Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
FINALEMENT
Dev’essere proprio vero che a una certa età gli autori si scrollano di dosso tutti ricatti del presente e acquistano una libertà e una leggerezza indicibili. Lelouch firma in questo modo uno dei suoi migliori film di sempre, interrogando sia la vita (con una certa qual stucchevolezza che gli è propria, ora però adorabile) sia il cinema. Ed è qui che si gode di più: la fantasticheria del protagonista in verità è una specie di coraggiosissimo cinema della demenza senile, nel quale la struttura va a ramengo e situazioni, ricordi, racconti dentro racconti, episodi, aneddoti, viaggi e dialoghi si srotolano senza gerarchie – a volte sembra quasi un Dupieux se Dupieux avesse 87 anni e lasciasse spazio alla malinconia. Sorprendente.
IL TEMPO CHE VI VUOLE + MAKING OF
Mettiamo insieme due film che apparentemente c’entrano poco (il bello di questo sito è che si fa un po’ quel cavolo che ci pare) ma parlano entrambi a modo loro del mito del cinema. E falliscono esattamente per questo motivo. Francesca Comencini è sincera, e dispiace che si sia persa nel labirinto del suo omaggio al padre: non sono tanto le epifanie, le fellinate, lo stile da docu-fitcion a non funzionare ma proprio la restituzione del cinema comenciniano (cui mal si attaglia il “magico” del set) e della propria vocazione, sbiadita in un personaggio femminile che – per quanto autobiografico – non ha un’identità e non si sa perché decida di fare film. Cédric Kahn, invece, mette umanità e ironia nel suo “film de tournage”, decide di mescolare rivendicazioni narrative e sindacalismi da set (con intuizione non banale) ma lascia con un pugno di mosche in mano quando opta per la solita galleria dei tic interni all’industria francese: produttori in fuga, soldi che mancano, registi macchietta, cammei illustri, attori tronfi, ecc ecc, come in una puntata qualsiasi di Dieci per cento.
LA MISURA DEL DUBBIO
Ecco un buon terreno di discussione per le metodologie critiche. Il film scritto, diretto e interpretato d Daniel Auteuil (in vena di one-man-show) offre una divaricazione vistosissima tra forza concettuale della storia e imperizia di messa in scena. In vari titoli recenti (Anatomia di una caduta è solo la punta dell’iceberg) la giustizia e i tribunali sembrano tornati ad essere un importante luogo simbolico per l’elaborazione dei nostri dubbi sul mondo che ci circonda. Ed effettivamente l’ossessione poco professionale del vecchio avvocato per un caso che fatica ad analizzare lucidamente diventa il perno di un discorso denso e ammirevole. Ma il caos sceneggiatoriale, le metafore visive puerili, le soluzioni registiche da primo anno di scuola del cinema, il pessimo uso dello spazio scenico sono una tortura per l’appassionato. Che cosa scegliere? Quale aspetto privilegiare? Eccola, la misura del dubbio critico.
WOLFS
Oltre a una scelta commerciale, la non distribuzione del film di Jon Watts nelle sale ma solo su piattaforma (in controtendenza rispetto alle ultime scelte dei colossi streaming) rischia di diventare simbolica. In effetti, se Clooney e Pitt, prima ancora che asset dell’OTT, vengono considerati ormai inadatti alle folle da grande schermo, cambia la prospettiva. Wolfs è pensato pigramente come puro veicolo per insistenti scambi di battute e occhiatacce tra i due divi. Nemmeno per un momento qualcuno sul set dà l’impressione di credere a qualcosa di più di un divertissement usa e getta. Il che andrebbe benissimo in due casi: A) se fosse divertente e B) se fosse stato creato uno “spazio estetico” per il divismo dei due. Nel primo caso lasciamo (penosamente) giudicare; nel secondo il lavoro è rimasto sulla carta. Un paio di gag sul mal di schiena non costituiscono né un discorso sul celebrity ageing né una decostruzione crepuscolare.
HIS THREE DAUGHTERS
Inizia benissimo. Un monologo (in verità si scopre che è un dialogo) della strepitosa Carrie Coon, con la sorella fuori campo, annichilita, ad ascoltare l’attacco di ansia e finta razionalità della parente. Poi la drammaturgia si normalizza, e si fa strada un teatro da camera borghese nel quale tira aria di quando Allen rifaceva Bergman (o di quando Baumbach rifà Allen che rifà Bergman), quindi troppo diluito per creare vero dolore. Le tre sorelle sono personaggi riusciti, va detto, ma manca un’idea di cinema che non sia il “prestige” psicologico da fiore all’occhiello della piattaforma. La claustrofobia dell’appartamento e della panchina esterna finisce col tagliare fuori, insieme al quotidiano, anche la società.