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Tag: Ethan Coen

MEMORIE PERDUTE E DISTOPIE DEL DESIDERIO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

DRIVE-AWAY DOLLS

Eccoli, i Garage Days Revisited di Ethan Coen. Inutile cercare la cattedrale dei fratelli qui dentro, o un’americanologia simile a quella cui siamo abituati. Coen single recupera uno script ideato insieme alla moglie (scrittrice e montatrice) Tricia Cooke, ambientata nel 1999, e si diverte a fare un film mezzo punk e mezzo indie che ha come unico interesse il piacere filmico di rinverdire una tradizione di orgogliosa serie B. Certo, la sgangherata jam session lesbica si diverte a retrodatare certe correnti culturali ma sempre col sorriso goliardico stampato in bocca. Si alternano schegge di Russ Meyer, visioni alla Kenneth Anger, liquami mentali da LSD, scorribande suburbane alla John Waters, un pizzico di Willy il Coyote, il noir e – ovviamente – stracci di Lebowski, Blood Simple e Arizona Junior. Tutto, però, sarebbe stato meno efficace senza una strepitosa Margaret Qualley, sempre più a suo agio negli Stati Uniti dai tratti isterici. 80 minuti, giustamente. Di pura rigenerazione dal basso.

MEMORY

Fa piacere il ritorno del melodramma sotto varie spoglie (vedi anche Estranei e – solo in parte – Past Lives). Michel Franco, non certo un regista timido (nel bene e nel male), si trova al suo primo vero film hollywoodiano con star (almeno Jessica Chastain) e intesse una struggente storia d’amore tra una donna abusata e un uomo in precoce stato di demenza progressiva. Mentre le tragedie si accumulano, le verità nascoste emergono, la salute peggiora, gli spettatori più scettici mollano il colpo e i cinefili “melomani” invece cominciano a godere. Lei migliore di lui (Peter Sarsgaard) che pure ha vinto a Venezia, esageratamente, la Coppa Volpi 2023.

AMERICAN FICTION

L’enorme successo di questa satira contro gli stereotipi neri portati avanti dalla stessa letteratura black – e amati principalmente da un pubblico bianco progressista accademico – sembra quasi mostrare l’esigenza di una risata liberatoria nell’epoca delle guerre culturali. Se non fosse arrivata dall’interno del mondo nero intellettuale, ovviamente sarebbe apparsa irricevibile. Detto ciò, il film è molto più complesso del previsto. Al di là dei dialoghi brillantissimi e di un cast in stato di grazia, le evoluzioni narrative non sono semplicistiche (il finale è amarissimo: la coppia non riconciliata, la scrittrice star snobbata dal protagonista sessista, il mondo del cinema in mano a registi bianchi). E tirare una satira per 100 minuti è affare complesso, perché deve trasformarsi in una commedia senza perdere il veleno. Il vero peccato è la pigrizia di regia: non era il tipo di film da virtuosismi estetici ma tutto è sacrificato alla scrittura e alla direzione degli attori.

CARACAS

I romanzi di Ermanno Rea sono esplorazioni antropologiche di Napoli. L’erranza e la dimensione memorial-saggistica sorreggono trame a volte molto esili. Vale anche per Napoli ferrovia, dove l’amicizia tra opposti (un vecchio intellettuale comunista e un uomo più giovane, fascista senza un vero perché) serve a imbastire un dialogo quasi mitico dentro il consueto contesto del nostos cui Mario Martone in Nostalgia (ancora da Rea) aveva offerto più degna trasposizione, consapevole che la chiave fosse nella rappresentazione della città sospesa tra radici ancestrali e immobiliarismo criminale. Se perdiamo tanto tempo a contestualizzare è perché di Caracas non c’è molto da dire; siamo molto dispiaciuti che un frutto autoriale di Napoli come Marco D’Amore non abbia trovato nessuno degli strumenti necessari per trasporre (e comprendere) Rea, finendo col concepire un film dagli effetti emotivi superficiali e senza un vero progetto di messa in scena.

ANCORA UN’ESTATE

Clamoroso ritorno di Catherine Breillat con una storia che inganna i pigri e acceca i meno attenti. Nella vicenda della passione sensuale che esplode tra una donna matura e il figliastro non contano (solo) le dinamiche sociali e le cornici narrative apparentemente anti-borghesi. Si tratta invece di un esperimento eccezionale di sguardo frontale e disvelante di personalità incapaci di definirsi se non attraverso l’altro. Tramite scene di sesso veritiere e inquietanti (come sempre in Breillat), seduzione e campi di forza, verità e menzogne, godimenti e pentimenti sembrano essere l’unica cosa per cui vale la pena vivere dentro una pulsione al vuoto, al niente, che soggiace all’esistenza contemporanea. E così tutto il cinema dell’amour fou francese, tendente all’omologazione e alla retorica, viene decisamente rinnovato, rigenerato e scosso come si fa con un ramo pieno di foglie secche. Il finale, come già notato da altri, è da antologia. Léa Drucker, insieme a Virginie Efira e Léa Seydoux, costituisce ormai un pantheon di corpi/star perturbanti del contemporaneo transalpino.

SULL’ADAMANT

Orso d’oro 2023, forse un po’ eccessivo, per un film comunque nobilissimo che riconferma la ricerca di Nicolas Philibert. Questa chiatta sulla Senna, vera e propria arca dei disperati, in cui fare osservazione (partecipata) del disagio psichico e della sua gamma di sensibilità è in fondo una specie di risposta documentaria al grande cinema fluviale di Epstein o Vigo. Tuttavia, qua e là si ha la sensazione che stavolta il punto di vista dell’autore resti un po’ appannato, indeciso tra una de-estetizzazione in forma di rispetto per i soggetti e un abbandono alle suggestioni narrative, personaggistiche, psicologiche che la materia suggerisce. Giusto per trovare il pelo nell’uovo, s’intende.

