Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
ALIEN: ROMULUS
Per fortuna si torna su un’astronave e si torna alla caccia. Ci sono voluti molti anni per capire che cosa fare della saga aliena, ma Ridley Scott alla produzione e Fede Alvarez in regia (e sceneggiatura) hanno trovato la quadra rispolverando l’idea originaria: un’anima interna da B-movie fortemente ancorato alla valorizzazione estetica del set. Con una storia riuscita (sia pure troppo preoccupata e parassitaria – è il caso di dirlo – nei confronti della mitologia originaria, compresi i rovinosi Prometheus e Covenant), Alien: Romulus scarta qualsiasi tentazione allegorica. Anche se ci sono un androide nero, ribelli multietnici, maternità orrorifiche, simboli fallici e vaginali a iosa, nulla di tutto questo suscita grandi metafore. Conta l’azione, come giusto che sia, e conta che mostri e umani si confrontino secondo i codici animaleschi ed elementari della selezione naturale. Adorabile il fatto che sia stato girato in Ungheria e che ungherese sia la folta troupe (compreso, al prostetico, l’ottimo Iván Pohárnok, quello di Midsommar). Si segnala una maestosa sequenza in assenza di gravità, e una Cailee Spaeny (altezza 1,55 contro l’1,82 di Sigourney Weaver: e questo cambia molto nella dinamica dei movimenti), sempre più elettrica dopo la Priscilla di Sofia Coppola e la fotografa di Civil War: quando si dice saper scegliere i film giusti.
TRAP
I due cervelli-cinema americani al momento sono Soderbergh e Shyamalan. Il secondo cerca di restare attaccato al mainstream con un doppio meccanismo: thriller/horror sempre più “estivi” (nel senso di divertissement) e teoria dello sguardo sempre più estrema. Trap raggiunge vette di consapevolezza filosofica acutissime nel momento stesso in cui mette al rogo ogni meditabonda lentezza à la The Village. Stavolta Shyamalan chiede aiuto al patrimonio di De Palma per arrivare al solito Hitchcock da una libidinosa e libidinale porta secondaria. Siamo con l’assassino? Non del tutto, ma è il killer a insegnarci che bisogna saper guardare, distogliere l’occhio dal palco e analizzare lo spazio (sociale) circostante. Solo quando anche gli altri (le altre: la popstar, la moglie, la figlia) imparano a uscire dagli schemi e dai rapporti di forza stabiliti, possono affrontare la furia omicida maschile. Povere famiglie USA, che Shyamalan fa a fettine da The Visit in poi. PS. aspiranti registi del CSC: prendete i film di questo autore per apprendere lezioni di regia inquadratura per inquadratura.
CATTIVISSIMO ME 4
Tutto dipende dalle aspettative. Se, come chi scrive, andate in sala consapevoli che l’età dell’oro dell’animazione sperimentale di massa è finita da 10-15 anni, il quarto episodio della saga (ma in verità sesto, contati quelli dei Minions) apparirà meno letale del previsto. Se invece arrivate carichi a molla e intransigenti verso le furberie Illumination, beh allora ci saranno solo irritazione e astio. La storia è scritta piuttosto male (linee narrative che faticano a convergere), ma l’aspetto ritmico/stimolativo giustamente prevale, e il tutto – inteso come catalogo di gag e accidenti – funziona come anti-depressivo cinematico e anti-spastico da grande schermo. Per il resto, che qualcuno ci salvi dai music supervisor e dalle playlist vintage sparate a palla in colonna sonora (funzionò solo nel primo Guardiani della Galassia, il resto è noia).
MILLER’S GIRL
Al minuto uno la voce fuori campo di Jenna Ortega ha già pronunciato la parola “gotico”. Pur non c’entrando nulla con il contesto (la storia di una studentessa che cerca di sedurre il professore di Letteratura spingendolo a superare i confini etici), la piccola star è immersa in un contesto fantasmatico e decadente. Ambientato in soli quattro spazi (l’aula, il giardino della scuola e le due case), questo dramma verbosamente confuso sull’incertezza delle regole dell’attrazione riesce a fallire ogni singola occasione di interesse narrativo e di sottigliezza psicologica. Attraversato da una percepibile misoginia, chiude con un finale ancora più irrisolto e ambiguo. Razzie Award in arrivo, anche per il povero Martin Freeman, incolpevole ma disastroso.
MADE IN ENGLAND: THE FILMS OF POWELL AND PRESSBURGER
A scuola di cinefilia. Il doc di David Hinton (ora su MUBI) è cinefilo due volte. La prima perché è proprio quel tipo di amore per il cinema che ci ha fatto amare Powell e Pressburger (provate a guardare senza cinefilia Scala al Paradiso o I racconti di Hoffmann e perderete tutto); la seconda è lo sguardo del narratore Martin Scorsese. Scorsese, come già dimostrato tante volte, possiede una vocazione unica per le analisi critiche dei film che ama, riempite di così tanto affetto e tale ricchezza interpretativa da diventare irresistibili. Se si aggiunge che è stato proprio il cineasta americano a “salvare” Powell dall’oblio e a dargli una nuova vita artistica, la commozione tracima (per una volta, un sentimentalismo ben riposto). La qualità degli estratti è sublime, e anche questo va apprezzato per uno dei migliori documentari sul cinema di sempre.
BABY RUBY
Inedito distribuito da Netflix, Baby Ruby è opera di una stimata drammaturga teatrale, Bess Wohl. Purtroppo è il classico caso di buone intenzioni sostenute da un impianto simbolico greve e pedante. La storia di una giovane donna, appena diventata mamma, alle prese con una depressione post-partum non diagnosticata, viene messa in scena come un delirio paranoico dai tratti orrorifici. Ciò permette a Noemie Mérlant un generoso tour de force attoriale ma perde il confronto con tutte le messe in scena traumatiche di questi anni. A proposito di maternità problematiche o negate, basta infatti citare Hungry Hearts di Saverio Costanzo, Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, Titane di Julia Ducornau, La figlia perduta di Maggie Gyllenhaal o la serie Servant per avere un ricco ventaglio di approcci al tema non banali e ricchi di metafore meno consumate.