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UTOPIA CONTRO DISTOPIA – “THE CROWN” E “wATCHMEN”

Non c’è dubbio che la terza stagione di The Crown e la prima di Watchmen abbiano segnato l’ultima parte del 2019, nel mondo della serialità televisiva. Pur in epoca di contenuti di massa, le due serie si sono imposte con forza e per diversi motivi. All’apparenza non potrebbero essere più lontane tra di loro, visto che una racconta – pur con qualche libertà interpretativa – la storia della Royal Family tra 1952 e 1977 (per ora), mentre la seconda costituisce un sequel con tratti di reinvenzione della graphic novel omonima, pigiando il pedale della fantascienza alternativa più spinta.

Quindi perché paragonarle? L’impressione è che The Crown possieda tratti utopistici, tanto quanto Watchmen ne mostra di distopici. In particolare, la stagione di The Crown offre elementi metalinguistici fin dal primo episodio, quando il nuovo cast (e in particolare la nuova Regina interpretata da Olivia Colman) osserva le effigi del vecchio cast, e in particolare di Claire Foy, trasformate nella nuova icona. E tutto il resto della stagione – basata su episodi particolarmente tematici e singolari, processo che mi sembra stia emergendo nella serialità contemporanea – enfatizza l’elemento della rappresentazione, comunicazione, divulgazione mediale della vita reale come interlocutore sempre presente tanto quanto i fatti storici, un davanti alle quinte del “dietro le quinte” della vita privata dei regnanti.

La Corona è l’oggetto simbolico che guida la Nazione, che “sopporta” metaforicamente un cambio integrale di cast, che pre-esiste in modo immanente alle vicende della Gran Bretagna e al veloce avvicendarsi dei primi ministri, che regge gli urti del quotidiano e sostiene la teleologia laica e religiosa inglese. Mi pare evidente che la solidità della Corona e la longevità della Regina, in una serie perfetta ma volutamente classica e conservatrice dal punto di vista iconografico e narrativo, fungano da contenimento delle spinte disgreganti della Brexit e del referendum. Una nazione divisa viene utopisticamente riunita da una serie televisiva. E non dalla democrazia, si badi. Ma dal Regno.

Al contrario, Watchmen non ha nulla di cui rassicurarci, nemmeno nell’America alternativa tra 1985 e 2019. Ci si potrebbe rallegrare di trovare Robert Redford al posto di Trump alla Casa Bianca, ma fin da subito la serie ci immerge in Stati (dis)Uniti preda di violente contrapposizioni razziali, con una vasta cospirazione del suprematismo bianco, e faticose distinzioni tra buoni e cattivi. I super-uomini come il Dr. Manhattan – fino alla fine – vengono accusati di non aver fatto abbastanza, mentre Veidt (interpretato da un redivivo e survoltato Jeremy Irons) è di fatto uno stragista che scambia abnormi sacrifici umani per una salvifica palingenesi del mondo. Come a dire: anche se ci catapultiamo nell’universo grafico di una società parallela visionaria e mistica, il batterio del razzismo non scompare. Anzi, si presenta ancora più forte, resistente, ramificato. Una distopia a tutti gli effetti. Chi vorrebbe mai vivere nella Tulsa di Watchmen?

Entrambe le serie sono essenzialmente malinconiche. Per la Regina e i suoi parenti snob la Corona è un fardello da portare per diritto/dovere divino, e nessuno sembra particolarmente felice se non rifugiandosi nell’apatia, nell’alcool, nei tradimenti, e ammirando le grandi conquiste dell’umanità (come nel bell’episodio sullo sbarco nella Luna) seduti tristemente sul divano. In Watchmen la compagna di strada è la paura, mentre i supereroi sono ossessionati dai propri poteri e li utilizzano con l’incoscienza di bambini. E dentro gli armadi, al posto degli scheletri, ci sono più facilmente i mantelli bianchi del Ku Klux Klan. Non essere annientati dai razzisti, da qualche forma di energia o dai calamari assassini è già un buon risultato: c’è poco da stare allegri, insomma.

E alla fine un’utopia rassicurante o una distopia raggelante portano allo stesso risultato: prendere coscienza che mala tempora currunt e vivere con la dignitosa consapevolezza di ciò che ci circonda. Potremmo dire che sono serie anti-populiste. Aspettando di vedere se qualcun altro camminerà sull’acqua.