Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
IL ROBOT SELVAGGIO
Segni di vita dall’animazione. Come per Il mio amico Robot, anche stavolta un’intelligenza artificiale antropomorfa – nata per uno scopo di servizio – interagisce col mondo in maniera malinconica. La natura viene per una svolta offerta nella sua crudezza, anche se i correttivi della seconda parte del film sembrano un po’ negare l’apprezzabile approccio etologico della prima. Comunque sia l’inno alla famiglia allargata (e non decisa dai legami di sangue) funziona bene e si rivela progressista senza il ditino alzato. Curiosa la scelta grafica di un tratto digitale quasi privo di un paio di passaggi di rendering. Come per i Spider-Man animati, siamo entrati nell’era per cui il fotorealismo non è più il fine ultimo? Meglio tardi che mai.
IDDU
Variamente sottovalutato (non dal pubblico, che gli ha tributato un ottimo riscontro), è invece una degna conclusione della trilogia sulla Mafia di Grassadonia e Piazza. Il tono, da fiabesco e dark, si fa grottesco, pur senza scimmiottare Elio Petri o una certa tradizione della commedia all’italiana più nera. Tutto si gioca sul non-incontro tra Servillo e Germano che – metacinematograficamente – si mandano pizzini che sembrano dialoghi a distanza di una sceneggiatura criminale. E anche la recitazione survoltata delle forze dell’ordine, in un gioco tra gatto e topo dove perdono tutti, finisce col contribuire alla sensazione di una processione ironica sul cadavere umiliato (dalla realtà) del cinema di denuncia civile.
THE APPRENTICE
In questo caso il rifiuto del pubblico è stato pregiudiziale. Al contrario delle attese, nessuno voleva veramente conoscere i dolori e le passioni del giovane Trump. Che Abbasi mette in scena come un uomo senza qualità, un mancato Kane la cui slitta rimane ben nascosta in un armadio di ricordi inutilizzati, dove le citazioni dal Macbeth o le influenze di Tom Wolfe non assumono mai un aspetto di “tragica grandezza”. Ovviamente, sullo sfondo si gioca anche una riflessione sull’America e su New York. Sacrosanto aver evitato l’aria scandalizzata del tipo “ma come è potuto succedere?”, preferendo l’atteggiamento del tipo “proviamo a capire com’è successo”.
SMILE 2
Cominciamo dalle basi. Parker Finn è un signor regista, e la prima mezzora (oltre al piano sequenza iniziale) è un saggetto di messinscena da proiettare al CSC. Così come Naomi Scott è una scelta controcorrente e umbratile per un manistream horror. Poi ovviamente l’idea è sempre la stessa, ma gestita con una carica di negatività così rovinosa da farci pensare a un trauma study sulla società contemporanea. La celebrità continua ad essere luogo di elaborazione simbolica dei nostri tempi e il fandom un protagonista delle narrazioni. Andrebbero visti in fila Vox Lux di Brady Corbet, Trap di M. Night Shyamalan e questo per costruire un bel triangolo cinefilo. Non tutto funziona fino alla fine ma Smile 2 va quanto meno rispettato (ottima la sequenza del “balletto mostruoso”, con un occhio a Gaspar Noé).
WOMAN OF THE HOUR
Raro caso di titolo inedito intrigante da piattaforma. L’esordio alla regia di Anna Kendrick (anche co-protagonista) recupera dalla cronaca un serial killer meno noto per costruirci intorno una storia legata al punto di vista femminile e alla dimensione predatoria di un ragazzo affascinante, inquietante, alfine mostruoso. La narrazione tesse temporalità complicate e chiede allo spettatore di seguire il filo rosso della violenza, intrecciandola con il ritratto di una donna molto sola e molto consapevole della propria intelligenza, oltre che con un pezzetto di storia della televisione americana. Tutte queste strade si sfiorano solamente, ma una strana forma di suspense e di acume umanistico hanno intanto detto quanto c’era da dire.
NOBODY WANTS THIS
Bisogna ammettere che le varie forme della comedy sembrano al momento le più pimpanti del panorama seriale, anche se non si può avere tutte le settimane Hacks servito sul piatto di portata. In questo caso il tema originale (una single quarantenne in odor di Carrie Bradshaw si innamora di un rabbino sexy) è stato ben concepito, e di conseguenza trattato con il giusto equilibrio di satira sociale e rispetto religioso. Diciamo che ci si sarebbe potuti spingere ben più in là con un po’ di coraggio, oltre al fatto che la chimica tra i due è molto più enunciata che percepita. Si sorride con garbo, sperando in punte più acuminate nella seconda stagione.
MONSTERS: LA STORIA DI LYLE ED ERIK MENENDEZ
Ryan Murphy sembra aver trovato nuova linfa (e soprattutto la “quadra” con Netflix) grazie all’antologica Monster, che peraltro somiglia molto come approccio ad American Crime Story. L’indagine antropologica è sempre americanologica (e viceversa), e Murphy rimane l’unico a declinare la finzione true crime in modo così controverso. Sbattendo lo spettatore da un punto di vista all’altro e offrendo alcuni episodi epocali (vedi quello di un unico piano sequenza nella deposizione sugli abusi sessuali: da brividi), è in grado di rovesciare continuamente il punto di vista morale. Di fondo, poi, l’analisi delle zone oscure dell’omoerotismo si conferma coraggiosissima, così come la sepoltura sarcastica dell’american dream dei migranti che ce l’hanno fatta. La televisione di Murphy (ovviamente insieme ai suoi team) appare il contrario esatto di quel che pensano di lui i detrattori – che però spesso guardano giusto un paio di episodi.
INGANNO
Che bello vedere Pappi Corsicato in testa alle classifiche mondiali di Netflix. Rispetto al piccolo, quasi segreto Perfetta illusione (con cui tornava al “suo” cinema dopo dieci anni), Inganno è quasi uno scherzo en travesti. Sarebbe troppo facile parlarne come di un mélo-noir nel segno di Sirk (che pure è citato nel primo episodio), nel quale lo stereotipo verrebbe decostruito come fanno i suoi miti Almodóvar e Fassbinder. La faccenda è diversa: Corsicato va fino in fondo al kitsch, e confeziona l’erotico patinato turistico che gli si richiede, pari pari. Ma al tempo stesso lo fa meglio di chiunque altro, sfruttando la sfacciataggine nuda di Monica Guerritore, le suggestioni omofile, e omaggiando in fondo anche gli accademismi di Lavia e gli anni Ottanta di Lamberto Bava, shakerato infine con la soap e l’estetica Canale 5. Applausi divertiti.