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ripensare “io, io, io…e gli altri” di alessandro blasetti

Quasi tutti gli storici riconoscono in questo decennio la centralità di un film come Io, io, io…e gli altri (1966), quasi un sole intorno al quale gravitano tutti gli altri piccoli satelliti, che si chiamino essi Liolà, La ragazza del bersagliere, o Simon Bolìvar (vanno esclusi Io amo, tu ami…, e “La lepre e la tartaruga”, episodio di Le quattro verità, analizzati altrove coerentemente con il progetto cinematografico, documentario o film a episodi, di cui fanno parte), tutte pellicole che ci sembra abbiano subito un trattamento in ogni caso troppo sbrigativo nel corso degli anni e che potrebbero per lo meno essere riprese in considerazione a seconda del rapporto che esse intrattengono con il cinema coevo, con i miti del film d’autore o con le contraddittorie evoluzioni della commedia all’italiana. In queste righe cercheremo dunque di procedere con una lettura, sia pure superficiale, delle molteplici influenze presenti nel cinema di Blasetti anni ’60, non dimenticando del resto l’operatività di una poetica drammaturgica e ideologica mai dispersa.

Non di meno, bisogna fare anche esercizio d’umiltà e acquisire l’autocandidatura di Io, io, io…e gli altri a film testamentario, a memoriale d’autore, a ultimo grande diario di una personalità poliedrica del nostro cinema. Accettiamolo, dunque, come centro gravitazionale, ma non dimentichiamo gli errori fatti già nella prima parte della sua carriera quando molti osservatori non comprendevano la febbrile “incoerenza” di un regista che passava dal cinema storico alla leggenda fantastica fino a giungere alla commedia paesana proto-neorealista. Sull’importanza di Io, io, io… per Blasetti non esistono dubbi, basta leggere alcune dichiarazioni del regista[i] quando afferma: “Questo sarà un film tutto composto di episodi anche brevissimi, l’uno di diverso ambiente dagli altri, purché tutti suggeriti e provocati da un tema unico; un film di annotazioni, osservazioni, riflessioni che si possano tradurre in episodi anche minuscoli”. E a certificazione dell’investimento affettivo alla base dell’opera: “Questo sarà l’ultimo film con il quale farò trepidare produzione e noleggio per la mania di cercare nuove strade o meglio nuovi sentieri alle possibilità espressive del cinema. Sarà l’ultima volta perché bisogna che io dia un’occhiata all’anagrafe, finisca con l’accorgermi degli anni che ho e del mio dovere, direi, di mettermi da parte”.

Già sperimentata la formula del film a episodi (Altri tempi, Tempi nostri in largo anticipo sul momento in cui tale struttura diventa un’abitudine della nostra industria cinematografica), superato il documentario-varietà comunque spezzettato in diversi “numeri” (Europa di notte e Io amo tu ami), sembra quasi che con Io, io, io…e gli altri Blasetti abbia voluto radicalizzare l’esperienza e costruire un film dove fosse davvero difficile individuare uno scheletro di fondo. Intuendo probabilmente la sclerotizzazione cui il cinema ad episodi andava incontro, Blasetti ha optato per un film-diario, un cinema-appunti (ma sia chiaro: di attentissima e sorvegliata composizione poetica) equidistante sia dalle rivoluzioni del linguaggio classico provenienti dalle nuove onde europee sia dalle forme di microcommedia che la seconda parte degli anni ’60 riservava numerose. Ispirato, ma solo vagamente, all’intenzione di denunciare l’egoismo umano, compreso autobiograficamente l’egoismo dell’autore, il film di Blasetti presenta una prima cornice narrativa ambientata in treno (Milano-Roma): il protagonista Sandro, giovane scrittore interpretato splendidamente da Walter Chiari, conversa con il capotreno (Nino Manfredi), un tipo ossessionato dal sesso, dopo aver fantasticato su un’inchiesta riguardante appunto il “vizio dell’io”. Da questo spunto nascono i pensieri di Sandro: si tratta il più delle volte di ricordi, ma anche di fantasticherie, di memorie che prendono una forma fittizia, e di riflessioni. Dopo alcuni avvenimenti (la morte dell’amico Peppino), Sandro è costretto a ritornare a Milano in aereo, e in seguito di nuovo a Roma in treno, dove ritrova il compagno di viaggio Manfredi ma soprattutto rivede (senza essere scorto) Silvia, grande amore abbandonato per fatuità ed egoismo.

Già Aldo Bernardini, in una recensione del 1966, ricordava la struttura felliniana del film. Audace, acefalo, il racconto blasettiano segue infatti il tenue filo dei pensieri anche se sembra in qualche modo rifiutare quell’idea di “orchestrazione” narrativa di La dolce vita, quasi essendone una versione più moralista e al contempo meno ossessionata dal capolavoro “da farsi”. È evidente la prossimità tra i due autori in certi passaggi: la diva interpretata da Silvana Mangano si chiama Silvia e riassume in sé tanto la società dello spettacolo romano quanto l’innocenza di un’occasione mancata e irrecuperabile; lo stesso Chiari (ingiustamente accusato di recitazione discontinua: ma forse oggi siamo più abituati al sottotesto malinconico della sua maschera comica, ciò che allora doveva apparire stridente), somiglia per certi versi a Guido o Marcello. Il gioco prende la forma della citazione quando il Peppino interpretato da Marcello Mastroianni finisce al cinema dove proiettano 8 ½. Il continuo ritorno di Silvia, e la sua immagine enigmatica (su uno sfondo di foto da copertina che la ritraggono come “congelata” da quello stesso attimo di realtà) denunciano semmai suggestioni antonioniane, anche se poi la presenza ossessiva dei paparazzi, le sequenze veneziane, il primo incontro al concorso di bellezza riportano nuovamente a Fellini; e non dimentichiamo che, comunque la si voglia vedere, il film è prodotto dalla Cineriz, il che corrobora l’ipotesi di una derivazione troppo diretta per essere solo un omaggio.

