Dopo Biografilm e Annecy, continuiamo a esperire festival online. Le piattaforme (MyMovies in tal caso) continuano ad affinare le interfacce grafiche e a sperimentare operazioni editoriali, che – come già abbiamo detto – potrebbero in futuro non scomparire ma affiancare l’auspicabile ritorno dal vivo dei festival. Premessa: chi scrive non è un esperto di cinema orientale e, per motivi di sovrapposizioni con il lavoro, ha potuto raramente negli ultimi anni presenziare al glorioso Far East Film Festival di Udine. L’occasione è dunque benedetta, ma quanto segue ha le caratteristiche dell’osservazione “distante”, per forza di cose meno informata degli studiosi e appassionati del settore.
In ogni caso, molti film (tra quelli visti in maniera confusa e con cinefilia “ad immersione”, occhi aperti e cervello sgombro) hanno dato da pensare, a cominciare da Ashfall, il film di apertura. Un esempio perfetto di blockbuster coreano, con annessi elementi politici narrativizzati in forma epica (non senza ironia) dove sud e nord trovano un intreccio per scongiurare un disastro nucleare innescato da un terremoto devastante. Per un occidentale siamo dalle parti dei blockbuster “b” catastrofici con Dwayne Johnson, ma il respiro è decisamente più ampio.
C’è un terremoto – un certo punto – persino in Ip Man 4, episodio che conclude la bella saga con Donnie Yen. Ambientato a San Francisco a inizio anni Sessanta, con una fotografia eccezionale cui non deve essere estraneo il ricordo di C’era una volta a Hollywood, il capitolo offre finalmente una parte consistente anche a Bruce Lee, allievo del maestro, come personaggio. Ovviamente il tutto serve a sublimare la serie, che si conclude con “il meglio di”, una carrellata di momenti storici, compresa la lotta contro Mike Tyson del numero 3. La sensazione è che film come questo prefigurino e dialoghino con un pubblico ancora pop nel senso tradizionale del termine, quello che in Occidente sembra inghiottito dalle forme di consumo più algoritmiche.
Ingiudicabile, per quanto mi riguarda, l’ultimo film di Johnnie To, una sorta di melodramma sportivo giovanile intitolato Chasing Dream. Mi sembra di capire che appartiene alla filmografia più torrenziale, commerciale, di rapido consumo “Toiana”, e che To stia recentemente demansionando la sua figura autoriale. Certo è che si oscilla tra plastic kitsch quasi irritante e accensioni cromatiche, emozionali difficili da ignorare. Più potente e solido invece il ritorno di Andrew Lau, The Captain, su un capitano di aereo ancora più geniale e freddo del Sully americano. Propaganda industriale cinese pura, ma anche una rocciosissima adesione al compito.
C’è spazio negli spazi non concorsuali anche per film lontani dallo spirito primario del festival (più legato ai generi e ai racconti codificati), come I – Documentary of the Journalist, doc giapponese sulla storia di una giornalista molto scomoda e perseguitata, che scoperchia alcune nefandezze davvero preoccupanti legate all’entourage di Shinzo Abe. Nulla di nuovo sotto il sole del documentario militante, ma sicuramente coraggioso al limite dello spericolato. Di altri film (My Prince Edward, per esempio) sarebbe da dire principalmente il nitore narrativo, ma annegherebbero in valutazioni troppo ordinarie. Della bella retrospettiva dedicata al da me sconosciuto Watanabe diremo a parte.