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Autore: Roy Menarini

GENERI, POLITICHE, COMUNITÀ IN CONFLITTO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

GLI SPIRITI DELL’ISOLA

Ossessionato dalle simmetrie e dai concetti che vengono frammentati e affidati a singoli personaggi, McDonagh torna nella sua Irlanda teatralizzata e compone un raccontino dell’assurdo amato da tutti. Purtroppo, però, non basta un protagonista che si mozza le dita per ferirci veramente. E nemmeno le mossette di attori che scambiano l’ironia beckettiana per umorismo dark commestibile. Non parliamo poi dell’ecumenismo paternalistico sulla guerra irlandese: un po’ colpa di tutti e in fondo dei soliti maschi bellicosi? La tragedia di un popolo barattata per apologo che distribuisce le colpe facili facili.

BUSSANO ALLA PORTA

Passo indietro sconcertante di un autore sempre un passo avanti, specie nei film più vituperati e sabotatori. Autocitando The Village, E venne il giorno e Signs, Shyamalan scoperchia la sua dimensione politica ma offre il fianco ai pericoli. I suoi aggressori gentili, alcuni omofobi altri simpaticamente folk, sono biblici fin dalla prima mezzora, senza nessuna rivelazione cinefila. Sarebbe comunque solo un capitolo più standard del solito se non fosse per il rischio (non evitato neanche facendo ricorso a qualche effimera ambivalenza) che diventi il cult millenarista dei Qanonisti. Benissimo satireggiare l’élite borghese che ama Pfizer e Biden (sebbene bastasse Servant), ma far torturare due gay con il sorriso sulla bocca e glorificare l’indole compassionevole del potenziale martire omofilo sembra la cosa più cringe che M. Night abbia mai fatto. Poi ognuno scelga con che occhi guardare, naturalmente, ma la lezione scopertissima sul concedere fiducia ai discorsi che non vogliamo ascoltare è un tradimento dell’ambiguità shyamalaniana.

GIGI LA LEGGE

Il vero film del momento è il terzo dell’inclassificabile Alessandro Comodin. Ogni discorsino da convegno sui confini tra reale e finzione del doc contemporaneo viene centrifugato dalla spiazzante autenticità astratta del mondo messo in scena. In una provincia friulana che si situa tra Twin Peaks, Bruno Dumont e la natura di Apitchapong W., si muove Gigi la trottola (o Gigi il polizotto) tra strani suicidi, tempo perso nell’abitacolo della volante e surreali dialoghi col vuoto o con la ricetrasmittente. Appena pensi che sia un ritratto umoristico di un fool ti ritrovi di fronte alla complessa, inquietante umanità del protagonista, che è quel che sembra e fa esattamente la vita che vediamo davanti allo schermo. Eppure è come una terra vista dalla Luna, o quanto meno una realtà duplicata cui attingiamo senza essere davvero vicini a toccarla.

GREAT FREEDOM

Arriva su MUBI il candidato austriaco all’Oscar 2022, una storia esclusivamente al maschile che racconta la persecuzione e la vita carceraria di un omosessuale dal dopoguerra a fine anni Sessanta. Spedito direttamente dal campo di concentramento alla cella (in democrazia puoi tornare a essere ebreo ma non gay), Hans non può fare a meno di desiderare, e rifiuta la deprivazione sessuale. Incontrerà amanti e amici, uno in particolare che gli farà trovare la libertà dietro le sbarre. Ecco la differenza tra i film “civili” che fanno il compitino e i film che se ne fregano di illustrare tutto, preferendo spiegarsi con il cinema (inizio e finale in tal senso sono da proiettare nelle scuole di regia).

YOU PEOPLE

Il materiale c’era tutto: una commedia Netflix in epoca di segregazione reciproca tra gruppi sociali e culturali, una storia d’amore alle prese con quest’America impazzita e rancorosa, una satira delle due borghesie (ebraica e black) vittime degli stereotipi e del reciproco hate, un sacco di facce che si è felici di ritrovare (da Julia Louis-Dreyfus a Eddie Murphy, da Nia Long a David Duchovny, con un cammeo persino di Elliott Gould). Purtroppo una regia/montaggio da studenti del college e un terzo atto irricevibile sprecano il meglio. E Jonah Hill dovrebbe capire che ormai a 40 anni la recitazione nerd non funziona più.

AUTORI TRA STRADE, LINEE E CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’INNOCENTE

Il miglior film di Louis Garrel da regista non somiglia in nulla (giustamente) a quelli del papà. Il modello è il cinema borghese romantico, ironico e con venature di poliziesco di una certa tendenza francese anni ’70 (un mix consapevole di Sautet, Zidi, Lautner e altri). Se lui è simpatico ma gli romperesti il muso, trionfano piuttosto Anouk Grinberg e Noémie Berlant, esilaranti e passionali. Una prova di maturità in leggerezza, segno di intelligenza.

AUDITION

Rivedere Audition oggi non toglie “peso” all’esperienza, anzi. Cresce la politicità del racconto di Takashi Miike, mentre la violenza occupa un gradino meno essenziale rispetto al discorso che era necessario fare negli anni Novanta (ah, quanto ci mancano, cinematograficamente parlando). Più in generale, pur non essendo il titolo più importante di una filmografia caotica e dalle gerarchie imprendibili, c’è un motivo se dopo un quarto di secolo ci si dà la pena di ridistribuirlo.

STRADE PERDUTE

Si temeva che sul grande schermo il restauro 4K potesse smarrire la densità dei neri, ma per fortuna – visto che Lynch ha supervisionato il lavoro – continua ad essere il buio più materico e bello mai visto nel cinema contemporaneo. Oggi, in epoca bacchettona, arriva alle viscere soprattutto come opera sensuale, con Patricia Arquette vero perturbante erotico irriducibile, vero fantasma del desiderio nella totentanz freudiana che maestro David apparecchia per noi.

COPENHAGEN COWBOY

A Lynch deve molto anche Nicolas Winding Refn (anzi, NWR) con la sua sinuosissima serie Nerflix girata in Danimarca. Non estrema, osata e delirante come Too Old to Die Young, che era una specie di Scorpio Rising di ore e ore, Copenhagen Cowboy ne mantiene comunque l’idea di base: la serialità streaming può anche essere arte contemporanea in vitro, video-installazione in coma narrativo, tra Bruce Lee e la Marvel, tra Damien Hirst e il fashion film, tra le carezze techno di Cliff Martinez e il grugnito horror dei maiali affamati di carne umana. Fuck yeah.

KIMI

A pagamento su piattaforma arriva la penultima fatica di Soderbergh, nuova variazione claustrofobica sul rapporto tra uomo, capitale, architettura sociale e dispositivi di controllo. Leggermente meno ispirato del solito (a cominciare dal tema virale non sfruttato alle consuete altezze), rimane in ogni caso un sontuoso esempio di cinema da camera, di pressione psicologico-stilistica in spazi ristretti, un meta-film su Soderbergh autore solitario, al limite, confinato.

TRIESTE É BELLA DI NOTTE

Conquistato sul campo, il rispetto di cui gode Andrea Segre con i suoi documentari viene confermato da questa indagine sull’immigrazione della rotta balcanica. Utile, perché l’opinione pubblica si concentra sul Mediterraneo, e qui emergono storie atroci e ingiustizie ulceranti. Interessante la questione dei regolamenti, affrontata con precisione: i migranti accusati di illegalità sono respinti il più delle volte infrangendo la legge da parte dello Stato italiano.

LA LIGNE

Ossessionata dai segni sociali, dai confini e dai perimetri, Ursula Meier mette in scena una livida e sarcastica storia di tensione madre/figlia. Comincia con una magistrale scena di lite domestica, prosegue come ritratto di una giovane donna dal cazzotto facile e dal carattere spinoso, evolve come un mélo surreale, finisce ottenendo lacrime musicali. Vista la materia, avremmo sognato un minor auto-controllo registico su tutta la materia isterica, ma avercene di autrici così lucide.

DESIDERI MALINCONICI E GROVIGLI NELLO STOMACO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

UN BEL MATTINO

Come sarebbe stato questo struggente racconto senza Léa Seydoux? Inutile chiederselo, per fortuna lei c’è e illumina un personaggio femminile forte e al tempo fragile con ascendenze più da Téchiné che da Rohmer. Hansen-Løve a soli 40 anni ha già una filmografia ricchissima, chapeau. Dopo gli arzigogoli teorici di L’isola di Bergman, qui ritrova naturalezza, precisione e strazio, pescando nuovamente dal lato autobiografico da cui partì. E riscopre un Melvil Poupaud corpo cinefilo.

GODLAND

Quello di Hlynur Pálmason è uno dei pochi “film panici” di questi tempi. Mentre viaggi con i protagonisti nella natura più inospitale, dura e possente, ti chiedi a ogni istante come abbiano fatto a girarlo (pellicola, formato quadrato, sembra quasi di respirare la natura). Quando l’impervia missione si arresta, la storia di comunità e lacerazione convince meno, ma l’attraversamento in purezza merita generosità. Da vedere rigorosamente in originale (tutto ruota intorno al confronto linguistico tra islandese e danese).

AFTERSUN

Periodo di film scritti sull’esperienza, quasi tattili, che ti aggrovigliano lo stomaco. Fulminante esordio di Charlotte Wells, impregnato di dolore, raccontato con un minimalismo carico di malinconia e tensione difficilissimo da ottenere. Squarcio di una vacanza tra figlia pre-adolescente e padre separato dove si dice tutto tra le righe, lasciando che il momentaneo spieghi l’universale, in una terra di nessuno turistica ma dolorosa. Mettersi di traverso perché “troppo pompato” è robetta da social. Guardatelo.

THE PALE BLUE EYE

Scott Cooper si conferma il regista che poteva ma non troppo. Una filmografia carica di quasi-grandi film (Hostiles, Il fuoco della vendetta) e di terribili scivolate (Black Mass, Antlers) sfocia in questo streaming-prestige Netflix con Christian Bale e un cast di glorie sullo sfondo. Storia gothic western, con Edgar Allan Poe come personaggio (la cosa peggiore), non si può dire che sia trascurato o che ignori lo stile. Eppure rimane congelato tra le nevi che ingoiano il paesaggio.

MA NUIT

Altro film esperienziale e impalpabile. Antoinette Boulat racconta una generazione in una passeggiata notturna, con un lutto sullo sfondo (quanti lutti nei personaggi di oggi). Non sono diciottenni da Nouvelle Vague (che erano anzi più grandicelli) ma giovani melanconici in cerca di un presente che sfugge e di senso, dentro una topografia che li guarda con una qualche indifferenza. Dal confronto nasce voglia di esistere, e fare filosofia spicciola in fondo è un modo per amare la vita.

NEZOUH

Il cinema originato dalla tragica guerra in Sira (buco nero dell’umanità nel secondo decennio del secolo) comincia a slittare dal dato documentario, urgente, a quello metaforico, esistenziale. Il buco nel soffitto che si crea dopo un bombardamento squarcia un tetto di dinamiche sociali, e comunitarie, soffocanti. Troppo realismo magico, certo, ma anche un contenitore di rilievi sulle contraddizioni della ribellione (i civili come scudi umani designati, la dimensione patriarcale come unico orizzonte) non banali.

LE VELE SCARLATTE

Il più semplice dei film di Pietro Marcello, e non è detto che sia per forza un bene. Adattando con una certa libertà l’omonimo romanzo di Aleksandr Grin, l’autore conferma la voglia di fuggire dal contemporaneo, che emergeva qua e là in Martin Eden (dove lo schiacciamento del ‘900 era un anacronismo era voluto per salutare il secolo perduto). Quell’urgenza romanzesca sembra, però, attutita e ovattata, e la produzione francese rischia di imprigionarlo in un accademismo medio che è il contrario esatto della sua poetica.

CLOSE

I bambini si guardano: è proprio da uno sguardo tra ragazzini troppo indagatorio che nasce la tragedia della definizione di sé. Dhont è un tipo di autore che non lascia nulla sullo sfondo. La sua delicatezza di tocco e la naturalezza ottenuta dai giovanissimi protagonisti sono doti certe, confermate. Peccato per una narrazione così piana, e soluzioni drammaturgiche così ovvie. La presenza dolente di Émilie Dequenne (ex-Rosetta) intenerisce.

I MIGLIORI FILM DEL 2022

Come ogni anno, ecco la classifica dei migliori film dei dodici mesi passati. Si tratta di una top 20, con dieci “posti caldi” utili per misurare la bontà artistica di ciascuna annata. I titoli presi in considerazione hanno avuto distribuzione ufficiale in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2022, in sala e su piattaforma, purché inediti. Non entrano in classifica film visti ai festival non distribuiti. Dunque la datazione di alcuni dei film, anche quando è precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.

I MIGLIORI DEL 2022

Dieci posti caldi sparsi (dopo, oltre, a lato dei venti migliori): Alcarràs, Bardo, Blonde, Californie, Fairytale, Forever Young, La timidezza delle chiome, Triangle of Sadness, Saint Omer, Tromperie

20) Men

19) La fiera delle illusioni

18) Tori e Lokita / Tredici vite (ex aequo)

17) Vortex

16) Memoria

15) La notte del 12

14) Avatar – La via dell’acqua

13) Bones and All

12) Esterno notte

11) Apollo 10 ½

10) Top Gun – Maverick

9) Pinocchio di Guillermo Del Toro

8) Crimes of the Future

7) Un eroe

6) Spencer

5) Quel giorno tu sarai

4) Licorice Pizza

3) The Fabelmans

2) Nope

1) Gli orsi non esistono

Schegge di cinema (tra i film non in classifica):

Lo sguardo malinconico di Carrie-Ann Moss in Matrix Resurrections, i topolini di The House, l’acqua di Piccolo corpo, l’eclisse di Occhiali neri, quando Morricone canticchia in Ennio, il primo episodio di Il male non esiste, il panda rosso di Red, la pressione temporale di Full Time, il décor di Flee, il sole in Sundown, l’inseguimento su ghiaccio di Granchio nero, le installazioni di Finale a sorpresa, i deltoidi di Alexander Skarsgård in The Northman, gli sfondi di Il naso, le camminate di Nostalgia, la prima cena di Fresh, gli occhi di Dakota Johnson in Cha Cha Real Smooth, ogni singola espressione di Adam Sandler in Hustle, la sessualizzazione del pubblico in Elvis, quando i dinosauri sbattono in curva in Jurassic World – Il dominio, i titoli di testa di Minions 2, Pasolini che c’è senza esserci in Il signore delle formiche, Dépardieu in Maigret, le piaghe in Dante, Pinocchio nel Pinocchio di Zemeckis, Virginie Efra ovunque, il bagel in Everything Everywhere All at Once, il primo piano-sequenza di Athena, il rispetto del corpo in La vita è una danza, il flash-back sulla Prima Guerra mondiale di Amsterdam, i fuochi arancioni nel bianco e nero di Emancipation, Ficarra e Picone in La stranezza, gli infrarossi di la pantera delle nevi, la prima sera all’Airbnb di Barbarian, le ossa spaccate di Spaccaossa, l’uccellino di Perfetta illusione, le barbe di Le otto montagne, tutte le Ucraine viste al cinema quest’anno….e mille altri baluginii.

IL GIRARROSTO DEI FILM DI FINE 2022

Con la consueta brevità, ma con un orizzonte amplissimo (che copre quasi tutto dicembre), andiamo a recensire a zigzag moltissimi titoli di fine anno – ricordando che per i titoli più celebrati (come i film di Cameron e Spielberg) trovate approfondimenti specifici in video e in audio su questo stesso sito.

BARDO

Maltrattato e quasi appestato al grido di “basta con i deliri d’autore permessi da Netflix”, Alejandro González Iñárritu – il grande “irritante” della cinefilia – esplode un colpo magniloquente, autoreferenziale e indulgente. Ma lo fa con talento, riflettendosi come Storia del Messico ambulante (non è mai stato molto umile), intrecciando visioni su visioni – e molte sono azzeccate – con particolare predilezione per la “disproporzione” dei corpi e delle epifanie. Siamo sicuri che questo limbo sia tanto peggio di quello di Sokurov?

