Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
PACIFICTION
Pensate ad Avatar se fosse girato da Lav Diaz. Se vi è difficile da immaginare, ci pensa Albert Serra ad estrarre un prodigio dell’assurdo: il post-colonialismo, la difesa dei nativi, la Polinesia incantata, lo sfruttamento delle risorse, il capitalismo predatorio sono anche qui temi principali, annegati però in un clima arty, umido e ubriaco, nel quale si aggira un Alto Commissario che – tra uno stordimento e l’altro – cerca di tenere insieme tutte le esigenze in gioco. Nel contesto di una paranoia nucleare fatta di piccoli spionaggi impalpabili, segnato da un continuo richiamo all’impossibilità di vedere (chiaro), Pacifiction è un viaggio fatto di stasi, un errare irresistibile e seduttivo, una danza sul mondo di oggi raccontato da un punto di osservazione potente, (in)corrotto, come le onde che – con flagranza straubiana – vengono mostrate con la mdp a fianco della cresta.
FAST X
Tra i lamenti di chi forse non ricorda che razza di disastro erano i capitoli 8 e 9, esce questo decimo, ben consapevole di che cosa bisogna fare a questo punto: ridurre al minimo (ma mai abbastanza) i pipponi su Dio e famiglia o una trama di un qualche senso, e sparare a mille la musica della distruzione totale, lasciando allo spettatore pochissimo tempo per formulare qualcosa di più di una reazione epidermica. Sempre più globale come il suo cast, Fast X fa polpette della politica internazionale e le serve, fritte e unte, dentro un panino di spettacolo meravigliosamente decerebrato, dove tutti gli attori sono cani e le uniche brave – Charlize Theron e Michelle Rodriguez – appena si vedono si massacrano di botte in un badass catfight. Inutile rimpiangere i primi episodi: meglio così, cafoni fino in fondo (come ha capito un Jason Momoa psycho queer), che restare a metà del guado.
THE FIRST SLAM DUNK
Esito finale di un processo culturale pop lungo anni, che attraversa fumetto e animazione, il film scritto e diretto da Takehiko Inoue ha frantumato il botteghino giapponese ed è arrivato in Italia forte di un rispetto guadagnato in partenza. Il racconto ruota su una sola partita di basket, inframezzata da flashback dedicati a una storia famigliare mélo (la cosa francamente più indigesta). Snervante per chi non ama questa grafica e questo tratto, ma incredibilmente coinvolgente per chi entra nella dilatazione temporale e psicologica del narrato, The First Slam Dunk vanta anche una credibilità nella rappresentazione cestistica e nei movimenti dei giocatori davvero sorprendente.
THE MOTHER
Abbiamo già insistito più volte sul fatto che gli action Netflix puntino a una semplificazione narrativa per pubblici vasti (190 Paesi!) e che la routinarietà action non ne sia limite, ma fine ultimo. A tal punto che basta la personalità di una come Jennifer Lopez per infondere un po’ di calore a una storia che verrebbe applaudita solo se ideata da uno studente di quinta elementare in un momento di noia durante la merenda pomeridiana. Narcos, guerra e survival si mescolano senza grandi disastri, a patto di essere comprensivi verso il conto in banca da rimpinguare di Joseph Fiennes e soprattutto di Gael Garcia Bernal. Dirige Niki Caro, un tempo più ambiziosa, ora shooter spersonalizzata di film eterodiretti con qualche spruzzata di paesaggi naturali.
SANCTUARY
Una stanza di hotel, due personaggi, 90 minuti. Si tratta di dominatrice e schiavo, ma anche di un gioco di maschere che copre via via: famiglia, potere, sesso, denaro, America. Con una teoria di base vecchia come Marx: il capitalismo regola i rapporti di forza, coinvolge i corpi e si incarna nel sentimento borghese. C’è un’aria da indie movie di quelli senza troppo cinema dentro, purtroppo. Fortunatamente, c’è Margaret Qualley che, sfruttando il personaggio più carismatico dei due, porta il compito fino in fondo appropriandosi della scena, in tutti i sensi. Da decidere se dopo l’ora e mezza ne esca normalizzata o vincente. A partire da questo sospetto si gioca anche la valutazione del film.
STILL
Invece che da Michael J. Fox partiamo da Davis Guggenheim, il regista del doc di Apple+ TV. Noto come autore embedded (come dimostrano i film su Obama e Gates), sembra impossibilitato a uno sguardo critico, distanziato, autonomo. Riprendendo Fox e la sua malattia, finge di porgli domande scomode ma si limita a celebrarne forza, personalità, famiglia. Del resto, è anche comprensibile. Il peggio, però, viene dall’uso del materiale: al tempo stesso quantitativamente scarso e giocosamente manipolatorio, sembra escludere sia la biografia cronologica sia la destrutturazione creativa di una carriera. Per fortuna rimane Michael, umanissimo baby face invecchiato nella malattia; e rimangono alcune strepitose sequenze di sitcom (quasi estreme) in cui il Parkinson era già visibile ma nessuno lo sapeva, stando davanti al piccolo schermo. Titolo intelligente, che prometteva meglio (con tutto il rispetto, ovviamente).
ALIEN/S
Tornano in sala i primi due capitoli – i più importanti – della saga xenomorfa. Che cosa si può dire in 5 righe di due capolavori? Forse che è molto interessante rivederli uno dietro l’altro, perché dimostrano l’elasticità della fantascienza: Ridley Scott gira un horror gotico, James Cameron in film di guerra stile Vietnam, ed entrambi riplasmano il genere senza negarlo. Punto di contatto, di ebollizione, di continuità battagliera è ovviamente Ripley, cui Sigourney Weaver ha saputo donare – con la sua spigolosa bellezza e il suo talento ansioso – un archetipo indimenticabile di donna epica. Il resto, e sia per una volta detto con cognizione di causa, è storia.