Visioni Riflessioni Passioni

AZIONI, NOSTALGIE, LUOGHI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ARMAGEDDON TIME

Che James Gray sia uno dei più importanti registi contemporanei americani è assodato. Con questo ritratto semi-autobiografico, avvicinato a un The Fabelmans senza mito del cinema, lavora ancora più direttamente sulle sue ossessioni ricorrenti (famiglia, padri, conflitti culturali, viaggi erratici, memoria). Curiosamente, laddove pensavamo avrebbe dissolto ogni accademismo (C’era una volta a New York) e riguadagnato la libertà perduta (Ad Astra, soffocato dai produttori), abbiamo trovato invece un memoir trattenuto e insistente. Di cui si deve onestamente dire soprattutto bene, perché è un bel film. Ma Gray può essere molto meglio di così, meglio delle citazioni da Fellini e Truffaut e meglio delle strizzate d’occhio contro Trump.

JOHN WICK 4

C’è chi legittimamente rimpiange il John Wick pre-delirio, quello dove l’action veniva sì intensificato ma non portato al paradosso (sostanzialmente, il primo episodio e parte del secondo). Ma se caos dev’essere, tanto vale che sia come lo vediamo nel quarto capitolo del sempre più estremo Stahelski. Un body count inenarrabile ottenuto attraverso un parossismo gestuale e geometrico dove persino le pallottole devono essere conficcate a forza nel nemico. La scena della scalinata del Sacro Cuore – e in particolare la caduta infinita di Wick – sono la scatola nera del franchise. Cinematico e pronto per esami teorici più profondi.

DELTA

Fa piacere che ci sia chi opera ai fianchi i generi cinematografici, cercando di mettere insieme tradizione iconografica italiana e suggestioni cinefile internazionali. Il progetto della “scuola Rovere”, qui incarnato dal lucido Michele Vannucci, stavolta si sposta sulle terre del Po (decisamente note alla storia del cinema nazionale). Un po’ polar, un po’ De Santis, un po’ palude silenziosa, Delta alla fine è soprattutto un folk western di pregio, dove l’unico problema è di natura narrativa, con un terzo atto meno incisivo del previsto con rischio di anti-climax (si teme involontario). Lo Cascio prosegue nel suo viaggio dentro le cadenze italiane, Borghi rischia di interpretare sempre lo stesso orso asociale.

CLERKS 3

Nel post(u)moderno che segna questi anni a tutti i livelli, arriva anche Kevin Smith, con un capitolo straziante e flagrante a chiudere la trilogia dei commessi. Unire elementi demenziali e morte è gioco difficile, ci è riuscito Belushi con pochi altri. Smith comincia cazzeggiando, con una regia a dir poco statica, ma poi costruisce una totentanz punk nostalgica e pur sempre goliardica, fatta di fantasmi e di corpi che invecchiano male. Fino a una svolta meta-cinematografica da applausi, perché gestita con grande e disinvolta consapevolezza. Ovviamente ancora più significativa per chi aveva 20 anni nei Novanta.

LO STRANGOLATORE DI BOSTON

Dal capolavoro sperimentale di Richard Fleischer con Tony Curtis in split screen a un modesto tentativo di tornare sul caso ancora aperto degli omicidi di Boston di fine anni Sessanta. Incartato in un tradizionalissimo film di indagine giornalistica (che pure vorrebbe ripetere le atmosfere di un altro thriller dell’irresolutezza, Zodiac, senza lontanamente sfiorarne le vette), lo streaming movie finisce per essere poco più di un veicolo per Keira Knightley, supportata dalla sempre ottima Carrie Coon. Un po’ poco.

FLEISHMAN A PEZZI

Dimostrazione che la serialità in forma drama è forse l’approdo più credibile per il cinema indie-Sundance degli anni Novanta/Duemila. Non a caso qui ritroviamo due coppie di autori che hanno fatto un pezzetto di quella storia (Dayton/Faris di Little Miss Sunshine e Berman/Pulcini di American Splendor), alle prese con un ritratto denso e “malincomico” di un gruppo di quarantenni delusi dalla vita. Se Eisenberg ripete il personaggio post-alleniano, sono le due protagoniste a splendere, soprattutto Lizzy Caplan, attrice ampiamente sotto-utilizzata. La voce narrante del suo personaggio è anche un progetto politico di presa di parola femminile, contro lo strazio lamentoso del mancrying autoreferenziale.

VERA

Nuova incursione nel sottobosco umano di Covi e Frimmel, sempre in bilico tra materiali documentari e propensione alla scrittura narrativa. Stavolta però Vera si sposta nel mondo cafonal di una sensibilissima e colta figlia d’arte, che si presta a una curiosa autofiction gestita da altri. Paradossalmente, se dell’umanità di Vera Gemma non ci si può che inebriare (anche come processo di comprensione fisica del suo corpo), a mancare il bersaglio sono proprio gli elementi romanzeschi, che stridono e si palesano un po’ posticci. Quasi che, per rispetto della protagonista, gli autori siano rimasti al di qua sia del mélo sia del freak show.