FAIRYTALE

Tanto di cappello a questo dialogo tra anime in pena dei dittatori del Novecento (ma c’è anche Churchill, che forse dovrebbe svettare di più rispetto alle altre cariatidi assassine), gestito come una specie di sublimazione di Gustave Doré e dei fotomontaggi di Striscia la notizia (absit iniuria, del resto è Sokurov che ci fa vedere Hitler al cesso e Stalin che piscia all’orinatoio). Scherzo intellettuale riuscito, al limite della beffa; ma i capolavori del suo cinema passato sono sideralmente lontani, e sarebbe un peccato paragonarlo a quelli.

EMANCIPATION

Strano racconto post-Ferrovia sotterranea (romanzo che ha cambiato parecchie cose dentro la letteratura nera), dove l’azione di Antone Fuqua si mescola a una ricerca estetica in stile Barry Jenkins e con la rappresentazione ferina della violenza cui siamo abituati ai tempi di BLM. Will Smith che parla in creolo sfiora la parodia, ma il bianco e nero con fiammate coloristiche di Robert Richardson merita quasi un film a parte. I titoli di Apple TV+ continuano a circolare poco e a non creare dibattito.

SAINT OMER

Via imprevedibile al cinema processuale. L’imputata è al tempo stesso vittima e carnefice di un delitto indicibile, che diventa dicibile grazie al linguaggio e alla liturgia della giustizia (e della macchina da presa). Chi ascolta indaga, prima su di lei e poi su se stessa. E alla fine il respiro che esce dal confronto tra le due donne è eminentemente tragico. Per una volta la citazione della Medea pasoliniana – che compare a un certo punto – è collocata con tutto il suo senso.

LE PUPILLE

E il Pasolini (quello degli episodi in particolare) è presente anche nel delicato e riuscito mediometraggio di Alice Rohrwacher. Si rischia lo snobismo a dire che la regista sembra in stato di grazia soprattutto con i formati corti? Certamente colpisce trovare il marchio Disney+ su questo lavoro a metà tra modernismo, sacralità laica e arte povera. Le orfanelle in triste festa raccontano un cinema che merita di esistere e che somiglia a pochi altri.

LE OTTO MONTAGNE

Difficile collocare questa trasposizione di straordinaria omologia: i pregi e i difetti del romanzo di Paolo Cognetti sono i medesimi del film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Curiosamente, proprio lo sguardo sulla montagna oscilla tra potente autenticità e suggestioni da discount (le canzoni “indie” sullo sfondo). Salvano il tutto Borghi e Marinelli con un’amicizia maschile e mascolina che commuove, senza ambiguità né tossicità.

EO

Ci si sente un po’ isolati a non amare affatto il percorso dell’asinello di Skolimowski. Dopo Gunda e Cow, però, la riflessione sullo sguardo animale subisce qui un arretramento netto, con oggettive e soggettive (per di più con animali che cambiano visibilmente di scena in scena) nelle quali la lezione bressoniana è dispersa senza essere sostituita. E lo sfondo dell’Europa nazionalista, smembrata, sembra più una suggestione (caoticamente scritta) che un discorso importante.

ERNEST E CELESTINE – L’AVVENTURA DELLE 7 NOTE

Non c’è più Pennac in scrittura, ma il mondo creato da Gabriel Vincent – seconda trasposizione in dieci anni – non perde in sensibilità e levità. L’orso e la topina sono alle prese con un villaggio (una heimat) piombato nell’oscurantismo e nel divieto di fare musica. Conflitti famigliari, sociali e politici fanno capolino senza troppi eufemismi, risolti con coraggio, determinazione, delicatezza. Lo sguardo sul popolo non è buonista, e allarga comunque il cuore.

STRANGE WORLD

Ormai impossibile analizzare l’animazione Disney (non Pixar, s’intende) con la lente della continuità. Dal primo grande successo dell’era streaming (Encanto) a questo flop privo di senso e di senno. Non che di per sé sia mal diretto, mal scritto, mal animato: è proprio che si sentono le unghie sugli specchi, per non parlare di una cultura inclusiva gestita in modo così maldestro da risultare omofoba. Urge fare un sospiro e decidere a che pubblico si parla (sala o salotto)?

IL GATTO CON GLI STIVALI 2

Ben pochi sentivano il bisogno del ritorno di Gatto undici anni dopo. Nel finale si capisce che probabilmente è solo la scusa per rilanciare lo Shrek Universe prendendola larga. Eppure alla fine gli stivali cadono in piedi: se l’animazione zoppica, la riuscitissima storia (molto chiaroscurale, con il tema della paura di morire ben al centro) ci ricorda come la Dreamworks sia maestra di racconti filosofici arrischiati (leggersi l’analisi di Kung Fu Panda fatta da Zizek).

IL GRANDE GIORNO

Aldo, Giovanni e Giacomo hanno un pubblico e una critica così indulgenti che vengono analizzati come Ionesco. Da un po’ effettivamente sembrano usciti dalla crisi, e stavolta – grazie a una sceneggiatura affilata, amara, tragicomica – indovinano approccio ed equilibri (anche rispetto agli altri personaggi). Peccato per una regia che non sta al passo del testo, come spesso è accaduto a Venier. Ma, se lo spettatore non rovina il matrimonio guardando alla bomboniera sbeccata, funziona.

NATALE A TUTTI I COSTI

Un gradino sotto, pur senza infamia, c’è lo sbarco di Christian De Sica su Netflix. Nessun cinepanettone: si tratta dell’ennesimo remake italiano di commedia europea (francese), con buon spirito di adattamento. Anche qui (per fortuna) non mancano commenti acidi e rappresentazioni veritiere del cinismo filiale e delle famigliole di provincia. Tutto peraltro molto semplice, domestico, risolto in 80 minuti o poco più. Al cinema avrebbe probabilmente fatto il suo.

GLASS ONION

Come il primo, ma peggio: tutta l’inutile arguzia dell’operazione di Rian Johnson si riconosce per metonimia in Daniel Craig. Un attore che cerca di essere lepido, spiritoso, dotato di una cialtronaggine geniale, un autismo creativo, una mente sopraffina dentro un tipo maldestro. Recitazione auto-indulgente, primi piani di smorfie, personaggio opaco. Il resto è un costoso divertissement dove il lettore di gialli farà al massimo una scoperta, restando due ore e mezza ad aspettarne altre che non arrivano.

WHITNEY

Forse il peggior film del 2022 (se la memoria non ha operato provvidenziali censure). Immaginate tutto quello che detestate dei biopic quando non funzionano, moltiplicate per dieci, aggiungete il cast meno riuscito del secolo, condite con una sceneggiatura cui mancano otto o nove stesure, ed ecco Whitney. L’idea che una vita così talentuosa e controversa diventi una serie di highlights stile DAZN, con annessa geremiade contro i vizi, fa arrabbiare. Molto.

SPIRITED

A sentir ancora parlare di Scrooge si mette mano alla pistola. E non è che Spirited (filmone di Natale di Apple TV+) riesca a vincere gli sbadigli preventivi. Ma è anche un musical scritto da due tipi di nome Pasek & Paul, strapremiati a Broadway, compositori per Hollywood e parolieri delle canzoni di La La Land. E infatti questo lato del fim denota cura e qualità, con il rispetto che si deve al concetto più professionale di intrattenimento. Prima di tornare al torpore.

PERFETTA ILLUSIONE

Corsicato torna al cinema: già di per sé una buona notizia. Se poi il regista napoletano si sente libero di volteggiare nel noir, nell’erotico, nel dramma, fottendosene di generi e forme della produzione italiana contemporanea, è ancora meglio. Certo non tutto fila liscio, e la storia cade e si rialza varie volte, con forte richiesta di sospensione dell’incredulità. Eppure si respira una gran voglia di cinema, e la cornice (teorica) dell’uccellino illuso è un colpo di genio.

CHIARA

Apparso come un miracoletto votivo per poco in sala, il terzo ritratto storico femminile di Susanna Nicchiarelli è quanto di più rosselliniano si possa immaginare. Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano (occhio a questi due attori di grande ricettività e tenerezza) offrono a Santa Chiara e San Francesco una dimensione di trasparenza flagrante. Il femminismo di Chiara è una fonte pura, semplice, non un comizio. La chiave pop serve a poco, ma non stona. Altro cinema-UFO, in Italia.

FILUMENA MARTURANO

Continuano le nuove versioni RAI (ora Raiplay) delle opere di De Filippo affidate a registi di oggi. Filumena è un testo più “largo” e meno composito di Cupiello e degli altri mirabilmente reinvetati da Edoardo de Angelis (televisione sperimentale travestita da teatro pubblico). Quindi Francesco Amato ha gioco più semplice, anche se poi si fa presto a rovinare tutto. E Amato non rovina nulla, aiutato da due fuoriclasse come Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo.

IL CORSETTO DELL’IMPERATRICE

I tempi sono cambiati, e la Sissi di Romy Schneider non può più esistere se non nei salotti dei nostri nonni. La Sissi di Vicky Krieps è inquieta, manipolatrice, sensuale, ingorda, annoiata, sociopatica e vagamente odiosa. Nel solco di Maria Antonietta, anche lei scombina i piani del cinema in costume, pur compiendo lo sberleffo con snervante insistenza. La protagonista, eccezionale, merita un presente radioso. Il film un po’ meno.

VIZIO DI FAMIGLIA

Se non c’è più Chabrol, bisognerà pure tenere accesso il caminetto del chabrolismo. Ci pensa Sebastien Marnier a imbastire una storia dove si gioca con le nostre attese “solari” nei confronti di Laure Calamy, poi si finisce in un tritacarne altoborghese, poi si scoprono altarini proletari, e alla fine si fa un falò di tutto e di tutti. Peccato per alcune svolte claudicanti e una costruzione drammaturgica non sopraffina, che non precludono però di assaporare un po’ di buon fiele.

NANNY

Noi accademici dovremmo amare gli horror accademici. Questo poi è scritto e diretto da un’antropologa, Nikyatu Jusu, di cui pensiamo il meglio possibile. Ma ci sarà poi molto da inventare su una “servant” senegalese a servizio presso una ricca famiglia WASP? Ovviamente, visto che si fa sul serio, si evitano jump e viscere, col rischio che rimangano solo pericoli ancestrali e sogni irrazionali. Il Peele-ismo, come fu per il Tarantinismo, è un’altra forma di exploitation, sia pure piena di messaggi condivisibili.

IL MODERNO E L’ARCAICO NEL CINEMA DELLE ESPERIENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TORI E LOKITA

Sempre i soliti Dardenne? Mica tanto. La trasformazione da autori del “survival estremo” nel capitalismo europeo contemporaneo a osservatori entomologici dell’esclusione umana si è compiuta. Bressoniano fino al midollo, l’ultimo lavoro è un meccanismo di spazi concentrazionari, separazione tra sé e società, espulsione e annientamento dell’ospite, il tutto filtrato da uno struggente rapporto fraterno senza ius sanguinis. Davvero un peccato la sufficienza con cui è stato accolto.

MONICA

Andrea Pallaoro rimane un enigma. Cineasta chiaramente orientato al “film da festival”, compone ritratti femminili glaciali e intensi di cui si può dire solo bene. Eppure, anche qui, con due straordinarie protagoniste, la perfezione formale e la struttura da mélo inscatolato in un frigorifero in 4:3, tutto rimane impeccabilmente dentro i binari che ci si aspetta dalle prime inquadrature. Fin dove si potrebbe spingere, se volesse?

DIABOLIK – GINKO ALL’ATTACCO!

Siamo tornati in breve tempo alla goliardia di Coliandro. Tanto il primo episodio aveva lodevolmente cercato la via di un cinema lounge e a strisce orizzontali, tra cocktail culture ed extravaganza noir, quanto questo la butta in caciara. Se si punta sul racconto d’avventura, mancando sensualità e sangue, si va a finire in una terra di nessuno dove le astrazioni postmoderne diventano zavorra. E il budget ridotto si sente tutto (come l’assenza di Marinelli).

IL PRODIGIO

E alla fine questo autore cileno, Sebastián Lelio, che per noi europei superficiali sembra sempre il cugino meno importante di Larraín, andrebbe considerato con maggior attenzione. Specialista in ritratti femminili, dirige una sempre più magnetica Florence Pugh, infermiera, dentro l’irrazionale di un villaggio irlandese del ‘600. Tra miracoli e scetticismo, il tema è l’indagine visiva, con una riflessione non banale sul (futuro) pre-cinema.

SPACCAOSSA

Ficarra e Picone cominciano davvero a stupire. A loro si deve molto del tono malinconicamente sottile di La stranezza, a loro si deve anche parte della scrittura di questo durissimo racconto di emarginati palermitani. Il titolo dice già molto, sia della trama sia del senso profondo dell’esordio di Vincenzo Pirrotta. Un microcosmo di vittime ferite e carnefici ammaccati che corrono come criceti dentro un’esistenza socialmente segnata. Notevole.

THE MENU/BOILING POINT/THE BEAR

Li mettiamo tutti insieme, i tre racconti sugli chef di queste settimane. Si salva solo la serie The Bear, peraltro sopravvalutatissima, ma almeno con una sua idea di legare cibo e dolore, trash food e ricerca del gusto, famiglia in lutto e culture alimentari. Invece Boiling Point maschera con il piano-sequenza la stessa tensione narrativa di una qualsiasi puntata di Masterchef (non è ironico, è proprio così). The Menu, il più sciocco, liquida una discreta intuizione sul sadismo sociale del mito culinario in nome di un grand guignol gestito con troppa indulgenza verso l’horror chic da social media.

CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA

Conoscerlo a memoria non giustifica un’eventuale assenza di fronte al nuovo restauro 4K di Warner Bros. Tutto è diventato classico, in questo capolavoro. Eppure, dentro il perfetto congegno, scorre una vena di modernismo irriducibile, con una spinta al cambiamento (artistico e sociale) molto in anticipo sui tempi. Donen e Kelly sono l’essenza stessa del musical, il resto lo portano in dote il cromatismo ipnotico del reparto foto-scenografico e soprattutto le creazioni di quattro geni: i librettisti-sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green, gli autori di canzoni Nacio Herb Brown e Arthur Freed.

REGNI, NASCONDIGLI E PRIGIONI: FASI DEL CINEMA E DELLA STORIA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BLACK PANTHER: WAKANDA FOREVER

Una buona notizia c’è: è finita l’orrenda fase 4 della Marvel, che verrà ricordata come il regno della confusione progettuale. E si chiude con un film altrettanto caotico, pur se apparentemente unificato dall’afro-estetica (che puzza di appropriazione culturale tanto quanto altri prodotti più discussi). Per il resto, la sostituzione di Boseman è pigra e prevedibile, il cattivo un Aquaman a rovescio, l’enfasi subacquea messa lì per lanciare Avatar 2 e la de-colonizzazione un washing aziendale imbarazzante (con finale reazionario). Da dimenticare in fretta, a meno di prenderla come passerella di 160 minuti per i magnifici costumi di Ruth Carter, un film nel film.

BARBARIAN

Piccolo caso horror del dopo-estate americana, arriva su Disney+ da noi un po’ in sordina. Con una certa condiscendenza, si possono apprezzare alcune cose: il roller coaster narrativo, con un gioco in contropiede sulle aspettative identitarie – decisamente riuscito nella prima parte; una qualche spudoratezza nel progetto, senza troppa paura dei rischi di ridicolo; il ritorno di facce come Justin Long (e come il personaggio riequilibra il dominio di genere). Pochino? Nella gravissima crisi dell’horror contemporaneo ci si accontenta.

ARGENTINA 1985

Il dilemma della critica di fronte a questi film si ripresenta come il sangue di San Gennaro. Chi potrebbe voler male a un vibrante racconto (su Prime Video) del processo che inchiodò i generali della dittatura argentina negli anni Ottanta? Chi siamo noi per vare le pulci a qualsiasi cosa giri Ricardo Darín? Eppure, il dritto per dritto non concede nulla a un cinema mai meno che frontale e didattico. Insomma, siamo lontani dalla reinvenzione del cinema civile di No – I giorni dell’arcobaleno.

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

Non so se, senza 1917, sarebbe tornata in auge la Prima Guerra mondiale nei film contemporanei. Certo che tornare a Remarque non è una cattiva idea, anche solo per ricordare che là dentro c’era già tutto. La trasposizione nell’epoca dello streaming (Netflix) tuttavia non giustifica gran che il ricorso al modello, mancando di qualsiasi pensiero profondo sul conflitto. Grazie al parossismo e a ottime scene di battaglia (specie negli spazi stretti della trincea) si resta comunque ammirati.