SPACEMAN

Difficile trovare un potenziale più irritante e molesto del progetto di questo sci fi d’autore Netflix, a metà tra retrofuturismo e steampunk in stile est-europeo. Aggiungiamoci in regia un autore di videoclip (e musicista) svedese come Johan Renck. Mettiamoci come carico un terzo atto di misticismo kubrickiano, con astronave alla deriva (e più di un contatto con Silent Running di Douglas Trumbull). Ne esce la tempesta perfetta del film hipster. E lo è. Salvo che qui a bottega non lo abbiamo affatto disprezzato, vuoi per una bellissima love story queer tra il protagonista e un ragno gigante, vuoi per l’ennesimo personaggio malinconicamente fallito di Adam Sandler, vuoi per la Cecoslovacchia ucronica che qualcosina ci dice anche sulle catastrofi del nostro infelice presente.

RIFONDAZIONE DEL CINEMA E ANATOMIE COMPARATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

Era difficile immaginare un ritorno così maiuscolo per Michel Gondry. Grazie a una seduta di auto-analisi intorno alla depressione e all’urgenza del fare cinema, l’autore riesce con la sua imprevedibilità ad evitare ogni effetto di meta-cinema felliniano. Piuttosto, il film diventa da una parte terapia (e dignità della terapia in sé, da offrire allo spettatore con meravigliosa impudenza) e dall’altra invenzione nella sua accezione più letterale. Ed è proprio il profluvio di idee fondative (dalla foglia bucata come mascherino al “camiontaggio”, dalla colonna sonora composta gestualmente alle animazioni) che rende Il libro delle soluzioni una pur rifondazione del cinema. Cinema come bricolage ma tutto sommato anche cinema come infinita possibilità di sintesi originale dei gesti artistici, qualsiasi forma prendano. Sarebbe un peccato che, con la sua aria dimessa e fragile, questo bellissimo film sul concetto di fantasia prendesse la strada della “curiosità minore” nella filmografia dell’ex-regista di culto.

ANATOMIA DI UNA CADUTA

Che cosa gli vuoi dire, a un film così? Una storia solidissima dal punto di vista drammaturgico, che parte da una morte misteriosa e comincia a scavare nel prima e nel dopo attraverso l’indagine, i personaggi, gli eventi. Il gioco con lo spettatore è ovvio quanto riuscito: a chi crediamo? e perché? con quali pregiudizi? Al centro una figura di donna: non per forza piacevole, non per forza simpatica, in mezzo a una feroce lotta mascolina tra pubblico ministero e avvocato difensore, tra marito morto e figlio cieco. Se dobbiamo guastare la festa, lo facciamo solo per far notare simbologie di scrittura un po’ facili (il bambino ipovedente è il personaggio più meccanico) e un’umiltà di regia che non per forza suona sempre come la scelta migliore. Ma sarebbe cocciuto eccederne i piccoli limiti.

SAW X

Per ritornare sui passi della saga (già comatosa da tempo) ci voleva qualche scossa. L’idea è far tornare l’Enigmista in un episodio collocato nel passato e connetterlo ai cattivi succedanei grazie a qualche sorpresa finale. Ma soprattutto attraverso una storia meno prevedibile, dove la vendetta scaturisce da un torto feroce, che quasi quasi sembra giustificare (l’horror Usa sta andando sempre più a destra) le torture raccapriccianti. Queste in verità sono il vero attrattore, in una corsa al grand guignol che sfiora nuove vette, almeno nel mainstream. Ogni tanto sembra quasi una “camera delle meraviglie” anatomica, un cabinet finalmente consapevole della filosofia dell’orrore. Ma passa subito, e tutto torna rozzo come sempre.

LA CADUTA DELLA CASA USHER

Ennesima conferma per Mike Flanagan: le sue carte migliori sono in scrittura. Anche questa epopea dell’avidità (non travestita da horror, caso mai il contrario) è piena di finezze. Non si tratta solo dell’idea riuscita di antologizzare tanti racconti di Poe attraverso la gestione orizzontale di un contenitore verticale (modernizzato), ma proprio di personaggi sinuosi, particolari, controversi, credibili. E se qualcuno pensa che lo showrunner abbia chiesto troppo, ci si ricordi dello stato dell’horror seriale contemporaneo prima di fare gli schizzinosi. Il cast, in buona parte ben noto ai flanaganiani, fa il resto con convinzione.

IL GRANDE LEBOWSKI

Un quarto di secolo per uno dei titoli più celebrati del cinema americano contemporaneo e dell’intera carriera dei Coen. E bisogna dire che regge a ogni revisione, anche perché tutte le questioni di postmodernità e mix di generi, poste all’epoca dalla critica, oggi sono meno centrali e lasciano spazio alla struggente e tragicomica epopea dei falliti, degli inetti e dei sinceri che ne ha decretato il vero successo. E Dude si conferma sempre di più antidoto all’ansia moderna, che negli anni Novanta stava alla finestra pronta a divorarci nello spaventoso nuovo secolo di terrore, guerre, pandemie, crisi economiche. Un meccanismo praticamente perfetto, forse l’ultima commedia possibile del secolo breve.