Cercherò prossimamente di recuperare alcune cose scritte per pubblicazioni difficilmente recuperabili,. Comincio con questo scritto su John Sayles, tratto dal volume di R. Pisoni, G. Spagnoletti, a cura di, John Sayles e il cinema indipendente Usa, Lindau, Torino, 2003, pp. 135-138.
Il rapporto di John Sayles con il fantastico risulta incomprensibile se non lo si proietta sullo sfondo del lavoro che questo regista ha impostato sui generi cinematografici. Per solito, il concetto di “indipendenza” nel cinema americano si è declinato nella vicinanza al cinema d’autore europeo, e se ha avvicinato i generi cinematografici hollywoodiani lo ha fatto con l’intento di interpretarli criticamente, quando non di praticarvi operazioni intellettuali (buone o meno buone che fossero). Del tutto differente la storia di John Sayles, che – grazie al praticantato cormaniano – ha avvicinato i generi con naturalezza e disinvoltura, diventando l’aggiustatore di tante sceneggiature hollywoodiane (spesso “uncredited”) e al contempo il più profondo sovvertitore del concetto di genere che il cinema di spirito indipendente abbia avuto in America negli ultimi venti anni.
Basta analizzare un film come Stella solitaria per rendersi conto che a Sayles interessano le “radici” che danno vita ai generi. In quest’opera, il western è applicato in senso “letterale”, ovvero una situazione di frontiera che prevede la presenza di sceriffi e malviventi, e che riguarda come tema indiretto il grande scontro tra giustizia e legalità e il rapporto che intercorre tra i personaggi e le loro scelte morali. Ebbene, Lone Star si trasforma lentamente in un wetsern antropologico grazie all’intervento del melodramma (come l’agnizione finale dimostra chiaramente) e svela un autore capace di utilizzare i contenitori di genere con sagacia pari ai più vivaci esponenti del postmoderno, ma di giungere a risultati diametralmente opposti: al posto del rapporto ludico con i generi e la loro infinita ibridazione, troviamo invece uno scandaglio abissale nei confronti del sostrato socio-storico che ha reso e rende ancora oggi attuale un “linguaggio” western.
Per intenderci, se volessimo attribuire al cineasta una scelta “teorica” sul concetto di genere (ovvero: genere come occasionale momento di incontro tra industria e spettatori o genere come forma di rielaborazione profonda delle strutture mitiche e delle costanti culturali di una civiltà), certamente dovremmo pensare alla seconda linea. Sayles, infatti, sembra utilizzare il genere cinematografico per ritrovare i motivi che lo hanno fondato, per continuare (e non ribaltare) il percorso di immersione nella memoria, nella storia, nei legami che stringono i personaggi al loro ambiente sociale. In questo senso, la continuità tra i film di genere di Sayles – Fratello di un altro pianeta come fantascienza, Otto uomini fuori come dramma biografico, City of Hope come gangster/noir, Il segreto dell’isola di Roan come fantastico/fiabesco, Passion Fish come melodramma, Lone Star come western – e le sue pellicole d’autore (detto che elementi di soggettività melodrammatica esistono praticamente in tutti i suoi film), è fuor di dubbio. Si dà il caso anche di film – come Limbo – così apparentemente scissi da mostrare l’intima vicinanza tra esperienza di genere e discorso d’autore, e al contempo la non indifferenza dei due termini.
Cioè a dire che Sayles non può essere liquidato in virtù del superamento della polarizzazione genere/autore, ma che anzi l’utilizzo in senso antropologico del concetto di genere porta a Sayles ad arricchire il proprio percorso autoriale. A dimostrazione di questo concetto, vale la pena concentrarsi su un genere particolare, che definiamo per comodità fantastico, senza pensare per il momento alle sue articolazioni interne. Si tratta di un macro-genere particolarmente caro al regista americano, se è vero che in ambito cormaniano la maggior parte della palestra artistica è stata spesa su pellicole fanta/horror e che l’expertise richiesta al cineasta da parte degli studios è spesso quella dell’esperto di soprannaturale. Si parla, appunto, di tanti interventi sotterranei, che però lasciano la zampata culturale dell’autore (un esempio: il lavoro non accreditato sulla sceneggiatura di Mimic, di cui avrebbe enfatizzato l’aspetto etnografico).