CAUSEWAY

A dimostrazione che lo streaming (Apple+ in questo caso) sta assorbendo distributivamente anche l’indie-cinema americano, ecco un classico Sundance-movie dove si parla molto e si osservano micro trasformazioni psicologiche nel rapporto tra due personaggi ai limiti della società. Detta così sembra deludente, e invece il minimalismo funziona sempre quando è acuto, sottile e critico. Jennifer Lawrence e soprattutto Brian Tyree Henry sono superlativi, ma basterebbe la scena del colloquio in carcere per volere bene al film di Lila Neugebauer.

IL PIACERE E TUTTO MIO

Non so se disperarmi perché nel 2022 c’è bisogno di un film del genere per spettatori con seri problemi di progresso sociale, o perché nel 2022 il cinema d’essai pensa che ci sia bisogno di un film del genere (anche se siamo di fronte a una specie di algoritmo per audience mature di chiara motivazione commerciale). Per fortuna c’è Emma Thompson, che è una specie di filtro per l’aria del cinefilo: tutto ciò che di ipocrita, retorico, finto coraggioso, salottiero, anti-cinematico, conservatore passa per il suo volto e il suo corpo, ne esce pulito, riscaldato, umanizzato e più stimolante. Brava lei.

PIOVE

Risposta da horror indipendente a Siccità. Dentro il mondo di Virzì non piove mai, in un paesaggio urbano assolato e spopolato, dove tutti si odiano ma sprazzi di umanità si ricostruiscono tra sconfitti dalla vita; qui piove sempre, tutti si odiano lo stesso ma almeno passano ai fatti, con una versione splatter della litigiosità da social. Strippoli continua nel suo tentativo di trovare uno spazio di sangue e una consapevolezza di genere nel cinema italiano; e ci riesce a singhiozzi. Rongione alza il livello del cast.

UN ANNO, UNA NOTTE

Come fare cinematograficamente i conti con la strage del Bataclan? Raccontando sprazzi della vita di un paio di sopravvissuti. Ovviamente la curiosità un po’ morbosa dello spettatore è più che altro concentrata su quando arriveranno i flash-back del massacro, che ci sono e sono intelligentemente giocati sulla paura e sul fuoricampo, piuttosto che sulle atrocità. La questione della rielaborazione sentimentale e psicologica, invece, somiglia a tantissime altre, col pilota automatico del film d’autore: inquadrature strette e introspezione assicurata.

RITORNI, MALINCONIE, QUADRI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

AMSTERDAM

Flop conclamato e vittima di uno dei classici shitstorm di questi anni Amsterdam è tutt’altro che pessimo come lo si dipinge. Seguendo la sua tipica poetica dell’outsider scombinato, David O. Russell alza la posta dopo anni di silenzio: Storia, fascismo, guerre mondiali viste con l’occhio (di vetro) di un medico strampalato e di un trio molto nouvelle vague che attraversa Europa e America. Tra Kurt Vonnegut e Wes Anderson, un’installazione survoltata e compiaciuta alcuni con sprazzi di gran cinema e persino di gentilezza sentimentale.

IO SONO L’ABISSO

Altro flop conclamato ma con minor ingiustizia. Certo, Donato Carrisi non si smentisce e conferma il metodo fatto di valori tecnici raffinati (con elementi fincheriani) e costruzione narrativa stratificata (questa volta a tracce parallele che lentamente si incontrano), ma le ambizioni di discorso sul Male sono puerili. Inoltre, l’assenza di star esotiche (Jean Reno, Dustin Hoffman) o italiche (Toni Servillo) dei film precedenti sottrae fascino all’operazione.

SANTA LUCIA

Esordio di Marco Chiappetta, prodotto dai Teatri Uniti, Santa Lucia utilizza lo schema del nostos (molto caro a Napoli, vedi anche Nostalgia) per una meditazione dolorosa e piena di grazia sullo smarrimento delle radici. La cecità di un grandioso Renato Carpentieri spalanca il flusso dell’interiorità, che con le svolte narrative diviene sempre più teatro mentale. Qualche inciampo e alcune ridondanze iniziali non impediscono allo struggimento di imporsi in una luce metallica e mai folcloristicamente partenopea.

VORTEX

Su MUBI finalmente l’atteso split movie di Gaspar Noé, che si sta rivelando un autore sempre più significativo, sgomberando il campo dalla narrazione del Pierino sadico che lo circondava. Due personaggi-memoria del cinema, una maman al tramonto senile e un maestro degli orrori inchiodato da un cuore malato, si muovono in una casa-prigione. Ricordi e memorie sono ormai oggetti, la mente vacilla e le vanità umane se ne vanno col tempo, imprigionate dallo schermo scisso, che da impietoso si fa via via commosso.

PRISMA

Bessegato, ricco della fama di autore/adattatore (magnifico, peraltro) di SKAM, costruisce il suo universo personale su Prime Video, non lontano dal precedente. Ma stavolta ragazzi sono una versione teen di Van Sant, mentre Latina diventa una provincia “indie” dove la trap si mescola all’esclusione sociale, ai problemi morali e alla fluidità sessuale. Ottimo il protagonista gemellare, playlist da applausi in colonna, camera work articolatissimo, scrittura sensibile e il gioco è di nuovo fatto.

CASCO D’ORO

Torna in sala, restaurato, il capolavoro di Becker. Meno conosciuto di quanto si pensa, il racconto di sfida alla legge e di amore contrastato, di anarchia metropolitana fine ‘800 e di seduzione ambigua, colpisce ancora, forse principalmente per il fulgore stilistico. I “quadri” parigini contengono tutti sentimenti che servono, e se anche vi annoiaste, il finale vale mezza storia del cinema. Per gli amanti di Serge Reggiani, poi, è una festa attoriale.

UNA DONNA SPOSATA

E un altro restauro circola in questi giorni, per ricordare Maestro Godard. Il suo film più schematico, nel senso filosofico che dava l’autore all’uno più uno (che non fa mai due) come progetto stilistico. Le 24 ore di Charlotte sono oscillazioni, monologhi, fuori campo estremi, movimenti di macchina chirurgici, rigore puro mescolato alla casualità. Era il 1964, dopo Il disprezzo e prima di alcuni esperimenti di pop decostruito, da Pierrot alla Cinese.

ESPLORAZIONI, CONFINI, MEMORIE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

GLI ORSI NON ESISTONO

Profetico e disperato, Panahi complica e al tempo stesso distilla il suo meta-cinema. Sulla soglia metaforica di un Paese che o lo imprigiona o lo fugge, l’autore ragiona sul rapporto tra modernità e tradizione. Lo fa con rispetto, senza assolversi del tutto, facendo capire come ci siano luoghi del mondo dove l’immagine ha un peso drammatico. Tra iconoclastia e iconofilia, Panahi offre un racconto universale che è l’essenza stessa del cinema oggi.

LE BUONE STELLE – BROKER

Itinerante, il Kore’eda coreano è sicuramente più riconoscibile di quello in trasferta francese, anche se i suoi capolavori sono lontani. Per un cineasta che oscilla tra flagranza dell’intimità e potenza del racconto (due poli opposti che rappresentano tutta la sua carriera, compresi gli alti e i bassi), sorprende un po’ la sensazione di ordinarietà emessa da Broker. Che rimane un film sensibile, dove la poetica famigliare fa i conti con uno spaesamento involontario.

HALLOWEEN ENDS

I fan della saga avranno apprezzato la scelta spiazzante di concludere la trilogia (e tutta la vicenda di Michael Myers) con un episodio quasi spurio, legato citazionisticamente allo stranissimo Halloween III? Noi sì, anche se ci sono momenti talmente rozzi e confusi che ci si chiede sempre se David Gordon Green ci è o ci fa. Il discorso sul populismo puritano si estende, il discorso sul Male si complica: Carpenter è lontano ma Green cade in piedi (forse meglio di Rob Zombie).

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE

Possibilità 1: è un meta-film su di noi spettatori streaming di oggi e il titolo da solo spiega la condizione mediale di avere tutto, ovunque, in una volta sola, su ogni piattaforma. Possibilità 2: è un film sulla disgregazione della nostra esperienza e sulla schizofrenia della vita moderna, dove ci rimangono solo la fantasia sfrenata o gli psicofarmaci. Possibilità 3: è una parodia demenziale della Marvel, e persino la moralina finale (pesantissima) fa le pulci ironicamente a Disney. Nessuna funziona del tutto, ma qualcosa che merita la nostra attenzione c’è in tutte.

LA VITA É UNA DANZA

Chi si aspetta un terrificante mattone sulla danza con sacrifici e mélo famigliare sappia che non è così. Un Klapisch ad alti livelli indovina una storia di corpi e una storia di tecniche di ripresa, le fonde insieme, inventa un metodo alternativo di usare il movimento per significare, e arriva a risultati sorprendenti. Una specie di dramedy alla francese senza il feelgood alla Bélier e con parecchie cose da raccontare sulla nostra percezione di noi e dello spazio.

IL COLIBRÌ

Sandro Veronesi gode di scarso credito presso la critica letteraria più militante, ma è un ottimo scrittore post-ideologico. Archibugi e il team di sceneggiatori esperti di trasposizioni rincorrono il testo (un po’ come le equivalenze narrative che Truffaut non sopportava) e la sua struttura non-cronologica, dimostrando affanno. Il fatto che potesse andare peggio aiuta, ma non assolve del tutto. Attori ognuno sul suo spartito, col risultato di una cacofonia attoriale ingovernabile.

UNA BIRRA AL FRONTE

La carriera post-demenziale di Peter Farrelly dimostra che forse aveva ragione chi lo considerava già allora un tradizionalista travestito da petomane. Ma se Green Book aveva almeno l’idea formidabile di fingere un confronto razziale per parlare di un conflitto di classe, pur negoziandolo con un poco di zucchero, qui su Apple+ il Vietnam (attraversato da un Gump birraiolo che prende coscienza della guerra) grida vendetta.

LA PANTERA DELLE NEVI

Difficile decidere se sia un doc sopra la media o una grande occasione persa. L’osservazione del naturalista fotografo è pura attesa del monstrum con uno spirito da slow cinema di straordinaria attualità. E i movimenti degli animali ci portano in un’area da crono-fotografia in tempi di digitale. Purtroppo gli spunti cinefili (compresa una lacrima congelata, mélo glaciale) sono depotenziati e lasciati per strada. Herzog avrebbe fatto faville, ma il paragone è ingeneroso.

BRADO

Kim Rossi Stuart sulle tracce di Clint Eastwood? Sarebbe ingiusto spernacchiare. Ci vuole un verto coraggio a trapiantare in Italia un film da rodeo. Ben venga il tentativo di scavallare l’orizzonte precotto del nostro cinema. Storia di padre e figlio, di orizzonti e recinti, di animali imbizzarriti e uomini azzoppati. Però le scene più intense (una, terribile, di agonia) sono al chiuso.

LO SPETTATORE INTERESSATO

Gli Incontri del Cinema d’Essai di Mantova (che si sono tenuti dal 3 al 6 ottobre) rappresentano ogni anno il termometro più interessante del comparto “cinema di qualità”, per la capacità di attrarre esercenti da tutta Italia e distributori, per lo più indipendenti, desiderosi di trovare una loro strada (palmo a palmo) nella difficile situazione degli schermi nazionali.

Gli inviati stampa e gli studiosi (il sottoscritto compreso) vengono visti al tempo stesso con stima e con sospetto, e fioccano espressioni come “e tu? che cosa ci fai qui?”, tanto l’appuntamento è sentito come eminentemente professionale. E in effetti alcune anteprime sono interdette alla stampa, per mantenere il segreto (di Pulcinella, a dire il vero) su certi film e colloquiare principalmente in una situazione che potrebbe essere definita quasi di B2B.

Se usciamo, però, dal rispetto territoriale dei singoli ambiti, c’è qualcosa di assai più interessante da notare, e anche affascinante. Nei panni di un esercente (che spesso è anche un cinefilo), il giudizio su un film parte sicuramente da una collocazione di gusto (è bello, è brutto, è intenso, è noioso….) ma contemporaneamente assume anche una connotazione utilitaristica (piacerà al mio pubblico o no?). Lo sguardo sullo schermo è duplice: da una parte la normale adesione di uno spettatore in sala con le sue emozioni, dall’altra la vigile attenzione alle potenzialità dell’opera – non solo in generale, ma anche in rapporto a pubblici che differiscono di sala in sala, di città in città, di zona in zona, a seconda del lavoro che un cinema ha compiuto nei confronti della sua audience (anagrafica, sociale e culturale).

C’è poi un nucleo ancora più radicale di professionisti che, approfittando della simultaneità degli spettacoli (esattamente come ai festival), si muove rapidamente da una sala all’altra vedendo solo pezzi di film. In questo caso, a prevalere è il secondo atteggiamento, quello più commerciale, e l’ambizione è quella di comprendere in 20-30 minuti la forza attrattiva del titolo in questione. Ecco perché il critico o lo studioso, abituati a cominciare da una visione integrale dell’opera per poi scomporla in successive analisi, rimangono sorpresi dall’incessante viavai del pubblico davanti allo schermo, in qualsiasi momento della proiezione.

Al di là di queste note leggere e vagamente antropologiche, per chi studia il settore e lavora sui film al di fuori della filiera è comunque importante accedere ad appuntamenti come quelli di Mantova: è lì che si tocca con mano il “lavoro” del cinema, e dove il mondo astratto delle idee viene a contatto con l’industria e i professionisti (oltre che con le bistrattate associazioni di categoria, che invece stanno lavorando bene per capire analiticamente dati e comportamenti del pubblico: le soluzioni non sono facili e criticarle a ogni piè sospinto un giochino molto semplice). E, a differenza di Ciné, la concentrazione sul circuito d’essai apre ancora di più gli occhi su limiti e potenzialità sul peso del cinema d’autore distribuito oggi in Italia.

FORME DEL CINEMA E CINEMA DELLE FORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T WORRY DARLING

Che il film rischi di essere ricordato più per le beghe sul set che per la sua intelligenza diventa una probabilità sempre più concreta. Olivia Wilde recupera da una parte il femminismo degli anni ’70 (La fabbrica delle mogli), dall’altra la sbornia dickiana degli anni ’90 (anche il Dick non ufficiale di The Truman Show o Pleasantville), e costruisce un meccanismo svelato fin dal trailer, con una spiegazione talmente insufficiente da far pensare all’assenza di una lettura attenta dello script. Al netto dei dubbi narrativi, è proprio la pochezza dell’apologo a sconcertare: si può essere nitidi fino al didascalico ma scommettere su un cinema audace e inquietante (Men per esempio), mentre qui lo zelo appare puerile e nemmeno la maestosa fotografia di Matthew Libatique riscatta il volo a planare.

ATHENA

Chi ha seguito la brillante carriera nel videoclip di Romain Gavras ne conosce il percorso nettamente autoriale, politico in un senso completamente diverso da quello che identifica il cinema del papà Costa. Anche con Athena (come in numerosi video musicali), Gavras costruisce lo scontro sociale come un’arena, formalizza il “film da banlieue” scartando il nefasto binomio “realismo contenutistico = pauperismo estetico”, e parte con un piano-sequenza ben più che virtuosistico – 11 minuti quasi epocali. Peccato che dopo tali premesse, la sfiducia nella scrittura e l’adesione al piano stilistico diventino cupe gabbie che sembrano smentire il partito preso: a che cosa ci serve il mélo famigliare se non esistono i personaggi? Siamo in un campo visuale nuovo o abbiamo bisogno del buon vecchio soggetto novecentesco? Amaro in bocca per l’occasione persa, ma guai a bocciarlo per i motivi sbagliati. Non è exploitation del subalterno.

TI MANGIO IL CUORE

Come sopra. Dobbiamo ancora rimproverare registi che stilizzano, che estetizzano, che lavorano sull’immagine? Questo dominio del realismo nell’attribuzione culturale del gusto in Italia è preoccupante. Mezzapesa ha fatto benissimo a innervare una storia vecchia come il mondo di un bianco e nero brillante (non tutti i bianco e nero lo sono, anche se pochi lo captano), di una concezione assai matura della messa in scena e dello spazio dell’inquadratura, e lavorando su una star musicale come Elodie senza ignorarne le caratteristiche che ne fanno un’icona pop aggiornata al contemporaneo. Certo, il tema non stupisce nessuno e la brutalità elisabettiana delle vendette incrociate ha avuto ampia cittadinanza nella recente serialità, eppure funziona. E se fosse semplicemente un buon film di genere?

