Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
13 VITE
Miglior film in circolazione al momento su piattaforma, la storia re-enacted del vero recupero dei ragazzini thailandesi nella grotta è pane per i denti di Ron Howard. Un autore che si conferma umile e straordinario per come si nasconde dentro al progetto, per come coltiva il suo tema dell’umanesimo senza mai fare nemmeno ciao ciao con la manina, e per come innalza il livello stilistico dello streaming cinema. Il meglio viene dalla costruzione delle scene subacquee, con un livello di claustrofobia e pressione tale da soffocare lo spettatore. La dimensione hawksiana dei due protagonisti – Viggo Mortensen, secco e laconico, e Colin Farrell, esperto ma sensibile – funziona per tutto il film, anche se in odor di superiorità professionale occidentale nei confronti dei pur volenterosi indigeni. Ma quel che veramente conta è il lavoro tecnico sulla cava, interamente ricostruita in Australia. Una specie di set fisico e mentale, suggestivo meta-set alla Cameron. Infine, occhio al montaggio narrativo: 13 vite è anche un manuale di ellissi.
MINIONS 2
Poteva anche intitolarsi Cattivissimo 4 – Il prequel visto che la firma degli esserini gialli sembra essere attribuita più che altro per equilibri interni alla saga. Dopo i Sixties del primo episodio, ecco i Seventies del secondo, riletti attraverso un ampio spettro citazionista, da Spielberg a Tarantino, con una infallibile colonna sonora per gli accompagnatori adulti. Il film in sé strappa la sufficienza con qualche sorriso e alcune idee frammentarie, ma al solito fallisce (paradossalmente, visto il franchise) con i cattivi, che sono poco carismatici e decisamente anodini. Ma il vero dibattito è sui Minions: supini esecutori di un’obbedienza canina (quindi inno alla subalternità) o anarchici portatori di caos in un mondo senza fantasia? La terza: sono cittadini un po’ infantili che però mostrano curiosità, coraggio e apertura di mondo, portati all’esperienza, al cambiamento e al rischio. L’impasto linguistico, qui esasperato, è a sua volta metafora del prodotto globale ed esportabile.
PREY
Quando Disney incontra Predator il risultato è questo. Aprite Disney+ e soffermatevi sulla locandina del film presente nell’interfaccia. Il modello è evidente: siamo tra Pocahontas e le principesse, mescolate a un survival. Ovviamente non si arriva al punto da farne un film per famiglie, ma il racconto di formazione della protagonista indigena sfiora la parabola disneyana più e più volte, compresa la grana fotografica, cromatica, e i personaggi secondari (il fratello e la mamma). Detto questo, Dan Trachtenberg fa il suo lavoro, la storia è ben congegnata (a cominciare dall’idea stessa del prequel), e anzi Prey dal punto di vista narrativo e tecnico è più compatto e riuscito di quanto si potesse prevedere. Dobbiamo solo chiederci se la deriva streaming dei franchise Fox (viste anche le prime, preoccupanti immagini di Avatar 2) in direzione casa di Topolino “azzurrognola” non sia un problema incipiente.
MEMORIA
Distribuito da MUBI dopo una breve comparsa in sala, Memoria di Apichatpong Weerasethakul è finalmente disponibile per chi vuole vederlo. Esperienza ovviamente ostica, per chi conosce il cineasta, che stavolta – almeno nella prima parte – sembra seguire le regole del cinema arty internazionale, e in particolare l’ultimo Tsai Ming-liang. La trasferta colombiana non muta di troppo lo scenario forestale e piovoso della Thailandia, ma il racconto character-driven della protagonista (Tilda Swinton, che ha il suo peso come protagonista, portandosi dietro la sua carriera) è decisamente più canonico del solito. Nella seconda parte, però, si sviluppa la vera lezione filosofica del cineasta, con la lenta riappropriazione dei sensi e l’insegnamento (anche spettatoriale) alla conoscenza del mondo nella sua totalità. Il fantastico e la fantascienza ci mettono lo zampino, dando senso al viaggio erratico della prima ora. Non il suo capolavoro, ma un film luminoso e importante.
THE GRAY MAN
Vari indizi fanno una prova. E trovo più plausibile che Netflix faccia appositamente film di questo tipo piuttosto che li sbagli tutti per caso: ovviamente per “sbaglio” parlo di fallimento estetico decretato dalla critica, mentre il pubblico sembra apprezzare. Ed è qui che casca l’asino. Il mandato di Neflix sui film ad alto budget è ormai evidente: congegni narrativamente elementari, con la presenza di una star cinematografica, ambientati (e girati) in diversi Paesi del mondo, pieni di sequenze funamboliche e distruttive, con ampio utilizzo di droni e movimenti di macchina acrobatici, aperti a sequel. The Gray Man con Ryan Gosling somiglia a Tyler Rake con Christ Hermsworth che somiglia a 6 Underground con Ryan Reynolds e così via. E non importa se ci sono i Fratelli Russo o Michael Bay in regia, perché la riconoscibilità del blockbuster globalizzato è evidente e spersonalizza le forme di regia e messinscena. Il livellamento e la semplificazione appaiono dunque come una scelta prioritaria per favorire il consumo di ogni tipo di spettatore di bocca buona esistente nel mondo degli abbonati, dall’Italia allo Yemen, dalla Polonia a Singapore. Sia detto senza razzismo ma con sincerità.