Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
MISERICORDIA
Nel rapporto cinema/teatro in Italia, Emma Dante prosegue la sua corsa solitaria, mescolando forme e linguaggi nella sostanziale incomprensione dei più (tra chi la eleva automaticamente in quanto simbolo culturale e chi la deprime perché esaspera l’astrazione performativa sullo schermo). Dentro al viaggio nel “sordido magico” di questo lembo di umanità alla deriva (affacciata sul mare) ritorna la forza espressiva di Dante, senza che l’insistito simbolismo femmineo e acqueo rovini lo scenario. Certo, Le sorelle Macaluso aveva più respiro, più urgenza e più varietà, ma Misericordia ha il merito di un world-building di rara crudezza.
LUBO
Altro caso di regista italiano che irrita parte della cinefilia per i formalismi e i realismi ambientali. Diritti, in verità, è l’unico cineasta italiano insieme ad Alice Rohrwacher (del resto entrambi, in modi diversi, olmiani) che guarda alla cultura materiale come carburante filmico. E, persino in un apparente feuilleton storico su uno zingaro assassino la cui colpa è una goccia nel mare della persecuzione biopolitica del suo popolo, l’approccio antropo-oggettuale di Diritti colpisce nel segno (anche grazie al comparto di Ursula Patzak e Giancarlo Basili su cui urgono libri e documentari). Peccato per un atto finale affrettato e narrativamente contraddittorio.
THE OLD OAK
Non è difficile immaginare che allegoria rifletta la Vecchia Quercia. Tutti hanno indicato Ken Loach come la figura nascosta dal titolo con l’inchiostro simpatico, ma più probabilmente, conoscendo la pratica ideologica del cineasta, è il “cinema socialista” ad essere quella old oak (con l’insegna che cade a pezzi ma ancora capace di costruire affetti e lotte). Il didascalismo dell’epoca Laverty (sceneggiatore dell’ultima, lunga parte della carriera loachana) è il solito, il cuore dietro la macchina da presa anche. E l’analisi del tramonto dell’idea internazionalista, soffocata dal populismo triste dell’operaio finito nelle braccia della destra xenofoba, colpisce duro.
TRENQUE LAUQUEN
Finalmente viene distribuita (anche se in modo minimalista) un’opera del collettivo di registi argentini El Pampero Cine – quello di La flor di Mariano Llinas, da recuperare assolutamente per chi non lo ha visto. Sfidando anche in questo caso i formati classici, il doppio film da 4 ore complessive di Laura Citarella ruota intorno a una donna da rintracciare, filo esile dal quale nascono (gemmano, diremmo) tante diverse storie, personaggi, segmenti narrativi, forme audiovisive, percorsi erratici. Praticamente impossibile da riassumere, Trenque Lauquen pratica un cinema dell’affabulazione lenta, dell’immersione progressiva, del mondo come racconto infinitamente scrivibile. Antropocentrico, ma agìto da forze profonde. Forse non il capolavoro declamato da alcuni, ma un film che è un grande, lungo fiume poco tranquillo.
IL POPOLO DELLE DONNE
Nelle gallerie i lavori di Ancarani sembrano esondare e mettere in discussione la fissità del quadro o dell’installazione; nei cinema sfidano i nessi narrativi e le procedure stilistiche, chiedendo contemplazione, curiosità, stati di coscienza inediti. Qui abbiamo un gesto contrario ma altrettanto sfidante: riprendere la psicoterapeuta Marina Valcarenghi, con pluridecennale esperienza di lavoro con stupratori e omicidi, mentre tiene all’aperto una conferenza di un’ora sulla violenza di genere. Come a dire: silenziare le forme per esaltare il contenuto fatico in assoluto rigore. La parola delle donne, prima ancora del popolo. L’oralità come forma di cinema puro.