I FIGLI DEGLI ALTRI

Un certo, recente, ingolfamento distributivo ha permesso anche al pubblico italiano di familiarizzare con Virginie Efira (tranne purtroppo Benedetta di Verhoeven, ancora inedito). Rebecca Zlotowski sapeva chiaramente quanto il film si giocasse sulla direzione degli attori. Efira e Roschdy Zem danno vita a due personaggi che necessitano di farsi corpo e carne della scrittura, per rendere possibile l’oscillazione tra melodramma trattenuto, woman movie, commedia romantica e cinema medio-autoriale su cui si fonda la riuscita. Efira, in particolare, è grande perché si presenta sempre con una trasparenza espressiva quasi profilmica, come se ne vedessimo in diretta la mattinata sul set: il volto si gonfia e si sgonfia, il corpo muta a seconda di come si sente, le espressioni passano dal giovanile allo sfiorito (e viceversa) in pochi minuti, la femminilità (e sessualità) vastissima che esprime gratifica e sorprende, superando i singoli titoli in cui compare, buoni (Tutti gli uomini di Victoria, Sybil, La doppia vita di Madeleine Collins) o meno buoni (Un amore all’altezza, 7 uomini a mollo).

LA NOTTE DEL 12

Ammetto di non aver mai dato troppo peso a Dominik Moll, specie dopo che l’ultimo – arzigogolato – Only the Animals non me lo aveva reso più simpatico rispetto ai poster anti-borghesi di Harry, un amico vero o Due volte lei – Lemming girati a inizio secolo. E invece con La notte del 12 realizza il suo miglior film: un’indagine senza uscita, tragica e faticosa, che nel corso del tempo, oltre alla frustrazione, fa emergere un intero sistema di rapporti sociali e di genere nella Francia contemporanea. Non lontano da Roubaix di Desplechin ma meno diviso in due, diverso dal somigliante Dürenmatt di La promessa, trova una compattezza eccezionale nel ritrarre una provincia nera, perduta, e un sistema di investigazione (soprattutto maschile) fatto di attese, giudizi errati, tenacia e scoppi di rabbia. E in fondo è una bella scommessa narrativa quella di fare un film compiuto e coerente dedicato a ciò che rimane infelicemente irrisolto nel mondo della giustizia e nella vita.

L’IMMENSITÀ

Rintanato per alcuni anni, Emanuele Crialese aveva fatto perdere le sue tracce. Eppure era considerato una promessa del cinema italiano, quello in grado di avere forza e distribuzione internazionale. Una certa tendenza al megafono stilistico (Respiro, Terraferma) aveva fatto storcere più di un naso, ma gli si perdonava l’indulgenza in cambio di immagini potentissime e di una politicità tutt’altro che superficiale (Nuovomondo è una delle relazioni più esplicite in assoluto sul rapporto tra migrazione in America e soluzione eugenetica del nuovo continente che cresce). In quel controllo fisico e medico a Ellis Island c’era già forse tutto della vicenda autobiografica dell’autore, che dopo 10 anni di silenzio ce la racconta meno indirettamente qui, con esiti che mostrano solo spettri e macchie ingrigite del talento che ammiravamo. C’è tutto il cinema-nostalgia italiano di questi anni, un frullatore di Virzì/Comencini/Giordana/Luchetti con alcune (poche) destrutturazioni interessanti e una scarsa valorizzazione di Penélope Cruz.

5 GIORNI AL MEMORIAL

Si torna a New Orleans, visto che il disastro dell’inondazione è diventato nel tempo uno dei più interessanti moltiplicatori di racconti americani, sia in letteratura (Zeitoun di Dave Eggers, per esempio), sia nella serialità (Treme). Questa volta è il turno di una delle “storie vere” più sconcertanti di quei folli giorni, ovvero la morte – forse per eutanasia coatta – di decine di pazienti in un ospedale ormai privo di cibo, acqua, energia. La serie ideata da Carlton Cuse e John Ridley per ABC e distribuita da Apple TV+ comincia benissimo e costruisce una suspense indagatoria innegabile, con lo sguardo dall’interno della clinica (pur ricorrendo a uno stile da televisione generalista a dir poco anti-storico). Poi prevale la scelta di raccontare un’indagine esterna che dovrebbe farci riprocessare le nostre convinzioni e lasciarci libertà di giudizio su un caso senza colpevoli. Ma un conto è coltivare dubbi e ambiguità, un conto è gestire una reticenza narrativa manipolatoria che lascia con un pugno di mosche in mano.

VERITÀ NASCOSTE E TERRITORI (IN)ESPLORATI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

SKAM 5

Nella rotazione dei personaggi di Skam, in questa insperata quinta stagione della serie, tocca a Elia. Il problema trattato questa volta è di natura fisica e sessuale, scelto con sensibilità, coraggio e un pizzico di furbizia. Cambia qualche nome nel team creativo e forse si nota: non è facilissimo andare avanti in mare aperto senza il lavoro di adattamento pre-esistente. Risultato un po’ appannato. Intendiamoci, Skam rimane la serie teen migliore in assoluto, e ha probabilmente cambiato il modo stesso di guardare alla cultura adolescenziale e ai processi di autenticazione che ne stanno alla base. Il pattern, insomma, resiste così come resiste il piacere di guardare questo mondo. Peccato per alcune forzature drammaturgiche (il sub-plot sugli abusi del professore) e per i tentativi di legittimazione che nessuno chiedeva (il leitmotiv antonioniano).

VIDEODROME

Torna in sala il film più esemplare della filmografia di Cronenberg. In Videodrome ci sono tutti i temi, squadernati uno per uno: il rapporto carnale con i media; il mix di thriller, horror e fantascienza; la propensione a creare nuove forme cinematografiche; la tensione verso il film come installazione di arte contemporanea; il conflitto tra narrazione ed esposizione; l’indecidibilità del reale; la domanda filosofica sul mutamento dell’uomo nel contesto socio-tecnologico. A rivederlo oggi, colpisce in positivo la forza rozza e ruvida delle immagini, il procedere marziale dell’ultima, allucinatoria, mezzora. “Lunga vita alla nuova carne” urla Max Renn in una pulsione al tempo stesso rivoluzionaria e suicida. E Videodrome è anche scatola di attrezzi critici per Crimes of the Future, che se ne conferma eco malinconica, alla fine del mondo e alla fine del cinema.

PINOCCHIO

La poetica di Zemeckis è quella del contatto. Una filmografia spesa a indagare il ruolo delle immagini mainstream nel modellare l’immaginario collettivo: contatto tra reale e virtuale, autentico e artificiale, passato e presente, mondo concreto e mondo narrato. Alieni, cartoon, leggende, streghe, fantasmi, personaggi letterari o freaks solitari attraversano tutti la storia (americana) in contatto con l’aldiquà, essenziale per definirsi. Questa volta il regista (che scrive e produce) immagina un Pinocchio burattino animato come nel classico Disney (identico) ma trasportato nell’universo ibrido (live action o digitale) delle tecniche attuali. Ne esce un monstrum cupo, soffocante e troppo legato ai fili branditi da Disney+. Non so se possa essere interpretato, da proposta di Mariuccia Ciotta, come un’operazione simile allo Psyco di Gus Van Sant fatta su Collodi. Mi pare ardito, ma a Zemeckis una chance la concediamo volentieri. Ci penseremo su.

LOVE LIFE

Con film come questo il rischio di stereotipo culturale è dietro l’angolo, persino negli elogi. Vedendo Love Life ho pensato costantemente alla delicatezza del tocco, alla calma narrativa capace di sedare i momenti più traumatici per i protagonisti, alla serena compostezza delle inquadrature. Ma soprattutto ho pensato qualche volta a Ozu, qualche volta a Kore’eda e qualche volta a Hamaguchi, ovvero alcune delle non molte cose che so analizzare del cinema giapponese. Sono dunque certo che Kôji Fukada sia diverso da tutti (e lo è chiaramente) ma gli schemi mentali del cinefilo rischiano di inquadrarlo come una versione in minore di costellazioni più note. Sforzandosi di prenderlo da solo, in autonomia, il film costruisce un rapporto di sincerità e pacatezza con lo spettatore, accompagnando i suoi personaggi in un percorso di strettoie emotive e dubbi luttuosi, la cui qualità principale è quella di essere universali.

MAIGRET

La diarchia francese di cinema d’autore eternamente post-vague, da una parte, e cinema di genere (commedia e polar su tutti), dall’altra, è talmente stringente che ritrovare un po’ di cinéma de papa allarga il cuore. Ce lo restituisce Patrice Leconte, da sempre sottovalutato dalla cinefilia in quanto troppo borghese e troppo formale, con la sua versione di Maigret. Da Simenon ormai non si può trarre molto di davvero originale o sorprendente, ma bastano poche scelte per costruire un film riuscito. Malinconia, sì, ma quale? Quella di una Parigi renoiriana, di un Depardieu quasi postumo a se stesso, di un racconto sulla giovinezza che fugge troppo in fretta, lontanissimo da ogni piacere malizioso nello sbeffeggiare l’ipocrisia della società francese (à la Chabrol). Maigret ha una giusta misura, un’idea di cinema composto ed esatto, una sua crepuscolare dignità. Tanto basta.

WATCHER

Torna ogni tanto nel cinema di genere statunitense la paranoia verso la vecchia Europa (vedi Hostel o Midsommar). Qui c’è una giovane donna americana che segue il marito a Bucarest, città di origine di lui e spaventosa Urbe ex-sovietica, spoglia e noiosa, per lei. Non bastasse il sapore di est da farle venir voglia di suicidarsi, ecco che uno psicopatico molto hitchcockiano comincia a spiarla dalla finestra di fronte e probabilmente a seguirla per le orride strade. Sarà lui il serial killer di cui parlano i giornali rumeni? Raccontata così, sembra una vaccata eurofobica. In verità, si tratta di un discreto thriller la cui regista, Chloe Okuno, sfrutta al meglio l’architettura e gli spazi, oltre che un sound design tra i migliori (almeno per essere un B-movie). E il tema della mascolinità tossica – internazionale – per una volta è insinuato con sapienza. Certo, ci stiamo accontentando un po’, come accade quando quel che passa il convento abbassa le pretese.

MARGINI

Hardcore punk e cinema italiano. Già questo binomio ispira simpatia. Non siamo però di fronte a un manifesto di sudore e pogo dell’underground nazionale ma a una storia di musica e amicizia ambientata nei primi anni Duemila nella provincia toscana. La band protagonista è parte per il tutto di un movimento dal basso che sicuramente si può riconoscere negli scombinati personaggi di Niccolò Falsetti, tra la scarsità di risorse economiche, la separazione tra palco e vita, l’incomprensione della “maggioranza silenziosa”. Margini possiede meriti e limiti che coincidono con la scelta stessa del tono da commedia. Da una parte la chiave umoristica disegna un ammirevole sorriso sbilenco su una provincia meccanica troppe volte raccontata col digrignare dei denti; dall’altra lo humour diventa talco sulla pelle, simpatia a tutti i costi e assoluzione generalizzata del mondo che proprio l’HC voleva rifiutare.

PER NIENTE AL MONDO

Quasi sempre, qui a bottega odiamo i “finalmente”. Quindi non diremo “finalmente un bel noir italiano” perché ce ne sono già stati (Tavarelli, Alfieri, Cescon, De Angelis, Cupellini e altri). Però di serrati come questo di Ciro D’Emilio non poi tanti. Giocato su diversi piani temporali, e basato su una storia piuttosto originale (uno chef che finisce nel gorgo del crimine per motivi kafkiani e casuali), Per niente al mondo vive di messa in scena. Basterebbe la rapina finale, ma in generale mezzi espressivi alla francese (polar) e all’americana vengono utilizzati con secchezza, senza nemmeno mostrare troppo autoerotismo sulla bravura tecnica. Il nord-est ne è immancabile sfondo, anche se il regista è napoletano. Occhi sempre più aperti su Guido Caprino, figura attoriale ormai solidissima, un passo sotto lo star system.

NEL (PER)CORSO DEL TEMPO. VIAGGI, LINEE, CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

BULLET TRAIN

Non è immediatamente chiaro che cosa vada storto in Bullet Train. Sul piatto c’è tutto quello che vorremmo nella tarda estate del 2022: un film privo di qualsiasi contenuto complesso, una linea orizzontale di action claustrofobico e sfrenato, il primo ruolo da vero protagonista di Brad Pitt da molto tempo a questa parte, la regia coreografica di David Leitch. Poi, mentre una sensazione di strano e indigesto letargo si impadronisce dello spettatore, ecco l’illuminazione. Bullet Train non doveva solo essere il pop corn movie su grande schermo in grado di umiliare gli action globalisti di Netflix, ma anche la ballata decervellata capace di traghettarci in un chiassoso spettacolo post-Covid e dentro un cinema da B-Movie da troppo tempo latitante. Abbiamo chiesto troppo? Probabile. Ma Leitch non ci regala qui né il bruciapelo tecnico di John Wick né cose come la scalinata-vertigo percorsa a suon di botte di Atomica bionda. A riprova che l’action è affare serissimo: per farne una cosa davvero bella, devi fingere di essere deficiente in maniera intelligentissima.

MEN

L’ignoratissimo Annientamento di Alex Garland, a parere di chi scrive, è forse il miglior film Netflix tra quelli che non hanno goduto di una finestra “di prestigio” nelle sale. Con quel film, Men ha più di un contatto: pur passando dalla fantascienza all’horror, in entrambi i casi si tratta di una donna che entra in una selva mentale, in un luogo oscuro fatto di natura e cultura, e che ritrova nell’alterità una dimensione spaventosa del nostro reale (o della sua psiche). Le accuse di programmaticità e semplicità metaforica sono decisamente ingenerose. Garland è un altro degli autori che ama lavorare su una dimensione allegorica evidente: non è che per essere bravi bisogna per forza sotterrare a metri dalla superficie i significati. Anche perché in questo caso Garland non finge certo di non capire. Il significato (mascolinità tossica) è lì da subito, caso mai si tratta di dare corpo e sangue a un concetto nel resto del racconto: è l’inquietudine con cui lo fa a contare (con venti minuti finali memorabili). Intriga, poi, la violenza con cui questo tema è trattato di recente (vedi Fresh o Una donna promettente). Infine: a quando il Jessie Buckley fan club?

UN’OMBRA SULLA VERITÀ

Vendereste la vostra cantina a uno strano sconosciuto che vi paga sull’unghia con evidente fretta di concludere l’affare? Se lo fate, rischiate di mettervi in casa un turpe antisemita. Si tratta solamente della prima sciocca azione di personaggi che agiscono in maniera inverosimile e sventata, e su cui bisogna esercitare una sospensione dell’incredulità particolarmente impegnativa. Le Guay (che certamente non è mai stato un regista particolarmente raffinato) taglia tutto con l’accetta: la cantina è il rimosso borghese del nazismo, il condominio è un covo di delatori che un tempo sarebbero stati collaborazionisti, la famiglia è un teatro di superficialità emotive. Se si aggiunge una sconsiderata apatia nel ritmo narrativo, ci sarebbe solo da liquidare il tutto. Eppure, vogliamo intravedere ciò che forse avrebbe potuto essere: ci sono schegge langhiane (la riunione di condominio), momenti che non sarebbero dispiaciuti a Clouzot (grazie a Cluzet, e non perché suona bene), rabbie indicibili sotto i palazzi parigini…. un film-fantasma che scorre sotto quello inguantato che vediamo.

RIMINI

Parlare di cinema del sadismo un tempo significava riferirsi a Buñuel, Pasolini o Roeg, poi più di recente a Haneke, Noé, Dumont e qualche volta Seidl. Che continua imperterrito il suo cinema che divide cultori e detrattori, i primi affascinati da un discorso filosofico sull’essere che probabilmente non esiste e i secondi indignati dall’assenza di sguardo e di pietas che tuttavia non sembra un modo razionale di porsi di fronte a un giudizio estetico. Se proviamo a disinnescare la polarizzazione, ci rimane proprio Rimini. Che è poca cosa, perché la lenta deriva di un triste cantante di balera, iconograficamente simile al Wrestler di Mickey Rourke, tra concerti in RSA e notti spompate da anziani gigolò, si arena nel più triviale simbolismo del mare in inverno: nebbioni, pensioni sfitte e strade vuote. Ci sono fantasmi di mélo, tentazioni porno, elementi di voyerismo gerontofilo (ma poi gerontofobo) e un arco di trasformazione prevedibilmente straniato. Ma chi ce lo fa fare?

