esempio quelli delle puntate al mare realizzate da Alice Rohrwacher nella stagione 2, ma l’impianto regge, anche grazie a una direzione di cast molto attenta e a una ricostruzione storica che risente meno del solito della “rigatteria” da fiction Rai Uno. L’operazione ha sapore internazionale e così si spiegano i dialoghi crudi quanto nel romanzo e la scelta del sottotitolaggio, solitamente tabù per la prima serata della TV di Stato. In ogni caso la verità rimane sempre la stessa: mettere mano al fluviale romanzo in quattro parti di Elena Ferrante poteva essere una scelta suicida e un disastro annunciato, e invece si può affermare ormai che – giunti a una sola stagione dalla fine – L’amica geniale serie TV cade in piedi.
CHRISTIAN
Si è conclusa un po’ nell’anonimato della risposta critica e di pubblico questo interessante esperimento Sky. Tratta da una potente graphic novel di Mattotti e Piersanti, e diretta da un regista che sta caparbiamente cercando strade di genere atipiche in Italia (Stefano Lodovichi), la serie intreccia misticismo e suburra in un curioso mix tra violenza e miracoli probabilmente – fin dalle intenzioni – non lontano dalle atmosfere mainettiane. Edoardo Pesce e la conferma di un’ormai affermatissima Silvia D’Amico fungono da boa per l’impianto narrativo, che funziona a corrente alternata ma con una solidità estetica e diegetica innegabili. Manca forse l’elemento davvero sovvertitore, quell’andare fino in fondo che le serie italiane quality sembrano un po’ aver paura a mettere in atto (compresa la versione seriosa di questo: Il miracolo di Ammaniti, più a suo agio con l’ottimo Anna). Comunque, dal punto di vista industriale, è un bene la creazione di numerosi prototipi, segnale di curiosità non priva di qualche coraggio strategico.