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Tag: Kristoffer Borgli

PASSAGGI E TRAPASSI DEL CONTEMPORANEO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

NAPOLEON

Il riassunto di quella che ha tutta l’aria di essere la versione final cut (4 ore) arriva in sala con molta freddezza critica. In verità, considerato che Ridley Scott è da anni un cineasta anti-autoriale, per cui ogni singolo progetto prescinde da quello precedente e da quello successivo in una cocciuta ricerca del pezzo unico, le cose non vanno così male. Il Napoleone involuto e isterico interpretato dal volutamente spaesato Phoenix racconta il trasformismo del potere ma anche l’intuitività del condottiero: si può essere geniali strateghi di guerra e idioti incapaci di gestire il proprio talamo nuziale. E così, tra una battaglia e l’altra, si torna all’idea di polemos scottiana: falangi che si giocano la battaglia sul proscenio della Storia, non importa in che epoca (Il gladiatore, Le crociate, Black Hawk Down), tanto l’uomo ha sempre risolto le cose con la violenza fisica e con la manipolazione politica. In più, ci sono fantasmi kubrickiani – quelli del film mai girato – che fanno capolino piuttosto evidenti, con riflessione a tuffo carpiato: e se Napoleone fosse un Barry Lyndon che ce l’ha fatta? (Almeno fino a Waterloo).

PASSAGES

Dopo un fugace passaggio estivo in sala, il triangolo amoroso fluido diretto da Ira Sachs arriva su MUBI. Autore assai sopravvalutato (a occhio anche da se stesso), Sachs ha il dono di raccontare una storia di rara irrilevanza con una sensibilità fuori del comune, specie nelle scene di sesso omoerotico. Tutto ruota intorno alla performance di Rogowski (attore apolide ed eccezione vivente dell’arthouse internazionale), visto che gli altri vertici della variabile geometria amorosa lasciano a desiderare – specie il pur simpatico Ben Whishaw, inchiodato alla medesima parte nelle serie e nei lungometraggi che gira. Ma, stile a parte, per raggiungere la flagranza eustachiana ci vuole ben altro che una crisi affettiva borghese raccontata senza peli sulla lingua e “lavorando” i corpi. E quando non si sa come finire una storia, come in questo caso, si rimane poi con un pugno di mosche in mano.

LA CHIMERA

Diciamolo, Alice Rohrwacher fa di tutto per irritare i non estimatori, a forza di pasolinate, cittismi, olmismi, realismo magico, folklore e amore contadino. Ma se si resiste al contesto ideologico, la forza espressiva di questa autrice si rivela e si svela, potentissima. Ben oltre il racconto dei tombaroli e delle vestigia sepolte di una civiltà (s)perduta, Chimera racconta un’Italia in cui il moderno non ha mai veramente attecchito. Una nazione di scarti, di oggetti sepolti, di ladruncoli rabdomantici per due lire, di tesori interrati e riscoperti solo sfidando i tarocchi di un destino segnato. E alla fine è un film sulla Morte, per una volta narrata in maniera terragna, malmostosa, qua e là ironica, come destino comune mentre cerchiamo un fil rouge esistenziale, pensando di essere immortali. E poi c’è un cinema-cinema strepitoso, pellicolare, che va percepito nella sua densità ottico-sonora, che pochi (Pietro Marcello, Emma Dante, per esempio) sanno fare oggi in Italia.

DREAM SCENARIO

Tra stilemi alla Gondry e pesante influenza del produttore Aster, il film americano di Borgli conferma qualità e difetti di Sick of Myself, e soprattutto la sensazione di conservatorismo crescente man mano che la storia si sviluppa. La satira sociale sull’influencer onirico e sul neuro-marketing del populismo si rivolta contro il suo creatore, il quale – a parte una sconsiderata svolta narrativa fanta-tecnologica nel terzo atto – non trova di meglio che colpire a strascico tutti i personaggi, immaturi o cattivi, e che sfida il buon gusto insistendo su una giovane donna con fantasie passive di aggressione sessuale. Siamo meglio di come ci descrive Borgli. Anche se l’idea di base e la prima parte funzionano e intrigano.

CENTO DOMENICHE

La dignità di Antonio Albanese fa spesso attutire la severità critica che meriterebbe. Al quinto lungometraggio da regista, esprime una spoglia mediocritas poco utile alla storia che sta raccontando (o troppo intrisa del personaggio, assai ingenuo, che mette in scena). In ritardo di vent’anni sul cinema del lavoro e dell’indebitamento che circola in Europa, la triste epopea del protagonista è molto schematica, con archi di trasformazione scritti col righello (l’impiegato suicida, il coro della bocciofila, la figlia amorevole). Gli si vuole bene, come sempre, ma poi ci si chiede: perché, esattamente? Segnaliamo infine che il matrimonio dei figli rimane (come la prima comunione del dopoguerra) la vera ossessione del cinema italiano, da Aldo, Giovanni e Giacomo a Paola Cortellesi, da Abatantuono al qui presente.

