Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
DEADPOOL & WOLVERINE
No, non è la prima volta che il MCU dimostra di aspirare a una fan base collocata all’altezza dell’enciclopedia pop di ragazzi delle scuole medie (o di adulti che ne sono nostalgici). Ma, scurrilità scatologiche a parte (mai visto un umorismo più reazionario di quello di Deadpool), l’idea di rendere testuale ogni discorso intorno alla Disney e farne un enorme giochino meta-narrativo è miserrima. Anche perché sfruttata al midollo. Il multiverso è ormai un semplice cubo che serve a recuperare qualsiasi personaggio senza nessuna regola interessante e, rispetto all’uso creativo che ne fanno per esempio gli Spider-Man animati della Sony, appare dilettantesco. Il vero discorso industriale da fare è un altro: si può notare che, dentro le IP (i supereroi Marvel/Disney), si esce dalla crisi rilanciando le poche IP che funzionano davvero. Ovvero le IP al loro interno si comportano internamente proprio come l’intera industria dell’audiovisivo quando cerca di sfruttare le IP per sopravvivere. Per il resto tra un film di due ore e un evento del Comicon ormai non c’è più una grande differenza.
DARK MATTER
Funziona meglio il multiverso della serie tratta dal romanzo di Blake Crouch (anche ideatore). In questo caso si parla di un fisico che costruisce una macchina in grado di generare un corridoio tra mondi alternativi, e che cede alla hybris finendo col generare troppi sé stessi. Sebbene lo stile sia talmente pigro e quadrato da candidarsi ad anti-complex TV, episodio dopo episodio questa fantascienza classica conquista proprio per la sua estraneità alle mode. Molto si deve a una coppia (Joel Edgerton e Jennifer Connelly) in grado di umanizzare personaggi poco più che legnosi, ma – nel contesto della produzione streaming contemporanea, totalmente priva di bussola – il tutto trova un dignitoso posto al sole.
REALITY
I rapporti tra file audio, podcast, registrazioni, documenti sonori e cinema si fanno più stretti. E l’intreccio con il sotto-genere dell’interrogatorio (da Una pura formalità al recente Upon Entry) si staglia sullo sfondo di questo esperimento di Tina Satter, i cui dialoghi in unità di tempo, luogo e azione sono fedelmente quelli di un’indagine reale. La domanda di base (il leak è giustificato se pensi che il tuo Paese sia sotto attacco?) si perde un po’ nel meccanismo “gatto e topo” tra agenti FBI e protagonista sospettata, ma la teatralizzazione dei rapporti di potere nell’America trumpiana riesce perfettamente (a cominciare dalla stanza spoglia e disabitata in cui si svolge il colloquio). Somiglia al Soderbergh recente senza averne però la forza politica. Performance sorprendente di Sydney Sweeney.
IL CASO YARA
Chi scrive ammette un impasse. Come si recensisce una docu-serie? Esiste un’estetica del prodotto? Ha senso cercarla? In sua assenza, pare che ci siano solo due strade: quella di analizzarne i contenuti giornalistico/investigativi o quella di giudicare la caratura morale dell’iniziativa. La seconda va scartata a priori: se avete visto anche solo 2-3 docu-serie sapete che gli autori passano con un carrarmato sulla sensibilità di chiunque, pena il rischio di perdere spettatori. Sulla prima, fortunato chi ha le competenze. Resta, quindi, da parte nostra giusto qualche annotazione narrativa e cioè: se il pur discutibile Sanpa aveva dalla sua la capacità di evocare il simbolo psicanalitico di una nazione (il patriarca e i figli metaforici da salvare), qui non si intravede una polarità così intensa, e si rimane confinati alla solita, italica provincia mostruosa. Oltre ogni ragionevole interesse.
UN PIEDIPIATTI A BEVERLY HILLS – AXEL F
I danni della nostalgia pop a tavolino. Quello che, al di là del titolo italiano, chiamiamo semplicemente Beverly Hills Cop 4, è l’ennesimo tentativo di Netflix di blandire gli abbonati over 50 con personaggi e storie anni Ottanta. Eddie Murphy, che con la sua casa di produzione sta gestendo da tempo la sua icona over-60 (in un triste mix di irriverenza giovanile fuori tempo massimo e stanchezza anagrafica), cerca di fare più chiasso possibile. Tornano anche gli attori di quarant’anni fa, in una parata del rimpianto che non ha la necessaria dignità per pensarsi come orgogliosamente anziana e post(u)moderna. Certo che con lo streaming-cinema a volte il concetto di usa-e-getta assume significati cosmici.