Il lavoro di sceneggiatore di John Sayles è notoriamente ricco di spunti orrorifici e soprannaturali. A cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quasi a confermare una sia pur poliedrica vena da politique des auteurs, Sayles scrive soggetti e copioni di ambito catastrofico. Come a precorrere la riconoscibile dimensione di grande narratore della natura, le sue prime scritture vertono tutte quante sulla ribellione del globo e dei suoi esseri alla hybris umana. Ecco, dunque, che Piranha (J. Dante, 1978), Alligator (L. Teague, 1980), L’ululato (J. Dante, 1981), e lo stesso Mimic sono sospesi tra la dimensione più consueta del catastrofico e la rilettura dei mostri mitici e letterari. Lavorando a fianco con Dante, Sayles sembra per di più cominciare a lavorare sull’idea di trasformazione e metamorfosi che non di rado si presenta nei suoi film fantastici (basti pensare alla bellissima storia della donna-foca contenuta in Il segreto dell’isola di Roan). Il lavoro sul genere, in questo periodo, è del resto la risultante di due fattori: la “resistenza” del modello exploitation di cui parla Leonardo Gandini in questo stesso libro e la rinascita di un cinema fantastico cui si delega il rinnovamento degli autori (Spielberg, Lucas, Dante, Cameron e gli altri registi specializzati nei nuovi, originali “kolossal di serie B”).
Questa convivenza tra l’aspetto più ruspante del genere horror/catastrofico e dell’incipiente carriera di autore – Sayles, non dimentichiamolo, gira Return of the Seacucus 7 già nel 1980 -, appare da subito come una delle caratteristiche più sorprendenti nel regista di Schenectady. Pochi anni dopo, però, Sayles offre con Fratello da un altro pianeta un esempio perfetto e cristallino di saldatura tra i due mondi. Sappiamo bene come la fantascienza d’autore abbia spesso prodotto risultati interessanti – non serve ricordare i capolavori di Tarkovskij, Godard, Truffaut, Ferreri, Resnais, etc. – salvo che in questo caso la cifra scelta da Sayles è quella di una naïvité simmetricamente opposta alla lettura filosofica data dai registi appena elencati. Ovvero, Fratello da un altro pianeta – come scrive Davide Ferrario[i] – sembra proprio che il film “usi il genere come lo usavano i grandi dell’età dell’oro hollywoodiana: come la più semplice ed efficace metafora del presente; in questo modo, insieme al divertimento insito nella natura stessa di questo gioco, Sayles è in grado di offrire al proprio pubblico un giudizio morale sull’epoca in cui viviamo”.
Al tempo stesso, però, Sayles mostra come alla base dei generi (in qualche modo scavando “dentro” l’età dell’oro hollywoodiano) si nascondano niente meno che le relazioni sociali, la rappresentazione dell’umanità, la presenza di un discorso politico – e tutti questi termini vanno considerati seriamente in funzione etimologica. Un autore così attento all’idea di comunità e di politeia (ciò che in fondo caratterizza in definitiva il suo cinema) ha bisogno dei generi come “guide” dentro le quali migra e si muove il suo discorso culturale. Per ciò che concerne la fantascienza, probabilmente, il gioco è più facile, trattandosi di un genere nato – almeno secondo le caratteristiche che oggi riconosciamo – negli anni Cinquanta e strettamente connesso, specie per quel che concerne la tematica aliena , con il mondo delle relazioni comunitarie e con l’immaginario della cultura americana. Per questo motivo, il gioco fin troppo scoperto – ricordiamo, en passant, che il film racconta di un ospite extraterrestre che assume le sembianze di un nero e patisce forme di razzismo insieme alla comunità di Harlem che lo accoglie -, si colora di ben altri valori che non siano quelli dell’apologo: altrimenti Fratello da un altro pianeta non sarebbe diverso da una pellicola come Omicron di Gregoretti, in cui l’alieno Renato Salvatori finisce col capeggiare uno sciopero di operai. Qui, invece, la parabola sociale si fonda con la radicalità non esibita di un genere che si fa esso stesso motivo di condivisione sociale,
[i] Cineforum, n. 256, agosto 1986, p. 87.