THE MORNING SHOW 3

Da serie prestige con cui Apple si affacciava alla battaglia dello streaming, The Morning Show si sta trasformando rapidamente in un guilty pleasure dove la parata delle star iper-truccate (Aniston e Witherspoon) comincia a odorare di cringe consapevole. Ma la terza stagione è comunque meglio della goffa e contraddittoria seconda. Aggiornatissima (Ucraina e post-Covid sugli scudi), ruba a piene mani dalle ultime due stagioni di Succession la riflessione sugli imperi dei media digitali e sugli OTT che si mangiano la TV lineare. Ne esce una difesa innamorata pazza della TV generalista e dei legacy media, però ospitata dalla piattaforma. Paradossi dei tempi che corrono.

POTERI TOSSICI E FUNZIONI DEL CINEMA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DOGMAN

Il ritorno di Luc Besson a una qualche ambizione produce un risultato che sembra apprezzabile solamente per il piacere dell’ibridismo. Troviamo infatti: un protagonista queer (ma molto etero nei gusti), un film di cani per bambini, una specie di horror, un noir con ammazzamenti, un remake di Joker, un musical, il tutto in un unico percorso dominato da Caleb Landry Jones (perfetto nella parte). Ma Besson continua a mostrare la corda nella regia (sciatta soprattutto nella rappresentazione degli spazi e nel mondo “arredato”) e mantiene un autismo di fondo nei confronti della materia, finendo col raffreddare il mélo che avrebbe potuto essere.

SICK OF MYSELF

Piccoli Ostlund crescono, e non è per forza un’ottima notizia. La storia di una patologia narcisistica che sfocia nell’autolesionismo in favor di telecamera ha il solito difetto di molti pamphlet contemporanei: la tendenza a ribadire il concetto metaforico con una tale frequenza che il cinema sembra scomparire per far posto all’ora di lezione. La campanella di Kristoffer Borgli che ci riporta sui banchi ogni dieci minuti mina l’aspetto corporeo e biopolitico, che dovrebbe essere qualcosa di incontenibile o spiazzante (problema che persino Lanthimos sta affrontando purtroppo con gli ultimi due film).

FAIR PLAY

Discorso simile per il film di Chloe Domont distribuito da Netflix. Più interessante il luogo di lavoro (una specie di Wall Street aggiornata al presente), così come un personaggio femminile più complesso di quanto appare. Il velo pietoso che dobbiamo invece stendere su quello maschile – che nulla c’entra con qualche trigger del recensore ma è solo buon senso di fronte a una controproducente parodia del maschio idiota – apre un fianco scoperto che sanguina dall’inizio alla fine della scrittura. Detto questo, bisognerà cominciare a studiare questo “cinema dell’invettiva” contro le mascolinità tossiche.

L’ESORCISTA – IL CREDENTE

La severità delle prime tre recensioni ci fa sentire un po’ in colpa, se paragonate a questa presa per i fondelli. Purtroppo David Gordon Green, che aveva cavato la pellaccia dalla nuova trilogia di Halloween (pur tra irritanti alti e bassi, e ben lontano dagli esiti di Rob Zombie), sembra muoversi bendato alla ricerca della pentolaccia di Friedkin da colpire, Ma non bastano né le poche note di Tubular Bells né la povera Ellen Burstyn – maltrattata da una sceneggiatura sadica – a far intravedere la sacra sindone di Pazuzu. Siamo in zona Blumhouse quando i soldi scarseggiano e bisogna traslocare in fretta e furia prima dello sfratto.

KAFKA A TEHERAN

Idee chiare e solide, quelle di Ali Asgari e Alireza Khatam, durissimi nei confronti dei rapporti di forza e della pressione ideologica del regime in Iran. Concepito in una decina di quadretti da pochi minuti l’uno, con la passione per la parola della scuola-Farhadi, mettono in scena altrettanti colloqui tra chi ha il potere e chi lo subisce. Scuola, commercio, lavoro, istituzioni, industria, polizia, nessun “dispositivo” può esimersi dall’ispezione e dalla demolizione della libertà altrui. Camera fissa, enfasi sul fuori campo. Qualche schematismo e un finale enfatico (dunque contraddittorio) non rovinano il triste affresco.

FLORA AND SON

John Carney si conferma il cineasta più cariogeno del momento, strappando la leadership a (me)Lasse Halstrom. Battutacce a parte, si tratta del più classico fautore del cinema riparativo, un’idea emolliente del film – meglio ancora se in streaming come questo – in grado di evitare qualsiasi granello di polvere nell’ingranaggio. Sia chiaro: una volta accettata questa funzione patemica, tutto funziona benissimo, dalla rappresentazione sociale alla sboccatissima (e brava) Eve Hewson. Basta sapere che cosa si vuole (e non essere troppo snob come gusti musicali: questo è il canone di Carney).