È qui, però, che va concentrata la nostra attenzione: non un plagio suggerito dalle nuove possibilità del cinema d’autore, bensì un coraggioso ibrido sceneggiato dai grandi della commedia all’italiana (compaiono infatti: Suso Cecchi d’Amico, Benvenuti/De Bernardi, Age/Scarpelli, etc.), interpretato da un attore comico in collaborazione con alcuni mostri di recitazione, tra cui certo Mastroianni, ma anche De Sica, e una folta schiera di “guest stars” tra cui la Lollo, Valeri/Caprioli, la Koscina, Pisu e Panelli, Urzì e Croccolo, Luttazzi e Randone, cast eterogeneo anche per un decennio abituato a mescolare. Forse il film di Blasetti rappresenta un esempio militante dell’inestricabilità di rapporti che intercorrono nel decennio sessantesco tra film d’autore e commedia, coinvolgendo persino la comicità di serie b (filone scapolistico e ombrellonistico, varietà televisivo, sottogenere stile-Franca Valeri, satira radiofonica) in un caleidoscopio infine riuscitissimo.

Si diceva della complessità narrativa del film. Pensato come un flusso di memorie, Io, io, io…e gli altri mantiene più che altro alcuni personaggi “ossessivi”, che percorrono la storia dall’inizio alla fine e fungono anche da cesure del racconto: il Precossi interpretato da De Sica (somigliante chissà perché a Mario Carotenuto) riassume tutti i vizi, più che dell’egoismo, dell’opportunismo sociale, della spregiudicatezza dopo-boom: accompagna i ciechi sulle strisce per poter attraversare più celermente, bacia la statua del santo solo dopo averla disinfettata, finge e mente di continuo; le scenette più repentine di Percossi appartengono alla tradizione dei Mostri (fors’anche esplicitamente citato) piuttosto che alla vera natura del film; negli altri casi, il racconto si distende attraverso veri e propri macroepisodi, come quello che chiude l’opera, tutto dedicato al rapporto tra Sandro e Silvia. Vi è qui la rinuncia completa alla sferzata e al graffio satirico, che sono poi le cose a maggior rischio di invecchiamento, e si fa strada l’attenzione delusa a un rapporto cominciato come tanti altri, divenuto molto importante e finito malissimo: un ritratto di donna non inferiore a quelli che autori come Pietrangeli stavano componendo negli stessi anni. Se Silvia riassume in sé il ruolo dell’amante ma anche della donna “da amare” (in questo senso divergendo da Fellini dove lo spettacolo e le sue dive sono il luogo della tentazione), la moglie (una sensualissima Lollo, cui Blasetti dedica alcuni piani davvero intensi) è paradossalmente il luogo del trionfo sensuale, il ricatto della carne, non certo la noia domestica. Il primo piano che chiude il film, su Chiari mesto e insoddisfatto, è il più amaro dei finali blasettiani almeno dai tempi di Quattro passi tra le nuvole.

Ci sono anche momenti un po’ paternalistici, come il ciclico ripresentarsi dell’immagine dei due malfermi vecchietti nel parco, o la laboriosa derisione dei dittatori, doppiati nelle loro occasioni pubbliche dalla tiritera del “gioco della cucuzza” e concluso da un fungo atomico di dubbio gusto.

Se, come alcuni accreditano, Io,io,io…e gli altri è una specie di personale redde rationem di Blasetti nei confronti del proprio travagliato passato, non è certo a questa rappresentazione diretta di Mussolini che dobbiamo far riferimento, quanto piuttosto al commento sulla società e al distacco da ogni autoindulgenza: l’egoismo è qui davvero un brutto vizio, in ciò Balsetti non cadendo mai nei pericoli della commedia sordiana o nella commedia assolutoria della seconda metà dei Sessanta. Riuscito, invece, perché macabro e spietato, il corpo centrale del film: la morte di Peppino, la vanità del “coccodrillo” giornalistico, la cerimonia funebre, l’incapacità di piangere da parte di Sandro che deve ricorrere alla fantasia di sé stesso nella bara per poter versare qualche lacrimuccia; e di seguito l’insorgenza scandalosa del desiderio sessuale, laddove la morte dovrebbe oscurare tutto il resto.

Le perplessità su Chiari appaiono, come sostenuto poco sopra, francamente eccessive. È possibile che l’abitudine a vedere l’attore veronese in un momento della carriera discendente e in commedie ad episodi abbia fatto la sua parte: nel 1965 Chiari era comparso infatti in Made in Italy (episodio “Ogni bel gioco” di Nanni Loy), in Thrilling (episodio “Sadik” di Polidoro) e nell’antologico Risate all’italiana. D’altra parte, sia La rimpatriata di Damiani (1963) che il Falstaff di Welles (1966, dove ricopriva il ruolo di Silence) dovevano già contribuire a rielaborarne problematicamente la figura dinoccolata e doppiesca degli anni ’50, dominati per lui da registi come Mattoli, Bianchi e Soldati. A noi oggi sembra che l’attore sia in perfetta sintonia col progetto blasettiano, figura a suo modo opaca di aspirazioni frustrate e soddisfazioni ottenute a costo di gravi sensi di colpa. In definitiva, che cosa è Io, io, io…e gli altri se non una nuova forma di commedia, una commedia sperimentale, che scorre a lato di produzioni ufficiali assai più facilmente catalogabili nei generi vigenti?


[i] Ora in Blasetti, A, Il cinema che ho vissuto ( a cura di Franco Prono), Dedalo, Bari 1982, p.242.