200 METRI

I confini e i perimetri sono un po’ l’ossessione del cinema mediorientale e pro-Palestina. Giardini, alberi, steccati, case attraversate da una frontiera (ricordate Private di Costanzo?), e ora qui il muro che divide per soli 200 metri Mustafa dalla sua famiglia. Lui non accetta di dover chiedere un visto israeliano per lavorare, e il partito preso diventa l’innesco del mélo-thriller quando per il figlio deve poter superare quello spazio occluso. La linea retta diventa curvilinea se non ameboidale e i compagni di strada, più che adiuvanti, sembrano a loro volta agenti centrifughi. Come spesso accade nel cinema d’essai, anche questo titolo sembra più interessato al primato narrativo e alla confezione festivaliera che alla dimensione cinematica che avrebbe una storia simile avrebbe potuto sfoderare. Ameen Nayfeh, regista palestinese al primo lungometraggio, possiede comunque coraggio e lucidità. Speriamo in futuro in schemi meno esibiti.

THE HUMANS

MUBI sta crescendo in termini di distribuzione contemporanea. Prova ne è aver proposto uno dei piccoli casi indie dell’anno, la trasposizione cinematografica della pièce di Stephen Karam ad opera dello stesso autore. Su Internet si trovano stralci della pièce e interessanti interviste ad autore e attori sulla messa in scena teatrale. Il film ne dinamizza il set (chiuso, claustrale, un appartamento su due piani fatiscente e sinistro) attraverso diaframmi, incorniciature, recadrage e movimenti sinuosi di macchina, che – pur meticolosi – non sempre riescono a sviare la sensazione di essere sostitutivi dell’esperienza teatrale. Che forse avrebbe guadagnato dall’essere più rispettata, anziché (come spesso accade) movimentata. Il ritratto di famiglia attraverso cui si intravede un’America depressa, indebitata e impoverita si impone esplicitamente, mentre lo scricchiolio di un horror sotterraneo, che spinge metaforicamente dalle pareti, molto meno. Attori indiscutibili, ma si ha sempre voglia che compaia Shyamalan e trasformi tutto in Servant.

PREDE, SOPRAVISSUTI E IMMAGINI DEL DISASTRO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

13 VITE

Tredici Vite Recensione: Ron Howard ci fa credere nuovamente nell'umanità -  Kaleidoverse

Miglior film in circolazione al momento su piattaforma, la storia re-enacted del vero recupero dei ragazzini thailandesi nella grotta è pane per i denti di Ron Howard. Un autore che si conferma umile e straordinario per come si nasconde dentro al progetto, per come coltiva il suo tema dell’umanesimo senza mai fare nemmeno ciao ciao con la manina, e per come innalza il livello stilistico dello streaming cinema. Il meglio viene dalla costruzione delle scene subacquee, con un livello di claustrofobia e pressione tale da soffocare lo spettatore. La dimensione hawksiana dei due protagonisti – Viggo Mortensen, secco e laconico, e Colin Farrell, esperto ma sensibile – funziona per tutto il film, anche se in odor di superiorità professionale occidentale nei confronti dei pur volenterosi indigeni. Ma quel che veramente conta è il lavoro tecnico sulla cava, interamente ricostruita in Australia. Una specie di set fisico e mentale, suggestivo meta-set alla Cameron. Infine, occhio al montaggio narrativo: 13 vite è anche un manuale di ellissi.

MINIONS 2

Annecy 2022: Minions 2: Come Gru diventa cattivissimo aprirà il Festival -  ScreenWEEK.it Blog

Poteva anche intitolarsi Cattivissimo 4 – Il prequel visto che la firma degli esserini gialli sembra essere attribuita più che altro per equilibri interni alla saga. Dopo i Sixties del primo episodio, ecco i Seventies del secondo, riletti attraverso un ampio spettro citazionista, da Spielberg a Tarantino, con una infallibile colonna sonora per gli accompagnatori adulti. Il film in sé strappa la sufficienza con qualche sorriso e alcune idee frammentarie, ma al solito fallisce (paradossalmente, visto il franchise) con i cattivi, che sono poco carismatici e decisamente anodini. Ma il vero dibattito è sui Minions: supini esecutori di un’obbedienza canina (quindi inno alla subalternità) o anarchici portatori di caos in un mondo senza fantasia? La terza: sono cittadini un po’ infantili che però mostrano curiosità, coraggio e apertura di mondo, portati all’esperienza, al cambiamento e al rischio. L’impasto linguistico, qui esasperato, è a sua volta metafora del prodotto globale ed esportabile.

PREY

Prey (2022 movie): the theme song and the soundtrack - Auralcrave

Quando Disney incontra Predator il risultato è questo. Aprite Disney+ e soffermatevi sulla locandina del film presente nell’interfaccia. Il modello è evidente: siamo tra Pocahontas e le principesse, mescolate a un survival. Ovviamente non si arriva al punto da farne un film per famiglie, ma il racconto di formazione della protagonista indigena sfiora la parabola disneyana più e più volte, compresa la grana fotografica, cromatica, e i personaggi secondari (il fratello e la mamma). Detto questo, Dan Trachtenberg fa il suo lavoro, la storia è ben congegnata (a cominciare dall’idea stessa del prequel), e anzi Prey dal punto di vista narrativo e tecnico è più compatto e riuscito di quanto si potesse prevedere. Dobbiamo solo chiederci se la deriva streaming dei franchise Fox (viste anche le prime, preoccupanti immagini di Avatar 2) in direzione casa di Topolino “azzurrognola” non sia un problema incipiente.

MEMORIA

Memoria: Cinema as Meditation | FilmInk

Distribuito da MUBI dopo una breve comparsa in sala, Memoria di Apichatpong Weerasethakul è finalmente disponibile per chi vuole vederlo. Esperienza ovviamente ostica, per chi conosce il cineasta, che stavolta – almeno nella prima parte – sembra seguire le regole del cinema arty internazionale, e in particolare l’ultimo Tsai Ming-liang. La trasferta colombiana non muta di troppo lo scenario forestale e piovoso della Thailandia, ma il racconto character-driven della protagonista (Tilda Swinton, che ha il suo peso come protagonista, portandosi dietro la sua carriera) è decisamente più canonico del solito. Nella seconda parte, però, si sviluppa la vera lezione filosofica del cineasta, con la lenta riappropriazione dei sensi e l’insegnamento (anche spettatoriale) alla conoscenza del mondo nella sua totalità. Il fantastico e la fantascienza ci mettono lo zampino, dando senso al viaggio erratico della prima ora. Non il suo capolavoro, ma un film luminoso e importante.

THE GRAY MAN

The Gray Man, Netflix review - the Russo brothers explore big-bang theory

Vari indizi fanno una prova. E trovo più plausibile che Netflix faccia appositamente film di questo tipo piuttosto che li sbagli tutti per caso: ovviamente per “sbaglio” parlo di fallimento estetico decretato dalla critica, mentre il pubblico sembra apprezzare. Ed è qui che casca l’asino. Il mandato di Neflix sui film ad alto budget è ormai evidente: congegni narrativamente elementari, con la presenza di una star cinematografica, ambientati (e girati) in diversi Paesi del mondo, pieni di sequenze funamboliche e distruttive, con ampio utilizzo di droni e movimenti di macchina acrobatici, aperti a sequel. The Gray Man con Ryan Gosling somiglia a Tyler Rake con Christ Hermsworth che somiglia a 6 Underground con Ryan Reynolds e così via. E non importa se ci sono i Fratelli Russo o Michael Bay in regia, perché la riconoscibilità del blockbuster globalizzato è evidente e spersonalizza le forme di regia e messinscena. Il livellamento e la semplificazione appaiono dunque come una scelta prioritaria per favorire il consumo di ogni tipo di spettatore di bocca buona esistente nel mondo degli abbonati, dall’Italia allo Yemen, dalla Polonia a Singapore. Sia detto senza razzismo ma con sincerità.

PICCOLI PIACERI ESTIVI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

X: A SEXY HORROR STORY

X - A Sexy Horror Story: A24 omaggia i film slasher degli anni '70  [recensione] | Anonima Cinefili

Porno e horror. Sulla carta il furbacchione Ti West, assistito dalla produzione al solito raffinata di A24 (una delle poche a imporre un marchio negli ultimissimi anni), l’ha pensata molto bene. La solita storia di un van che finisce nella parte sbagliata dell’America profonda, con la variazione del vintage a luci rosse (essendo i protagonisti impegnati nella realizzazione di un film hardcore), funziona sempre, specie se gli anni Settanta restano come modello forte. Detto questo, gli entusiasmi eccessivi che ha suscitato probabilmente dicono molto della crisi ormai pluriennale che sta subendo l’horror mainstream (ma l’indie horror sta poi tanto bene?). In ogni caso stile e iconografia funzionano, con alcuni momenti e punti di forza decisamente solidi (l’alligatore, Mia Goth, gli omicidi). Se non dobbiamo per forza prenderlo come un horror sui geenris ma esattamente come un horror routinario con idee originali, dà più gusto.

THE STAIRCASE

The Staircase

Meta-serie che contiene anche il famoso documentario che fu girato al proposito. La “storia vera” e il true crime stanno diventando uno dei luoghi di sperimentazione più interessanti della serialità contemporanea. Antonio Campos come showrunner lavora in maniera meticolosa e sinistra sul personaggio (ambiguissimo, anche grazie a una performance strepitosa di Colin Firth) e sulla struttura, moltiplicando – senza esagerare – punti di vista, ricostruzioni, linee temporali. Certo, quando si hanno a disposizione, oltre a Firth, anche Toni Collette, Juliette Binoche e il magnifico Michael Stuhlbarg, per rovinare il piatto ci vorrebbe davvero una mediocrità assoluta. Per fortuna le cose non stanno così, e Campos ci conduce fino in fondo a una non-verità, concetto che si sta trasformando forse nel monstrum filosofico della nostra contemporaneità – incapace di trovarla e ormai alle prese con la crisi di ogni certezza condivisa.

SHINING GIRLS

Shining Girls serie TV: dove vederla in streaming | Silmarien.it

A dir poco controversa l’accoglienza di questa serie Apple+. Pensandoci a lungo dopo la sua conclusione, si può dire che fa parte degli adattamenti un po’ involuti tipici di questa piattaforma (pensiamo all’autorialissima Storia di Lisey) ma che ha una storia molto potente dalla sua. L’idea di una ur-tossicità femminicida del maschio nei secoli, tra thriller e fantascienza, colpisce e stordisce più volte. Bisogna però sopportare una serie di linee narrative confuse e un rifiuto quasi testardo di prendere una strada tematica e stilistica precisa. Comunque, il tutto viene al solito caricato sulle spalle di e da Elizabeth Moss: qualcuno comincia a storcere il naso per la continuità con cui assume ruoli di vittima del patriarcato e della violenza maschile. Ma, ruotando il prisma, ecco una “politica dell’attrice” incredibilmente lucida, che fa dialogare i ruoli tra di loro e gioca sempre con il fantastico perturbante. Un corpo contemporaneo importante.

ELVIS

Elvis: il Re del rock'n'roll nel biopic di Baz Luhrmann. Nel cast anche Tom  Hanks. [recensione] | Anonima Cinefili

Due righe: e se Baz Luhrmann fosse uno di quegli autori che ha inventato un mo(n)do cinematografico per poi sembrarne l’imitazione?

THOR – LOVE AND THUNDER

Thor: Love and Thunder" è un film sgangherato ed estenuante - Fumettologica

Due righe: e se la quarta fase della Marvel fosse l’inizio del declino? Troppo presto per dirlo. Ma troppo tardi per sopportare questo Thor/Lebowski che fa caciara persino sul cancro.

IL PIACERE DEL CINEMA E DELLE STORIE CHE CI RI-GUARDANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

PLEASURE

Pleasure Trailer: Ninja Thyberg Skewers LA Porn Industry in Neon Film |  IndieWire

Molto chiacchierato fin dalla sua presentazione al Sundance, rilanciato dal Biografilm di Bologna e ora giunto in distribuzione esclusiva su MUBI, il film di Ninja Thyberg è dedicato al mondo del porno. Come se non esistessero le trasformazioni digitali e del porno amatoriale, la storia potrebbe essere serenamente ambientata anche 30 anni fa (esclusa la presenza dei social media). Il punto di vista che ci guida, come in tanti meta-film sul mondo dello spettacolo, è quello di una giovane donna in cerca di carriera. L’obiettivo è narrare i meccanismi di potere del set e del capitalismo pornografico, dove persino gli organi genitali sono power dress. Thyberg perde l’occasione per riflettere sull’immagine del corpo nel porno, tranne forse nella straordinaria sequenza dell’hard estremo dove due uomini, gentilissimi fuori scena, appena scatta il ciak la brutalizzano in tutti i modi. Se il porno è finzione attraverso la realtà organica, che cosa ne è dello stupro messo in scena attraverso l’umiliazione dell’attrice? Il consenso è sufficiente per evitare una violazione? Forse il porno ci sta parlando di #metoo? Avremmo voluto saperne di più.

HUSTLE

Hustle, il film più serio sul basket è quello con Adam Sandler | Wired  Italia

Il sottogenere “basketball movie” sfonda ovviamente porte aperte tra gli appassionati. Ma anche i cinefili apprezzano, anche perché ci si sono misurati autori come William Friedkin, Spike Lee, Steven Soderbergh. Ultimamente, anche grazie a serie e docu-serie di successo, l’elemento del capitalismo NBA e dei simboli della franchigia sono prevalenti. Unisce umanesimo americano e storia di redenzione il nuovo film “serio” con Adam Sandler, meno urticante di Uncut Gems (dove pure si parlava molto di basket, per traverso), ma con grandi opportunità recitative. Certo, il cliché del loser innamorato del gioco ben oltre l’avidità dei nuovi padroni, legato ai tycoon d’un tempo (fenomenale Robert Duvall), rappresenta un frappé di retorica quasi irricevibile. Ma c’è tanta roba che seduce, tanta passione, tanta sana malinconia, e alla fine – visto anche il livello medio dei lungometraggi Netflix – l’arresto e tiro entra nel canestro senza nemmeno l’aiuto del tabellone.

CHA CHA REAL SMOOTH

Cha Cha Real Smooth: The feel-good comedy that could be the crowd-pleasing  hit of the year | The Independent

Dopo aver acquisito, con lungimiranza, i diritti su Coda (poi premiato immeritatamente con l’Oscar) Apple+ sta alzando quantitativamente l’offerta e continua a pescare dal Sundance con il secondo film del giovanissimo Cooper Raiff. Regista, sceneggiatore e attore protagonista di questo tipico racconto di formazione sbilenco con elementi mumblecore, Raiff passa da next big thing a realtà presente. Che cosa distingue Cha Cha dall’over-produzione di storie d’amore malinconiche e imperfette di tanto cinema indie di questi anni? Assolutamente nulla. E allora perché funziona? Per la dedizione nel non concedere troppo alle aspettative feel good del pubblico, per la sottovalutata e bellissima Dakota Johnson, per un senso di inadeguatezza che salta fuori con minor packaging intellettuale di quello cui siamo abituati.

THE PRINCESS

THE PRINCESS (2022) UK Movie Trailer: Ed Perkins' Deep-dive Documentary on  Princess Diana | FilmBook

Lady D. Ancoraaaa? Ebbene sì. Ormai mitologema contemporaneo di una celebrity che evidentemente manca a molti e delinea ante litteram i processi mediali del presente, Diana Spencer è stata osservata in molti modi. Dopo il feroce racconto di esclusione di The Crown, dopo l’analisi interiore della clausura spazio-temporale di Spencer, The Princess lavora su un montaggio serratissimo di soli filmati editi. Potrebbe essere Asif Kapadia e invece è Ed Perkins. Lavoro d’archivio e di montaggio naturalmente da elogiare, ma il documentarista manca clamorosamente il bersaglio del significato. Il ronzio dei media intorno a Diana restituisce un’ossessione senza spiegarla, ci offre una goffaggine invece di un capro espiatorio, ci racconta di mostri che si mettono in posa, e mostra un’opinione pubblica pre-social network senza darle una soggettività. Quindi se vi chiedete che necessità c’è di un altro film su Diana, la risposta è una sola: only for fans.

