Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
L’ACCUSA
Questo film processuale su un caso di presunto stupro sta facendo arrabbiare mezzo mondo. Da fuori somiglia a un buon prodotto di cinema medio-autoriale francese. La coppia Yvan Attal (regia) e Charlotte Gainsbourgh (interprete di una figura non centrale ma importante) sembra confermarne la direzione poco “cinéphile” e molto drammaturgico-centrica. Le ambizioni invece si scoprono alte: cercare di capire in modo spietatamente oggettivo che cosa è successo una notte tra un ragazzo – poi accusato di stupro – e una ragazza. La mdp si ferma fuori dalla baracca dove avviene il tutto. E il processo può solo lavorare sulla verità giudiziaria. Ci sono due errori, uno della sceneggiatura (credere che si possa essere oggettivi al cinema: basta un montaggio tra due frame per non esserlo) e uno degli spettatori (che invece sono chiamati a interrogarsi, e se trovano risposte controverse scaricano la rabbia sull’autore).
COW
Animal cinema. Non è la prima volta che un documentario (Andrea Arnold, MUBI) tenta di ribaltare lo sguardo antropocentrico del film per aprire una “biodiversità” anche cinematografica (penso di recente a Gunda di Kossalovsky). La strada è però scivolosa: se da una parte la cronaca oggettiva di quel che accade alla mucca Luma non può che muovere a riflessioni intense – un ciclo di vita che di fatto è un ciclo produttivo, dove gli automatismi naturali vengono soggiogati (ma non annullati, si veda la monta) dal processo della fattoria – dall’altra è impossibile rimuovere la presenza antropica della macchina da presa. Lo sguardo bovino è uno sguardo neutro e incomprensibile, ci mette in questione ma filosoficamente non esprime nulla, per cui è una forma di passività facile da sfruttare per l’uomo. L’intrusione dell’atto del filmare, addosso alla mucca senza distanza, non può ovviamente essere altro che un tentativo di comunicazione che fallisce, ma qui senza prendersi la responsabilità di questa estraneità. E quando la mucca crepa davanti a noi, nemmeno il suo sguardo in agonia (ripreso impietosamente, quasi a sottolineare l’apparente imparzialità della mdp) ci dice nulla se non “sono morta, ora potete andarvene, grazie”. Il che forse era il senso del film o forse è la resistenza alla spettacolarizzazione di una mucca qualsiasi.
VOYAGE OF TIME
Con l’uscita, finalmente, di Voyage of Time del 2016, si completa la filmografia di Terrence Malick distribuita in Italia. Di Voyage of Time in verità ce ne sono persino due: un mediometraggio pensato per gli Imax (ora su MUBI) con la voce narrante di Brad Pitt; e un lungometraggio, quello di cui parliamo qui, con la voce narrante di Cate Blanchett (ovvero la precedente con l’aggiunta di altri 45 minuti in 35 mm). Che dire? Si tratta della trincea che divide malickiani da non malickiani. I primi troveranno questo poema visivo, teo-mistico e naturalista come un combattimento romantico tra il titanismo di Malick e la povertà ideologica del cinema contemporaneo; gli altri lo ridurranno a una versione deluxe di un doc National Geographic (che co-produce) con in più aspetti biblici fantasy. Chi scrive sta da sempre dalla parte dei primi, pur ammettendo che il problema si pone. Ma la verità è che con Malick e Herzog, anche quando vai a sbattere, esci con bernoccoli che ti fanno pensare a quanto sei fortunato di esserteli procurati e quanto preziosi siano nel panorama odierno.
SEANCE – PICCOLI OMICIDI TRA AMICHE
Ancora più di Dario Argento, sono gli argentiani a sopopolare ancora oggi nel cinema contemporaneo. Certo, bisogna avere il DNA, e se l’ultimo Argento ha momenti curiosamente fulciani, non tutti i registi sono come Edgar Wright che frulla i maestri dell’horror italiano mescolandoli al free cinema inglese. Simon Barrett, alla prima regia, reduce da alcuni buoni script di genere (il migliore è You’re Next per come ribalta le aspettative), qui sembra quasi poco interessato. Conduce in porto un Suspiria trasformato in teen slasher con qualche citazione, qualche discreto momento gore nella lunga scena finale, qualche godimento parziale. Ma siamo lontani da un horror significativo, come ormai del resto pochini ne vediamo.
NON APRITE QUELLA PORTA
Se ne sentiva il bisogno? No. Ora che lo abbiamo visto abbiamo capito che in verità se ne sentiva il bisogno? No. Quel che è peggio è il tentativo di vaga politicizzazione del tema: Leatherface vendica una vecchia mamma sbattuta fuori da casa sua dal capitalismo liberal e scatena un massacro contro un gruppo di giovani influencer democratici pronti a gentrificare la cittadina. L’idea è che – di fronte a gente così snob e odiosa – la simpatia per il mostro si crei in automatico, e forse di scoprire il trumpismo che è in noi. Il problema è che il film di Netflix è costruito in modo osceno, con una sotto-trama stile Halloween di David Gordon Green (che tenta di ricollegarci al capostipite) a dir poco inetta. Inoltre, la lettura ideologica era già ben presente sia in Tobe Hooper sia nei remake dei primi anni Duemila, in pieno post-11 settembre. PS. con la mania di re-intitolare i reboot allo stesso modo ora abbiamo tre film che si chiamano Non aprite quella porta, 1974-2003-2022.
LANDSCAPERS
Incomprensibilmente lodata dai più come una tragica e deliziosa miniserie su due “criminali inconsapevoli” e ispirata a un fattaccio di cronaca con protagonista una coppia di mezza età molto affiatata e quasi isolata dal mondo (una versione british di Olindo e Rosa), Landscapers è davvero irritante. Non avendo le spalle larghe per entrare davvero nella testa di due menti omicide nate da deviazioni e ottusità, la serie ideata da Ed Sinclair e diretta da Will Sharpe cerca di individuare un tono vagamente grottesco dove la narrazione delle vicende (con tanto di cronaca vera alla fine di ogni puntata) trascolora nella fantasia demente dei due coniugi, spesso messa in scena come una parodia dell’immaginario cinematografico – di cui la moglie è dipendente in modo morboso. Né le prove attoriali di Olivia Colman e David Thewlis, che ricamano su intonazioni e pronunce un prezioso tappeto di sfumature, servono a cavare la mini-serie dal pasticcio innecessario che si dimostra, con un finale affrettato e confuso. Ah, la “qualità” a tavolino, che noia.