Visioni Riflessioni Passioni

IL GIRARROSTO DEI FILM DI FINE 2022

Con la consueta brevità, ma con un orizzonte amplissimo (che copre quasi tutto dicembre), andiamo a recensire a zigzag moltissimi titoli di fine anno – ricordando che per i titoli più celebrati (come i film di Cameron e Spielberg) trovate approfondimenti specifici in video e in audio su questo stesso sito.

BARDO

Maltrattato e quasi appestato al grido di “basta con i deliri d’autore permessi da Netflix”, Alejandro González Iñárritu – il grande “irritante” della cinefilia – esplode un colpo magniloquente, autoreferenziale e indulgente. Ma lo fa con talento, riflettendosi come Storia del Messico ambulante (non è mai stato molto umile), intrecciando visioni su visioni – e molte sono azzeccate – con particolare predilezione per la “disproporzione” dei corpi e delle epifanie. Siamo sicuri che questo limbo sia tanto peggio di quello di Sokurov?

FAIRYTALE

Tanto di cappello a questo dialogo tra anime in pena dei dittatori del Novecento (ma c’è anche Churchill, che forse dovrebbe svettare di più rispetto alle altre cariatidi assassine), gestito come una specie di sublimazione di Gustave Doré e dei fotomontaggi di Striscia la notizia (absit iniuria, del resto è Sokurov che ci fa vedere Hitler al cesso e Stalin che piscia all’orinatoio). Scherzo intellettuale riuscito, al limite della beffa; ma i capolavori del suo cinema passato sono sideralmente lontani, e sarebbe un peccato paragonarlo a quelli.

EMANCIPATION

Strano racconto post-Ferrovia sotterranea (romanzo che ha cambiato parecchie cose dentro la letteratura nera), dove l’azione di Antone Fuqua si mescola a una ricerca estetica in stile Barry Jenkins e con la rappresentazione ferina della violenza cui siamo abituati ai tempi di BLM. Will Smith che parla in creolo sfiora la parodia, ma il bianco e nero con fiammate coloristiche di Robert Richardson merita quasi un film a parte. I titoli di Apple TV+ continuano a circolare poco e a non creare dibattito.

SAINT OMER

Via imprevedibile al cinema processuale. L’imputata è al tempo stesso vittima e carnefice di un delitto indicibile, che diventa dicibile grazie al linguaggio e alla liturgia della giustizia (e della macchina da presa). Chi ascolta indaga, prima su di lei e poi su se stessa. E alla fine il respiro che esce dal confronto tra le due donne è eminentemente tragico. Per una volta la citazione della Medea pasoliniana – che compare a un certo punto – è collocata con tutto il suo senso.

LE PUPILLE

E il Pasolini (quello degli episodi in particolare) è presente anche nel delicato e riuscito mediometraggio di Alice Rohrwacher. Si rischia lo snobismo a dire che la regista sembra in stato di grazia soprattutto con i formati corti? Certamente colpisce trovare il marchio Disney+ su questo lavoro a metà tra modernismo, sacralità laica e arte povera. Le orfanelle in triste festa raccontano un cinema che merita di esistere e che somiglia a pochi altri.

LE OTTO MONTAGNE

Difficile collocare questa trasposizione di straordinaria omologia: i pregi e i difetti del romanzo di Paolo Cognetti sono i medesimi del film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Curiosamente, proprio lo sguardo sulla montagna oscilla tra potente autenticità e suggestioni da discount (le canzoni “indie” sullo sfondo). Salvano il tutto Borghi e Marinelli con un’amicizia maschile e mascolina che commuove, senza ambiguità né tossicità.

EO

Ci si sente un po’ isolati a non amare affatto il percorso dell’asinello di Skolimowski. Dopo Gunda e Cow, però, la riflessione sullo sguardo animale subisce qui un arretramento netto, con oggettive e soggettive (per di più con animali che cambiano visibilmente di scena in scena) nelle quali la lezione bressoniana è dispersa senza essere sostituita. E lo sfondo dell’Europa nazionalista, smembrata, sembra più una suggestione (caoticamente scritta) che un discorso importante.