MR. LANDSBERGIS

Recensione: Mr. Landsbergis - Cineuropa

Non so se Sergei Loznitsa possa essere ormai considerato il miglior documentarista vivente. Certo è che questo suo ultimo lavoro – presentato a Biografilm 2022 e si spera in futuro distribuito in qualche modo dalle nostre parti – ne conferma la forza impressionante. Le 4 ore che ricostruiscono meticolosamente il processo di indipendenza lituana dalla Russia sono eccezionali. Dire che sono tempestive sarebbe al tempo stesso vero e riduttivo. L’ossessione di Loznitsa intorno all’ex impero sovietico è palese, ma il modo di affrontarla (con un atteggiamento archivistico e militante, mix apparentemente impossibile) evita qualsiasi ambiguità. E così assistere a sequenze che al solo nominarle farebbero pensare al sonno istantaneo (lunghe discussioni tra partiti filo-sovietici e partiti indipendentisti del parlamento lituano: provate a proporre quest’ultima frase a un amico non cinefilo) diventa un’esperienza trascinante: la Storia, oltre le bombe, è ideologia che si nutre di burocrazia. La Lituania trionfa? Solo fino a ieri.

IL MONDO CHE ABITO (TRA CORPO E CONFINI IDENTITARI)

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

JURASSIC WORLD – IL DOMINIO

Jurassic World - Il Dominio: data di uscita italiana anticipata al 2 giugno

Massacratissimo dalla critica “daily”, difficilmente il film del ritornante Colin Trevorrow potrà trovare riscatti analitici nello slow criticism accademico o teorico. C’è davvero poco in questo terzo episodio della nuova trilogia, e nemmeno il ritorno del cast originale riesce a iniettare quella malinconia postuma presente in Matrix Resurrections o Ghostbusters Legacy. Tuttavia, se cinema epidermico deve essere, che cinema epidermico sia. E allora, staccando il cervello e depositandolo dentro il bicchierone dei pocorn, ecco che si può serenamente sonnecchiare durante le scene di raccordo e godersi un migliaio di inseguimenti uomo/dinosauro con una sorprendente varietà di specie e un ricorso ben riuscito ai cari, vecchi quattro elementi del catastrofico (acqua, aria, terra, fuoco), con una sequenza di mega-locuste incendiate (quindi macro-lucciole horror) niente male. Robetta, sia chiaro. Ma rispetto a Godzilla vs. Kong sembra Cecil B. De Mille.

ALCARRÀS

Alcarràs (2022) | MUBI

La storia degli Orsi d’oro a Berlino è quanto meno altalenante. Ma Alcarràs (nome del paesino in Catalogna dove si svolge il film) è meritevole di essere ricordato. Immaginato come una lenta esplorazione di una famiglia in difficoltà, prima ancora che come opera di denuncia, l’opera seconda di Carla Simón vince sostanzialmente di regia. Se il conflitto tra radici e progresso, tradizioni e macchine, conduzione generazionale e speculazione rischia di essere schematica (anche se ha poi delle sfumature assai meno prevedibili del previsto), è nella costruzione di questo mondo contadino e al tempo stesso ultra-vitalistico che il film vince la scommessa. Come in Carpignano, come spesso in Rohrwacher, come in altri cineasti del “naturalismo formalizzato” la messinscena implacabile e controllatissima permette di regolare e scardinare il binomio realismo/cinema spontaneo che ancora oggi grava su molte estetiche e che impigrisce l’immaginario sociale.

LA DOPPIA VITA DI MAEDELINE COLLINS

La doppia vita di Madeleine Collins di Antoine Barraud: la recensione - iO  Donna

Non si può dire che gli ultimi due mesi non siano stati generosi (distributivamente) per il cinema francese in Italia. Con La doppia vita di Madeleine Collins Antoine Barraud lavora su temi falsamente hitchcockiani (come si potrà capire vedendolo) per costruire un bel ritratto di donna psicologicamente scissa. Presentato alle Giornate degli Autori 2021, e passato inevitabilmente in sordina vista la quantità di proiezioni di un festival come Venezia, è il classico film che si deve scavare un momento di calma per essere sorbito senza fretta. Non ci troviamo certo di fronte a un capolavoro, ma la struttura è davvero intrigante e se siete – come il sottoscritto – attratti in maniera irresistibile da Virginie Efira, scoprirete anche che di titolo in titolo questa brillante interprete si sta costruendo una strana “narrazione attoriale” dove i vari ruoli parlano tra loro e si mettono in relazioni impreviste.

FRESH

Fresh è una splendida sorpresa su Disney+, ma non è facile da digerire (ah  ah)

Le vie dell’horror sono sempre più impervie. E il genere streaming horror con venature di impegno civile (black o femminista) sta pericolosamente diventando formulaico già in pochi anni. Ma bisogna concedere a Mimi Cave un certo gusto nel dosaggio. In questa storia di rapimento, cattività e psicopatologia, l’ironia saetta qua e là tendendo una corda ben tirata tra il rischio di grottesco buttato via e di raccapriccio torture porn (tenuto molto, ma molto, a bada). Non si può raccontare molto se non rovinando la vicenda, a base di cibo e sangue. Per cui ci basti elogiare il lavoro fotografico che densifica la materia e la bravura dei due protagonisti. Sebastian Stan offre un’evoluzione schizofrenica ed estrema al personaggio di adorabile cazzone di Pam & Tommy mentre la deliziosa Daisy Edgar-Jones mantiene una sua aristocratica intelligenza anche nei momenti da scream girl per poi imporsi su tutta la linea. Da non guardare appena prima di cena.

RUE GARIBALDI

Rue Garibaldi», tra precariato e immigrazione - Collettiva

Vincitore della sezione Documentari al Festival di Torino 2021, auto-prodotto e auto-distribuito, il film di Federico Francione merita di essere inseguito laddove sia possibile recuperarlo in un modo o in un altro. Frutto di un’intensa e non invisibile osservazione partecipata, il doc racconta Ines e Rafik, origini tunisine e scuole siciliane, fratello e sorella alle prese con una nuova vita nella periferia di Parigi. La ricerca del lavoro e la vita domestica sono i due perni intorno ai quali si snoda la loro esistenza, raccontata da Francione in tutta la fragilità dei due protagonisti. Seguendo il continuo flusso di euforie e disforie, intervallate da riflessioni su di sé e sulla società occidentale europea legata alla precarizzazione generazionale, l’autore trasforma in esemplari due situazioni soggettive. E ottiene di sfiorare temi molto più grandi, non rinunciando a esibire il mezzo cinematografico come regolatore di esperienze e soggetto “terzo” rispetto all’universo a due costruito da giovani sospesi tra i continenti e le nazioni.

CRIMINI E AMORI. IN GIRO TRA LE SERIE TV

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

OZARK 4

How to watch Ozark season 4, part 1: first seven episodes now available |  TechRadar

Quanto è difficile chiudere una serie. Ormai c’è una letteratura in merito. E anche Ozark si è incartata all’ultimo, con due minuti conclusivi esecrabili e un’ultima stagione sotto tono – oltre che contraddittoria rispetto ai personaggi maschili. Per fortuna, però, il resto ha funzionato alla grande (pur con una prima stagione preparatoria), anche grazie ai personaggi femminili – uno più riuscito dell’altro. Alla fine, questa evidente derivazione creativa da Breaking Bad (famiglia travolta dal crimine che ne diviene parte integrante) ha trovato un suo world building tra ambientazioni e temi, con un sotto-testo di capitalismo criminale che magari non sarà nuovissimo (essendo in fondo già il tema del gangster movie anni ’30) ma è stato gestito con una certa radicalità. Inoltre non va sottovalutata la pienezza narrativa: in epoca di serie slabbrate che tirano per le lunghe, ogni episodio di Ozark era fitto di avvenimenti, svolte, densità e talvolta pure troppi colpi di scena. Scelta apprezzabile.

SERVANT 3

Servant: la Stagione 3 della serie horror di Shyamalan arriva a gennaio su  Apple TV+, ecco il trailer

Dopo una seconda stagione che ha rischiato di ribattere sugli stessi temi della prima con qualche fatica nell’allargamento narrativo, la terza abbandona la sindrome di inferiorità nei confronti del capostipite – irripetibile – per lasciarsi andare in maniera più anarchica al piacere del sulfureo. L’elemento polanskiano viene messo in un frullatore, Losey fa capolino, Shyamalan ovviamente guarda dall’alto, la lotta di classe diventa pura ironia delle forme e il tema fondamentale (la famiglia e il territorio come proprietà senza vero possesso delle proprie vite) viene ribadito con grande fantasia. Alla fine la vera figura tragica è il bambino, che trascolora dall’artificiale al naturale, un “pupazzo di carne” che conta solo a seconda di chi se lo tiene, figura passiva ma reale (più o meno), impossibilitata al libero arbitrio ma centro significante di tutta la storia. Il resto è virtuosismo di scrittura e regia.

LA FANTASTICA SIGNORA MAISEL 4

The Marvelous Mrs. Maisel 4 recluta due famosi attori - Wonder Channel

Un po’ meno fantastica del solito. Qualcosa si è inceppato, o meglio si è incartato, nella splendida serie dei coniugi Palladino. A livello puramente strutturale, manca con tutta evidenza una storyline principale: forse per le precedenti esperienze degli autori, e specialmente di Amy Sherman-Palladino, questa comedy di alta qualità sta scivolando verso la sit-com dove i personaggi secondari erodono spazio ai principali e diramano linee diegetiche gestite con montaggi paralleli sempre più legnosi. Nulla di male nella sit com, ma nasconderla dentro un altro prodotto che non ne ha né i codici né le potenzialità cronometriche è un problema – e infatti molte scene prevedono (più del solito) la rappresentazione di monologhi con pubblici diversi (TV, teatro, night club) a sostituire l’effetto delle risate registrate. Succede ben poco in questi otto episodi. Detto ciò, rimane pur sempre una passerella di dialoghi frenetici, outfit clamorosi, movimenti di macchina folli, fulgore visivo. E c’è anche John Waters (giustamente).

SUMMERTIME 3

Summertime 3 su Netflix: da vedere o no? Cosa ne pensiamo

D’accordo, nessuno può spacciare questa serie per qualcosa di fondamentale. Però una piccola lancia la spezzerei. Giunta in un momento in cui molti la confrontavano erroneamente con la ben più importante Skam Italia, Summertime è una classica serie triennale Netflix “glocal”, con una valorizzazione pop del territorio locale. La Romagna sta diventando da tempo qualcosa di diverso e vendibile, anche grazie a un lavoro di cromatizzazione, globalizzazione e multiculturalismo che creatori e sceneggiatori hanno tenuto qui ben presente. L’elemento nostalgia è garantito sia dalla colonna sonora (piena di canzoni italiane del passato) sia dal recupero delle atmosfere sentimentali light alla Sapore di mare. Gli attori sono spesso incerti ma offrono una loro autenticità e la protagonista è una scoperta decisamente interessante (da vedere però se esiste in Italia un sistema plurale teen di cinema e TV che possa dare un futuro ai tanti attori emergenti che stanno emergendo). Insomma, più che il classico guilty pleasure, un normal pleasure di cui alla fine abbiamo apprezzato concept produttivo e onestà nell’offrire il disimpegno estivo come orizzonte totalizzante.

BANGLA – LA SERIE

Bangla - La serie - RaiPlay

Bella l’idea Fandango/RAI (e Raiplay) di espandere il piccolo film del 2019 in una serie più lunga, affidando il ruolo di head a Phaim Bhuiyan. Un’autorialità-mondo che guarda, pur con la prospettiva multiculturale ed “etno”, all’ironia di Zerocalcare. E la presenza di Emanuele Scaringi in co-regia (La profezia dell’armadillo) non deve essere un caso. Aggiungiamo, come modelli internazionali, altre due serie “autofiction” come Master of None di Aziz Ansari e Ramy di Ramy Youssef (quest’ultima però ben più urticante e meno vicina alle atmosfere di Bangla). Il mescolarsi di storie personali, piccole vicende da letteratura di “Torpigna” e una storyline principale con una storia d’amore un po’ inverosimile tracciano la via per un orizzonte probabilmente limitato ma da considerarsi importante per vari motivi – a cominciare dall’idea che la seconda generazione cominci a produrre narrazioni italiane.

LA MALA

La Mala', o quando Milano non era da bere. E non è detto che fosse peggio |  Rolling Stone Italia

Le docu-serie stanno crescendo vertiginosamente in questi anni, e l’alleanza con la podcast culture dedicata al crime appare evidente. La Mala racconta la Milano tra il 1970 e il 1984, in un momento di violenza urbana e criminale indicibile ma pre-esistente (o propedeutica) rispetto alla criminalità contemporanea – al tempo stesso infiltrata dalle mafie meridionali e dalla finanza offshore. L’approccio è potente: usando un ricco repertorio di polizi(ott)esco “nordista”, il solito (ma eccezionale) lavoro d’archivio e una narrativa centrata sui personaggi più carismatici, La Mala è una specie di The Irishman documentario (con lo stesso finale: gangster che, se non sono morti, finiscono in ospizio). Gli effetti di ridondanza e le costruzioni retoriche dei personaggi sono ormai vocabolario di genere. Molto divertente, molto appassionante, un po’ lunghetto, con il consueto dubbio di epicizzazione di gente disgustosa, di assassini di merda. Però funziona.

TUTTO IL MONDO (E PARECCHIA ITALIA) IN SALA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE NORTHMAN

THE NORTHMAN | Anteprima gratuita a Roma - MovieDigger

Già il fatto di aver scelto una recensione breve spiega qualcosa dell’accoglienza qui a bottega. Paul Verhoeven aveva intitolato Flesh and Blood uno dei suoi film più belli e aveva mantenuto la promessa. Robert Eggers non ha quella forza (per imporsi ai produttori? allora meglio desistere). Ma nemmeno trasforma il suo vichingo in un blockbuster per pubblici più ampi, perché non ha il tribalismo action di Milius e del magnifico Conan. E così si resta in mezzo, tipo blockbuster arty, con scene spettacolari che non sono né meglio né peggio di quelle di Miguel Sapochnick – che nessuno considera un autore ma è tecnicamente altrettanto in gamba – e con una ricerca spasmodica di epica che non ti si attacca mai addosso, anche a causa di un protagonista dal carisma inesistente. Insomma, sotto a queste due ore e venti potrebbe nascondersi un altro The Northman più duro, più viscerale, più stregonesco, più nero ma non siamo così sicuri che ci sia davvero.

IL NASO O LA COSPIRAZIONE DEGLI ANTICONFORMISTI

Il naso o la cospirazione degli anticonformisti - LongTake - La passione  per il cinema ha una nuova regia

Dall’iperuranio arriva il bellissimo film di Andrey Khrzhanovsky, un mix di tecniche di animazione (tra cui CGI, collage, pastello, carboncino, ritagli, pochoir e altro ancora) e di live dove la storia della Russia e del celebre capolavoro di Gogol’ vengono rilette con spirito romanzesco e dissacrante. Enorme dialogo tra le arti, e grido surreale contro la censura, Il Naso parla soprattutto della versione teatrale gogoliana di Dmitri Shostakovich (di cui si simula anche la divisione in atti). Khrzhanovskiy ha preparato quest’opera per anni e anni, addirittura fu Shostakovich in persona ad affidare allo stesso regista, allora trentenne, il progetto di un lavoro che ricostruisse quell’adattamento. Seguendo il filo di un’arte russa segnata per sempre dallo scontro tra trasfigurazione simbolica e contenimento del regime (non ultimo quello di Putin, che viene citato), il film lascia sbalorditi per densità e senso testamentario – anche cinematografico – di un intero continente. Inevitabile la riflessione sull’oggi, visto che si comincia parlando degli inverni ucraini, in una scena pensata assai prima degli avvenimenti. Da non perdere, trovando una delle poche sale dove è proiettato.

ANIMA BELLA

ANIMA BELLA - Il Cinema Ritrovato

Che annata per il cinema italiano indipendente! Anche Anima bella colpisce a fondo. Opera seconda di Dario Albertini, potrebbe sembrare meno compatta di Manuel ma poi osa di più, con una prima parte rurale e una seconda, difficile, urbana – elementi che in passato sono costati più di un problema anche a registi esperti come Alice Rohrwacher. Invece la storia funziona, il ritratto di una ludopatia solitaria e invincibile è credibile, e soprattutto lo scambio di funzioni genitoriali tra padre e figlia rappresenta lo scarto di scrittura su cui tutto il racconto ruota con grazia. Dal punto di vista spaziale e paesaggistico, lo sfondo di bar, di sale giochi e di motel è tra le cose più malinconiche viste negli ultimi anni.

LA SANTA PICCOLA

ESCLUSIVA: Il trailer di La santa piccola, selezionato al Rome Independent  Film Festival - Cineuropa

Proseguiamo in linea con il film di Silvia Brunelli, dedicato a una bambina che compie prodigi forse ispirati dalla Madonna. L’odor di santità è un tema ricorrente nel cinema italiano, tra folk e modernizzazione, da Winspeare a Rohrwacher (ancora) e persino nel mainstream con le serie Sky Il miracolo e Christian. Ma qui il bello è che il sacro non è il tema principale, bensì un’amicizia maschile circondata da una famiglia confusa. La sensazione di opera prima c’è, indubbiamente, ma non ricordo da quanto tempo non si vedeva un film italiano così sessuale, con una corporeità messa al centro del discorso e non per forza con la necessità di fungere da elemento profano contrapposto al mistico. Il resto viene da sé: fulcro potente, che protegge i fianchi scoperti e anzi decide di prenderli alla lettera e spogliarli ancor di più.

BROTHERHOOD

Francesco Montagner's documentary Brotherhood charts three siblings' coming  of age - Cineuropa

E tre. Altro titolo italo-europeo di sicuro interesse. Vincitore del Pardo d’Oro per il concorso Cineasti del Presente al Festival di Locarno 2021, Brotherhood di Francesco Montagner è stato realizzato durante oltre quattro anni per seguire lo svilupparsi della vita dei due fratelli protagonisti (pastori bosniaci rimasti soli dopo che il padre viene incarcerato per legami con la jihad). Come Californie (e come Boyhood, oltre che come alcuni leggendari documentari del passato), anche questo lavora sul tempo e sulla flagranza del reale mutamento fisico dei protagonisti. Sul bilico tra documentario e finzione, Montagner si infila per ultimo ma non da ultimo della classe, vista la precisione narrativa e l’attenzione antropologica. Un racconto di spaesamento pre-moderno in un mondo contemporaneo dominato dall’impossibilità di crescere – in tutti i sensi.

LA TANA

La tana - 2021 - Recensione Film, Trama, Trailer - Ecodelcinema

E quattro. Ancora una regista dietro la macchina da presa. Questa volta non ci sono traumi bellici alla base del racconto, né dipendenze né miracoli, ma un rapporto a due complicato da un pesante legame con il dolore. Ad affrontare il piccolo romanzo di formazione è Giulio, ragazzo ingenuo e di personalità incerta, che incontra la misteriosa e impositiva Lia. Segue un’estate di conoscenza di sé e dell’altro, e qualche segreto nascosto tra i casolari di campagna un po’ gotici dove i due si conoscono durante un soleggiato spicchio di vita. Beatrice Baldacci pare soprattutto interessata alla costruzione di un personaggio di giovane donna oscura e piena di umanità spigolosa, mentre le svolte di trama convincono meno – pur essendo un esempio anch’esso di microcinema molto naturale e bene intenzionato.

ARTHUR RAMBO

Arthur Rambo (2021) di Laurent Cantet - Recensione | Quinlan.it

Quando i film muoiono per equidistanza. La storia del blogger di origine musulmana, alle prese con un grande e democratico successo letterario, poi distrutto da alcuni vecchi tweet, appartiene a un fatto di cronaca francese. Cantet mette in scena un personaggio del tutto opaco, di cui non intuiamo nulla: è un provocatore, un attivista, un razzista, un artista frainteso? Il boh, però, non è il frutto di una riflessione sull’ambiguità della verità e sull’inconoscibilità dell’informazione contemporanea (com’era France di Dumont, viaggio eccezionale nella Francia in crisi), ma appare come un faticoso compromesso. E anche la rappresentazione della comunicazione tecnologica, qua e là intuita, si infrange contro un muto di indecisione registica. Non è la prima volta che Cantet mostra qualche limite, ma questa volta le incertezze diventano macigni.

BAD ROADS

Bad Roads - Le strade del Donbass: la recensione del film di Natalya  Vorozhbit - iO Donna

Non dev’essere un caso che le storie dei conflitti persistenti, come quello in Donbass, diventino film a episodi (o episodici, come quello di Loznitsa). Questa volta tre situazioni diverse danno vita a un mosaico surreale, dove fa capolino il cinema di guerra grottesco della ex Jugoslavia, tuttavia ancorato a un certo sano realismo che gli impedisce di trascolorare nell’apologo. A volte le parti in lotta sono faticose da distinguere, a dimostrazione che dal 2014 in Donbass – come il cinema sull’argomento ha ampiamente mostrato – si combatte una guerra sporca, dove invasore e invaso fanno cose orribili sulla pelle delle comunità di una regione impoverita dal conflitto. Miserie morali e ironie lugubri dominano, magari non sempre governate alla perfezione da Natalya Vorozhbit. Da collegare a quello che a posteriori possiamo ormai (purtroppo) definire “cinema del conflitto ucraino”.

GLI AMORI DI ANAÏS

Al cinema Gli amori di Anaïs, la recensione: il film che è una “corsa” tra  i sentimenti

Questo film è un po’ la cartina di tornasole del nostro rapporto vagamente malsano col cinema francese. In queste settimane è uscito di tutto da Oltralpe, con scarsissimo successo. Da una parte ingiustamente, perché il cinema francese continua a sfornare decine di film interessanti ogni anno. Dall’altra è giusto intravedere invece una stanchezza formulaica, un cinema medio-autoriale che conta su un mondo produttivo solido e su una tradizione umanistica importante ma che riproduce stancamente una vera e propria ideologia d’essai. Gli amori di Anaïs di Charline Bourgeois-Tacquet fa parte di questa categoria: la protagonista corre sempre come in Baumbach o Anderson, è autonoma e irrisolta come in la persona peggiore del mondo, ha una storia intensa con un’altra donna che viene narrata con tenerezza e sensualità come in Céline Sciamma, e tutto somiglia a qualcos’altro senza esserlo. Ideine, che non meritano il solito plauso d’invidia verso i cugini.

SETTEMBRE

Settembre - Groenlandia Group

Dobbiamo cominciare a preoccuparci del dramedy? Pur leggendo ovunque cose gradevoli e pur essendo convinti che Settembre possa essere a giusto titolo considerato un film stimabile, ci si chiede che senso abbia il tutto. Un film così (che peraltro viene buttato in sala con zero speranze di successo commerciale, cosa che accomuna ormai la gran parte del cinema nazionale), cambiando prospettiva, potrebbe anche essere un segnale di resa. La piccola ronde amorosa e personale delle due coppie, e dei figli, che costruisce la costellazione narrativa è esattamente quello che fanno – spesso con più tempo, spazio, acume – le serie dramedy televisive (per esempio il pimpante Volevo fare la rockstar di Rai Due). L’incessante tappetino musicale, i personaggi borghesi in crisi sentimentale, gli appartamenti poco vissuti, la ricerca dell’autenticità emotiva attraverso i piccoli accenni, il minimalismo e le sorpres(in)e….. ormai risultano interessanti se si è campioni di scrittura come Francesco Bruni, altrimenti si rischiano invisibilità e irrilevanza assoluta.

IL RE

Sky, la Polizia Penitenziaria contro la serie tv “Il Re”: «Uso improprio  del logo» - Il Mattino.it

Per la serialità Sky si tratta con tutta evidenza di una fase di passaggio. La (stanca) chiusura del franchise Gomorra è uno spartiacque simbolico: il lavoro con gli autori (Muccino), con gli scrittori (le serie di Ammaniti), con modelli più generalisti (Petra), con espansioni narrative (Romulus) e con i generi più duri (Il re) indicano una chiara voglia di ricerca del nuovo ma danno anche la sensazione di confusione editoriale. Il re non è affatto male, ma dentro convivono troppe tensioni estetiche: è crudo fino all’inverosimiglianza (Isabella Ragonese che pratica il water boarding sui detenuti come ad Abu Grahib!), ma poi apre sprazzi di umanità in personaggi che quasi non ce la fanno ad essere cattivi fino in fondo (Zingaretti), mescola giallo, carcerario, thriller, cinema di denuncia in un mélange spesso fatto di segmenti più che di polpa a strati. E il tema della Jihad sembra intempestivo. Un risultato verso cui avere rispetto, sia chiaro, ma forse poco ispirato e certamente poco ripetibile.

IMMAGINI GLOBALI DALLA TERRA ALLA LUNA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

APOLLO 10 1/2

Apollo 10 1/2: A Space Age Childhood - La recensione

Di nuovo alle prese con l’animazione al rotoscopio, l’impagabile Richard Linklater (che ancora gode di uno “scalino critico” più in basso di quel che merita) offre uno strepitoso catalogo di gioventù che si intreccia con la fantasia adolescenziale di un ragazzo che immagina di andare sulla Luna. L’intreccio sorprendente tra ucronia e nostalgia offre un impatto melanconico e umoristico di rara ispirazione, ma soprattutto la prima ora – dove lo srotolamento dei ricordi, degli oggetti, dei materiali mnestici diventa torrenziale – è grande cinema a tutti i livelli.

GLI AMORI DI SUZANNA ANDLER

Gli amori di Suzanna Andler - Film (2021) - MYmovies.it

Sul nuovo numero di Film TV (numero 16, 2022), l’amico Pietro Bianchi spiega dettagliatamente perché Benoit Jacquot è un signor cineasta. Letto tutto l’articolo, devo dargli ragione. Eppure ho fatto una enorme fatica a scalare questa montagna, pièce in unità di luogo tratta da uno scritto poi in parte ripudiato di Marguerite Duras. I tormenti, più che gli amori, di Suzanna sono tutti didascalici e i “récadrage” della messa in scena ovvii e noiosissimi, e il gioco delle parti – con sorprese – non è sorprendente. Abbiamo rimpianto La voce umana di Almodóvar.

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Qui c’è un bel problema di discorsi critico-estetici. Ovvero: questo è chiaramente un film hipster, modaiolo, furbastro, col bianco e nero fighetto, ecc ecc. Ma siamo certi che sia il giusto punto di vista? Quando diciamo che ormai il cinema “indie” è un genere, perché poi non lo giudichiamo con il metro del genere? Se nei film action ci sono gli inseguimenti e gli scontri, nel cinema “indie” c’è il bianco e nero, c’è Joaquin Phoenix, c’è la meta-riflessione sul documentario, c’è tutta questa roba qua. Quindi come “film di genere” C’mon C’mon funziona o no? Secondo me sì.

SUNDOWN

Sundown, in anteprima il trailer ufficiale del film con Tim Roth e  Charlotte Gainsbourg

Non ho ben capito perché Michel Franco sia così bersagliato. Di Nuevo Orden alcune recensioni non avevano nemmeno capito la trama della seconda parte del film, eppure era un (rozzo) esempio di pamhplet sulla simmetria del populismi dal basso e dall’alto con elementi intriganti di costruzione narrativa. Questa lenta disgregazione morale di un riccastro nella dark side di Acapulco è probabilmente un film di Ulrich Seidl senza la dimensione corporea e antropofagica del cineasta austriaco. Ma Franco continua ad essere un regista interessante e i suoi apologhi meritano una qualche riflessione.

CALIFORNIE

CALIFORNIE | Biglietti omaggio per il cinema Tibur di Roma - MovieDigger

Non ricordo un momento così ricco per il cinema italiano piccolo e piccolissimo quale quello degli ultimi anni. Anche Californie spicca in un panorama di micro-cinema di assoluto valore. La storia di una ragazza di origine marocchina, seguita dalla mdp per alcuni anni (dai 9 ai 14), in un impasto tra documentario e finzione, che per una volta è frutto di scelte lunghe e consapevoli, colpisce e commuove. Lo sbertucciato cinema del reale in verità continua a rivelarsi un caleidoscopio di progetti in cui convivono talvolta velleitarismi ma anche, come in questo caso, progetti intensi e riusciti.

UN FIGLIO

Un figlio (2019) di Mehdi Barsaoui - Recensione | Asbury Movies

La formula è quella “farhadiana” che sta diventano un modello: scelte drammatiche che mettono in conflitto il singolo e l’istituzione (o il dispositivo sociale) con svelamento progressivo di tracce oscurantiste nel vissuto dei protagonisti. Mehdi Barsaoui traspone la strategia nella Tunisia del 2011 – con tutto quel che comporta – e scolpisce un melodramma matarazziano raffreddato cui purtroppo manca proprio il coraggio di farsi fiammeggiante, rimanendo inchiodato nei moduli del cinema d’essai e del film “da discussione”. Peccato per Sami Bouajila, al solito enorme.

UNA MADRE, UNA FIGLIA

“Una madre, una figlia”, un film toccante su un legame sacro (e  indissolubile)

Scene di patriarcato in Ciad. Mahamat-Saleh Haroun racconta “femmine folli” orgogliosamente indipendenti in posti in cui sarebbe meglio non esserlo. La sottile linea tra “terzo cinema” didattico e cinema-cinema è risolta a favore di questo film grazie a elementi di pura messa in scena. Bastano l’inizio e la fine. La prima scena del lavoro manuale sulla gomma è strepitosa, materica, onesta. Il momento “revenge” è labirintico, duro, secco come il colpo del bastone che schiocca sulla testa. Qua e là poi le cose funzionano meno, ma con un atteggiamento cinematico di questo tipo perdoniamo tutto.

GRANCHIO NERO

Granchio nero (2022) - La recensione del film su CinemaLux

Action fantascientifico svedese con l’onnipresente e tostissima Noomi Rapace. Siamo in un futuro “ucrainizzato” con una guerra devastante che ha ridotto il Paese in macerie. Una combattente va in missione semi-suicida sui ghiacci con la speranza di incontrare la figlia strappata dagli invasori. Lasciando perdere ogni riflessione in materia, Adam Berg imbastisce un’avventura fin troppo lunga con alcune idee formidabili e con dignità assoluta per il genere europeo. Sia la guerriglia urbana sia la lunga parte su pattini sono da applausi. Poi sbraca, ma è un piacere (e in Italia si potrebbe fare?).

ANTIDISTURBIOS

Antidisturbios - Delitto e Castigo al TFF 2020 - ArteSettima

Arrivata a sorpresa su Disney+, la serie di Isabel Peña e Rodrigo Sorogoyen (sempre più interessante come autore contemporaneo) ha già fatto il pieno di elogi. Ci accodiamo, notando l’ossessione di Sorogoyen per la corruzione in Spagna, e notando come i problemi dei corpi di polizia – volgarmente, i celerini – siano simili dappertutto. Vincente l’idea di promuovere a protagonista una giovane donna (Vicky Luego, un grumo di bellezza e tensione), e vincente l’idea di guardare al vulcano sociale di oggi come a un conflitto tra persone troppo abituate a scontrarsi per capire il male che fanno ai presunti nemici. L’indagine convince meno dell’affresco ma è un dettaglio.

IL CINEMA DELLE COMUNITÀ IN CRISI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

LAMB

Full trailer per Lamb: nell'Islanda rurale Noomi Rapace cresce un bebè  ibrido umano-pecora - Il Cineocchio

Piccolo horror islandese con Noomi Rapace (di cui bisognerebbe cominciare a tratteggiare la figura di attrice quasi-di-genere), che si occupa di ibrido uomo/animale. Come lo svedese Border del 2018, anche Lamb lavora su elementi ancestrali, dimensioni famigliari e sessuali, elementi primari che sconvolgono gli orizzonti di conoscenza senza per questo sfociare nei codici più riconoscibili dell’occulto. Anzi, in questa storia di un figlio con testa di agnello che porta a intensificazione difficili rapporti parentali, quel che piace è la “piena luce” in cui si svolgono gli avvenimenti, con l’unico strumento del fuori campo per lavorare sul mistero e sull’occultamento. Certo il folk horror sta diventando un sotto-genere abbastanza riconoscibile, talvolta facile nelle sue articolazioni. Così come bisogna onestamente sottolineare l’inconsistenza narrativa che talvolta si nasconde negli stilemi della rarefazione. Ma il tassello di horror autoriale europeo si aggiunge al resto con merito.