ERNEST E CELESTINE – L’AVVENTURA DELLE 7 NOTE

Non c’è più Pennac in scrittura, ma il mondo creato da Gabriel Vincent – seconda trasposizione in dieci anni – non perde in sensibilità e levità. L’orso e la topina sono alle prese con un villaggio (una heimat) piombato nell’oscurantismo e nel divieto di fare musica. Conflitti famigliari, sociali e politici fanno capolino senza troppi eufemismi, risolti con coraggio, determinazione, delicatezza. Lo sguardo sul popolo non è buonista, e allarga comunque il cuore.

STRANGE WORLD

Ormai impossibile analizzare l’animazione Disney (non Pixar, s’intende) con la lente della continuità. Dal primo grande successo dell’era streaming (Encanto) a questo flop privo di senso e di senno. Non che di per sé sia mal diretto, mal scritto, mal animato: è proprio che si sentono le unghie sugli specchi, per non parlare di una cultura inclusiva gestita in modo così maldestro da risultare omofoba. Urge fare un sospiro e decidere a che pubblico si parla (sala o salotto)?

IL GATTO CON GLI STIVALI 2

Ben pochi sentivano il bisogno del ritorno di Gatto undici anni dopo. Nel finale si capisce che probabilmente è solo la scusa per rilanciare lo Shrek Universe prendendola larga. Eppure alla fine gli stivali cadono in piedi: se l’animazione zoppica, la riuscitissima storia (molto chiaroscurale, con il tema della paura di morire ben al centro) ci ricorda come la Dreamworks sia maestra di racconti filosofici arrischiati (leggersi l’analisi di Kung Fu Panda fatta da Zizek).

IL GRANDE GIORNO

Aldo, Giovanni e Giacomo hanno un pubblico e una critica così indulgenti che vengono analizzati come Ionesco. Da un po’ effettivamente sembrano usciti dalla crisi, e stavolta – grazie a una sceneggiatura affilata, amara, tragicomica – indovinano approccio ed equilibri (anche rispetto agli altri personaggi). Peccato per una regia che non sta al passo del testo, come spesso è accaduto a Venier. Ma, se lo spettatore non rovina il matrimonio guardando alla bomboniera sbeccata, funziona.

NATALE A TUTTI I COSTI

Un gradino sotto, pur senza infamia, c’è lo sbarco di Christian De Sica su Netflix. Nessun cinepanettone: si tratta dell’ennesimo remake italiano di commedia europea (francese), con buon spirito di adattamento. Anche qui (per fortuna) non mancano commenti acidi e rappresentazioni veritiere del cinismo filiale e delle famigliole di provincia. Tutto peraltro molto semplice, domestico, risolto in 80 minuti o poco più. Al cinema avrebbe probabilmente fatto il suo.

GLASS ONION

Come il primo, ma peggio: tutta l’inutile arguzia dell’operazione di Rian Johnson si riconosce per metonimia in Daniel Craig. Un attore che cerca di essere lepido, spiritoso, dotato di una cialtronaggine geniale, un autismo creativo, una mente sopraffina dentro un tipo maldestro. Recitazione auto-indulgente, primi piani di smorfie, personaggio opaco. Il resto è un costoso divertissement dove il lettore di gialli farà al massimo una scoperta, restando due ore e mezza ad aspettarne altre che non arrivano.

WHITNEY

Forse il peggior film del 2022 (se la memoria non ha operato provvidenziali censure). Immaginate tutto quello che detestate dei biopic quando non funzionano, moltiplicate per dieci, aggiungete il cast meno riuscito del secolo, condite con una sceneggiatura cui mancano otto o nove stesure, ed ecco Whitney. L’idea che una vita così talentuosa e controversa diventi una serie di highlights stile DAZN, con annessa geremiade contro i vizi, fa arrabbiare. Molto.