LUNANA

Lunana, il film del Buthan che merita l'Oscar 2022 ha un tocco gentile e  aggraziato. Il trailer in anteprima - Il Fatto Quotidiano

Sinceramente, quando ho letto del primo film bhutanese candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, e per di più con una storia che sembrava molto simile a Non uno di meno di Zhang Yimou, la parte più cinica di me ha pensato al consueto prodotto didascalico esotico che piace molto al pubblico pomeridiano delle sale d’essai. Visto il film, pur non rimangiandomi completamente lo scetticismo iniziale, devo ammettere che Lunana ha numerose frecce al suo arco. Lo stile è nitido più che risaputo, la trasparenza del protagonista più autentica che costruita retoricamente, la pudicizia della non-storia d’amore quasi fordiana in certi momenti di wilderness, la tensione tra aspirazione sociale giovanile e tradizione di villaggio non così scontata come sembra. Probabilmente in mani più autoriali sarebbe diventato cinema contemplativo d’autore, ma l’aver scelto una chiave più ingenua ed empatica non è certo una colpa, anzi.

IL MUTO DI GALLURA

Il muto di Gallura” al Torino Film Festival - La Nuova Sardegna

Tanti indizi cominciano a fare una prova. La storia folk italiana sta diventando un elemento di elaborazione narrativa interessante per il piccolo cinema indipendente italiano: Piccolo corpo, Re Granchio, solo per citarne due recenti, ci parlano come Il muto di Gallura di territori, credenze, legami di sangue, rituali e comunità, ognuno poi lavorando su fronti non autoctoni: il film di viaggio, il western, persino l’horror. Nel film di Matteo Fresi lo scenario è quello di una faida ottocentesca sarda, un Hatfield & McCoy all’italiana, dove fucili, cavalli, cinturoni e buone mire furono decisive per proseguire un conflitto pluriennale e sanguinosissimo. Il progetto è molto forte, pensato nel modo giusto. I problemi vengono con i materiali concreti, a cominciare da attori molto diseguali, cali di potenza registica improvvisi, enfasi che non sempre riesce a essere riassorbita nel nerbo del racconto. Inoltre il western è un modello fin troppo evidente, con scolastici brani musicali simil-morriconiani che rischiano di indebolire l’idea.

PO

Po, Andrea Segre e Gian Antonio Stella ricordano l'esondazione del 1951 |  CameraLook

L’attività di Andrea Segre è incessante, alternando documentari e cinema di finzione. Ormai il mondo veneto per Segre è luogo di mitografia, ricostruzione storica e dedizione narrativa. Questa volta si racconta una tragedia dimenticata: il 14 novembre 1951, l’argine sinistro del Po si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più povere di tutta Italia. Vengono invase non solo le campagne, ma uno a uno tutti i paesi, fino alle città di Rovigo, Adria, Cavarzer: tantissime vittime e tantissimi sfollati. Non c’era la televisione, ma l’Istituto Luce, i cui archivi vengono ampiamente saccheggiati da Segre (con Rizzo, co-autore). E i bambini di allora, oggi vecchi che parlano quasi solo in dialetto, raccontano i loro ricordi, dominati dalla miseria prima ancora che dalla tragedia. Forse meno avventuroso e inventivo di altri doc di Segre (ma chiarezza e solidità non vanno affatto considerate concessioni), Po ha il dono di essere limpido e sentito.

MASTER – LA SPECIALISTA

Di cosa parla il film Master

Black Lives Matter Horror prosegue. Questa volta la storia riguarda la promozione a dirigente accademica di una professoressa nera, la prima del Campus, e i guai che affronta una studentessa che alloggia in una stanza maledetta (non si contano le sovrapposizioni col recente Seance). Al posto dei colpi di scena a buon mercato, la regista Marianna Diallo preferisce una tensione carica di malinconia e la consueta vena didascalica (per questa declinazione di genere, escluso il più imprevedibile Jordan Peele): è un tratto tipico della narrazione audiovisiva afroamericana, non trattandosi di retorica pedagogica bensì della necessità di exempla potenti su cui forgiare il discorso sull’identità. Il tema in questo caso è la sostanziale persistenza di razzismo e paternalismo nei confronti dei colleghi neri da parte della comunità degli accademici bianchi anche quando si credono progressisti. Peccato per un terzo atto scialbo e tirato via. Master sembra una versione dark della serie Netflix La ditettrice, ma qui siamo su Prime Video, a riprova di quanto i prodotti di “genere/politica” siano frequenti sulle piattaforme.

STORIE DI ASPIRAZIONI E TRASFORMAZIONI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

CODA – I SEGNI DEL CUORE

CODA - I segni del cuore: dove e quando vedere il film Premio Oscar

Uno degli Oscar al miglior film più anonimi di sempre. Non certo perché si tratti di un remake (gli adattamenti di tutti i tipi sono un aspetto fondamentale del cinema fin dalla sua nascita) ma per la pigrizia con cui è stato confezionato. Difficile sostenere altresì che sia un brutto film, il che è quasi peggio perché la bruttezza talvolta è un segno di vita mentre in questo caso ci troviamo di fronte al classico good job (ricordate il monologo del maestro di jazz di Whiplash?). A proposito di good, possiamo dire che La famiglia Bélier era un classico feelgood movie, di cui Coda trattiene gli elementi euforici con una qualche, pallidissima, aggiunta di critica sociale (il peschereccio) a favore degli esclusi. La presenza di Marlee Matlin e di attori sordomuti garantisce la correttezza assoluta, ma si tratta a tutti gli effetti di un film perfetto per lo streaming. Almeno Netflix presentava alcuni film cinema-cinema, quale Coda non è.

UNA STORIA D’AMORE E DI DESIDERIO

Una storia d'amore e desiderio, un film poetico e intenso che racconta una  lotta interiore (e generazionale)

Interessanti ribaltamenti di prospettiva nel nuovo film di Leyla Bouzid. Abbiamo infatti un giovane maschio francese di origine algerina, cresciuto nella periferia di Parigi con forti elementi di conservatorismo morale. E abbiamo Farah, di cui il ragazzo si innamora, tunisina appena arrivata nella capitale francese e ben più aperta agli incontri occasionali e alla scoperta dell’altro. Per una volta è l’uomo a sottrarsi all’erotismo, e la donna a insegnargli la fisicità dell’amore. Ci metterà tutto il film per farlo, sfruttando anche una tradizione meno nota di letteratura araba erotica. Il cinema sul desiderio è sempre questione di sfumature. Bouzid lo sa e lavora molto bene a partire dalla struttura ottica dell’attrazione, dove lui e lei si scambiano le caratteristiche culturali della danza seduttiva. E anche se la durata del lungometraggio pare eccessiva per un racconto che si mantiene sullo stesso asse per cento minuti, il film ha le idee chiare.

CALCINCULO

Calcinculo, il trailer ufficiale del film [HD] - MYmovies.it

Nuovo gioiellino prodotto da Tempesta. Piccolo cinema italiano dei margini, che sinceramente vediamo spesso ma che altrettanto sinceramente non sempre è ben diretto o attentamente sorvegliato. Di Calcinculo piace proprio l’attenzione di Chiara Bellosi nel costruire gli spazi, gli ambienti, i corpi, il rapporto tra dentro e fuori, viaggio e stasi, giri a vuoto e linee rette: un lavoro davvero ricco, anche se applicato a una vicenda volutamente minimalista. Si comincia con una storia di bulimia e si prosegue con un confronto tra sessi e sul sesso con un outsider assoluto che modifica la visione del mondo della protagonista. Ovviamente ci sono “ganci” di sceneggiatura fin troppo visibili (del resto evidenziati fin dal titolo), ma come detto è proprio nella messa in scena e nella direzione degli attori che il film si incarna e si verifica, e non per forza in cerca di flagranze rohrwacheriane o marcelliane – che altrove hanno fatto scuola nel cinema indipendente nazionale. Infine, una citazione speciale per Andrea Carpenzano, sempre più elettrico.

CORRO DA TE

Corro da te, film con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone: trama, trailer,  uscita | Radio Deejay

Ci sono due modi di guardare a questo film. Uno senza troppe menate, per cui ci troviamo davanti a una discreta commedia di Riccardo Milani che aggiorna alcuni elementi “sofisticati” hollywoodiani attraverso un adattamento accettabile dell’originale francese. Poi ce n’è un altra – che sappiamo rischiare l’eccessiva seriosità – che si chiede che senso abbia rappresentare in questo modo la disabilità fisica. Si consideri che nel film uno degli elementi narrativi centrali è che chi si finge disabile viene riconosciuto lontano un miglio dai veri disabili: perché solo loro sanno che cosa vuol dire essere, e non sembrare, limitati da un handicap ogni minuto della propria vita. Ah, sì? E perché quindi noi spettatori dovremmo credere alla bellissima Miriam Leone che si muove disinvolta sulla sedia a rotelle dandoci una lezione sul fatto che tra le disabili si nascondono meraviglie da Miss Italia? Non si tratta di imporre attrici disabili in ruoli di disabile per puri motivi di correttezza ma di non mentire così spudoratamente tra morale della favola e modi per raccontarla.

ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO

Altrimenti ci arrabbiamo! 2022: trama cast confronti originale | Style

Flop terrificante per questo remake che osa mettere mano al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Il trailer e i materiali promozionali sembravano in verità aver trovato una chiave per ricordare lo spettacolo popolare di mezzo secolo fa, oggi spina dorsale di prime time delle reti private. Purtroppo il lavoro di Younuts! è un mezzo disastro dal punto di vista del world building. Pesce e Roja ce la mettono tutta per imitare i due miti, ma si trovano immersi in un mondo totalmente svuotato: non solo la scenografia è tristemente di cartapesta, i volti sono sbagliati, i ritmi comatosi, le scazzottate fasulle, le risate telefonate e così via; è che man mano che il film prosegue ci si accorge che quel cinema artigianale e quel pubblico pop non esistono più. Si sostenevano l’un l’altro e si sono trasferiti in una ritualità da piccolo schermo ormai non più resuscitabile. Rimane dunque solo la possibilità di una reviviscenza postuma, che però dovrebbe averne la consapevolezza. Un film per nessuno che voleva essere per tutti.

VIAGGI NEI MONDI E VIAGGI NEL TEMPO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

IL MALE NON ESISTE

Il male non esiste: trailer, trama, cast e anticipazioni film Orso d'Oro

Il cinema iraniano ha reinventato di sana pianta anche il cinema a episodi (ricordate Ten di Kiarostami, per dirne uno?), offrendo a questa struttura la possibilità di lavorare come mosaico e non come addizione. Nel film di Mohammad Rasoulof, che ha vinto l’Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino 2020, gli episodi sono uniti dal tema della pena di morte. Per le sue posizioni e per il contenuto il regista ne ha passate – e ne sta passando – delle brutte in patria (tanto per ricordarci quanti autori vivono tuttora sotto regimi censori, vedi anche poco sotto). Il male non esiste peraltro cerca di inserire l’orrore dell’esecuzione capitale (che Farhadi nell’ultimo film ci ricordava poter essere riscattata da denaro) in un contesto di gente comune: i boia sono persone come noi, che a volte svolgono il loro lavoro con metodica malinconia e in altri rimangono traumatizzati o vogliono fuggire. Meno convincente quando il racconto diventa troppo costruito, il film capitalizza quello che è ormai uno stile mutevole, transitato da Kiarostami a Panahi, da Farhadi alla nuova generazione.

PARIGI, TUTTO IN UNA NOTTE

Parigi, tutto in una notte: trailer del film con Valeria Bruni Tedeschi |  Lega Nerd

Per pura coincidenza distributiva escono due film francesi che fanno della compressione temporale e della tensione cronologica l’architrave del racconto. Sono questo, di Catherine Corsini, e Full Time, di cui parleremo la prossima volta. L’idea di La fracture (titolo originale) è che in un pronto soccorso, per alcune ore dopo il tramonto, si assiepino i reduci (feriti) di una manifestazione di gilet gialli, altri normali pazienti bisognosi, e persino qualcuno con disordini mentali. Infermieri sottopagati, medici in prima linea, gas lacrimogeni che si vedono in lontananza (nemmeno troppo) e corpi rotti o vulnerati: Corsini non sembra interessata a un approccio “carpenteriano”, l’assedio è stemperato da sottili ironie e da un personaggio (interpretato da Valeria Bruni Tedeschi) quasi screwball. Attenta a non condannare nessuno – più che altro a sottolineare le magagne del welfare allo stremo – la regista porta a casa un discreto risultato, nulla più. Cinema medio-autoriale francese in purezza.

PETROV’S FLU

Petrov's Flu, il trailer italiano del film di Kirill Serebrennikov -  MYmovies.it

Si può vedere sulla meritoria piattaforma IWonderfull questo alcolico e stralunato film randagio di Kirill Serebrennikov, dissidente russo nel mirino di Putin e degli zelanti funzionari del despota, più volte in carcere e spesso tenuto lontano dai tappeti rossi dei festival dove i suoi film vengono proiettati. Mettendo le mani dentro le viscere del contemporaneo. Serebrennikov gira un piccolo capolavoro maledetto, dove il flusso di oggettività e soggettività scorre senza soluzione di continuità. Il motore narrativo è un’influenza di massa che altera le sensazioni e la capacità di essere vigili a se stessi: ogni stereotipo russo (dall’alcool al sentimentalismo, dalla musica alla violenza) viene, durante il fluviale racconto, decostruito e riconfermato. Attraverso la lente dell’irrazionalità e di un “realismo visionario” che riesce a far convivere sarcasmo e tragedia, Serebrennikov si afferma come maiuscolo narratore. Inutile dire che la visione di questo film oggi assume significati ulteriori.

ACQUE PROFONDE

Deep Water: primo trailer del thriller erotico con Ben Affleck

Adrian Lyne, ottantunenne, torna dopo vent’anni dietro la macchina da presa per Prime Video e un sacco di cinefili si sbracciano nel cercare analogie con il cinema thriller anni Ottanta e con l’estasi dell’immagine patinata che l’autore contribuì a fondare in quel decennio. Peccato nessuno si sia accorto che Deep Water sembra un remake spiaccicato dell’ultimo, pessimo Lyne di inizio anni Duemila – Unfaithful – con l’unica differenza che è la moglie, e non l’amante, a essere giovane. Tratto da un bellissimo romanzo di Patricia Highsmith, qui adattato senza capirne le sottigliezze, si tratta di quello che avremmo definito straight-to-video ma con attori importanti (il che sembra una definizione calzante per un certo cinema in streaming di questi anni). Fiaccato da un montaggio impresentabile e da una regia poco lucida (basti vedere la scena dell’inseguimento in bici, tra go-pro e pessimi stunt, per capire), il film parla di sesso senza farne vedere quasi mai – Lyne era più generoso un tempo – costruendo un ambiguo Ben Affleck, che però non ha l’ambiguità nel suo vocabolario recitativo.

THE ADAM PROJECT

The Adam Project: la recensione del nuovo film con Ryan Reynolds - NerdPool

Un tempo si parlava di “vulgar auterism” per gente come Michael Bay e Justin Lin (fracassoni ma riconoscibili). Anche Shawn Levy è un tipo riconoscibile: ha una fiducia incrollabile nello spettacolo per famiglie, gestisce budget alti ma non infiniti, ama faccette innocue come Ryan Reynolds, non disdegna bimbi in scena, adora i dialoghi con battutine pronunciate dai protagonisti nei momenti in cui rischiano la vita. Qui di mezzo c’è un viaggio nel tempo e una curiosa coppia formata da un uomo e dal se stesso bambino, che avrebbe in altre mani offerto materia struggente e qui viene incenerita da un flusso di action e di buddy-comedy da stancare anche il più prestante fan del popcorn movie. Poi a fare i moralisti si rischia di non capire come funzionano gli algoritmi di Netflix e i trilioni di ore di visione che Adam Project raggiungerà. Insomma è un tipico film pronto per analisi accademiche di produzione e consumo. (A un certo punto salta fuori Mark Ruffalo, al solito spettinato e stropicciato, e tutto prende una piega più nobile. Ma è un attimo).