SPIRITED

A sentir ancora parlare di Scrooge si mette mano alla pistola. E non è che Spirited (filmone di Natale di Apple TV+) riesca a vincere gli sbadigli preventivi. Ma è anche un musical scritto da due tipi di nome Pasek & Paul, strapremiati a Broadway, compositori per Hollywood e parolieri delle canzoni di La La Land. E infatti questo lato del fim denota cura e qualità, con il rispetto che si deve al concetto più professionale di intrattenimento. Prima di tornare al torpore.

PERFETTA ILLUSIONE

Corsicato torna al cinema: già di per sé una buona notizia. Se poi il regista napoletano si sente libero di volteggiare nel noir, nell’erotico, nel dramma, fottendosene di generi e forme della produzione italiana contemporanea, è ancora meglio. Certo non tutto fila liscio, e la storia cade e si rialza varie volte, con forte richiesta di sospensione dell’incredulità. Eppure si respira una gran voglia di cinema, e la cornice (teorica) dell’uccellino illuso è un colpo di genio.

CHIARA

Apparso come un miracoletto votivo per poco in sala, il terzo ritratto storico femminile di Susanna Nicchiarelli è quanto di più rosselliniano si possa immaginare. Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano (occhio a questi due attori di grande ricettività e tenerezza) offrono a Santa Chiara e San Francesco una dimensione di trasparenza flagrante. Il femminismo di Chiara è una fonte pura, semplice, non un comizio. La chiave pop serve a poco, ma non stona. Altro cinema-UFO, in Italia.

FILUMENA MARTURANO

Continuano le nuove versioni RAI (ora Raiplay) delle opere di De Filippo affidate a registi di oggi. Filumena è un testo più “largo” e meno composito di Cupiello e degli altri mirabilmente reinvetati da Edoardo de Angelis (televisione sperimentale travestita da teatro pubblico). Quindi Francesco Amato ha gioco più semplice, anche se poi si fa presto a rovinare tutto. E Amato non rovina nulla, aiutato da due fuoriclasse come Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo.

IL CORSETTO DELL’IMPERATRICE

I tempi sono cambiati, e la Sissi di Romy Schneider non può più esistere se non nei salotti dei nostri nonni. La Sissi di Vicky Krieps è inquieta, manipolatrice, sensuale, ingorda, annoiata, sociopatica e vagamente odiosa. Nel solco di Maria Antonietta, anche lei scombina i piani del cinema in costume, pur compiendo lo sberleffo con snervante insistenza. La protagonista, eccezionale, merita un presente radioso. Il film un po’ meno.

VIZIO DI FAMIGLIA

Se non c’è più Chabrol, bisognerà pure tenere accesso il caminetto del chabrolismo. Ci pensa Sebastien Marnier a imbastire una storia dove si gioca con le nostre attese “solari” nei confronti di Laure Calamy, poi si finisce in un tritacarne altoborghese, poi si scoprono altarini proletari, e alla fine si fa un falò di tutto e di tutti. Peccato per alcune svolte claudicanti e una costruzione drammaturgica non sopraffina, che non precludono però di assaporare un po’ di buon fiele.

NANNY

Noi accademici dovremmo amare gli horror accademici. Questo poi è scritto e diretto da un’antropologa, Nikyatu Jusu, di cui pensiamo il meglio possibile. Ma ci sarà poi molto da inventare su una “servant” senegalese a servizio presso una ricca famiglia WASP? Ovviamente, visto che si fa sul serio, si evitano jump e viscere, col rischio che rimangano solo pericoli ancestrali e sogni irrazionali. Il Peele-ismo, come fu per il Tarantinismo, è un’altra forma di exploitation, sia pure piena di messaggi condivisibili.