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Autore: Roy Menarini

GIRO DI CINEMA TRA TERRA E CIELO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ANORA

Destrutturazione molecolare dei tre atti della commedia americana, il nuovo racconto americanologico di Sean Baker sceglie una traiettoria spiazzante e amorfa. La giuria di Cannes 2024, facendosi dire “non sarà troppo una Palma per questa commediola?” ha dato lezione di cinefilia, scoprendo la dimensione elitaria del gusto festivaliero. In verità si tratta – come ha detto Ilaria Feole e confermato da Baker – di Le notti di Cabiria meets John Hughes. E già questo basta, Ma in più abbiamo un’analisi di un sogno migratorio americano totalmente rovesciato, un’analisi dei rapporti di classe attraverso l’uso del corpo, e una disamina filosofica della distruzione della realtà illusoria (mai visto un personaggio ricondotto alla sua mediocrità quanto il protagonista). Sorprendente.

FLOW

FLOW - Un mondo da salvare 02 - Teodora Film

Che stagione per l’animazione (di tutti i tipo, si pensi solo a Invelle e Il robot selvaggio)! Il film di Gints Zilbalodis, senza dialoghi e senza esseri umani, può essere considerato un tempestivo racconto di abissalità naturale in epoca di panico climatico. E se il gattino protagonista riesce ad essere straordinariamente credibile nelle sue movenze, è invece in un’astrazione anti-mimetica che si nasconde il valore del film, a-temporale (quando è ambientato?) e universalistico (la solidarietà tra specie giunge attraverso una negoziazione tutt’altro che lineare con gli istinti). Eccezionali anche i piani-sequenza, per quanto animati, e la rappresentazione dell’acqua, che funziona sia come specchio sia come microcosmo di vita e di morte.

BERLINGUER

C’è chi ha citato il Rossellini didattico, per il nuovo lavoro di Segre. Non sapremmo se essere d’accordo (e magari con qualche dubbio storico su quel Rossellini), certo è che Berlinguer si gioca su una lotta sottilissima tra cinema e baratro del docu-drama televisivo stile RAI. Autore e sceneggiatore sono troppo intelligenti per cadere nel burrone, ma la dimensione pedagogica è talvolta così sottolineata da rischiare l’irritazione. L’altra battaglia – su come si lavora, oggi, con i materiali d’archivio nell’epoca in cui tutti lo fanno – è anch’essa al limite. Di fondo, un film sulla perdita: della sinistra, certo, ma anche di un intero sistema sociale, quasi da far sospettare che si rimpianga la separazione netta tra le classi e tra gli elettorati piuttosto che cantare la nostalgia dell’azione politica.

IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA

Per fortuna che dietro la macchina da presa c’è una regista cinefila. Altrimenti questo sarebbe stata la solita lezione morale tratta dalla cronaca, con il ditino alzato e l’inutilità assoluta del parlare ai già convinti. Avendo invece trasformato la storia del protagonista in un coming-of-age adolescenziale tenero e stratificato (con suggestioni pop tra Harry Potter e il cinema alla Stand By Me), l’autrice ha buon gioco nel moltiplicare la virulenza del comportamento bullistico e l’insopportabilità della perdita. La cosa migliore, in fondo, non è tanto la denuncia della violenza quanto lo spreco irreparabile del potenziale umano e del futuro adulto, in particolare la fine del rapporto con l’amica del cuore, vero carburante emotivo del racconto.

QUI NON È HOLLYWOOD

Dopo tante polemiche inutili e infantili, il lavoro di Mezzapesa si rivela uno dei migliori true crime di questi anni. Non solo viene superato d’un balzo il malefico sensazionalismo delle docu-serie (come quella irricevibile su Yara), ma viene costruito anche una narrazione a mosaico abbastanza inedita – pochi hanno notato che i punti di vista diversi si passano il testimone mentre il racconto avanza cronologicamente (non è Rashomon, insomma). A parte i virtuosismi sceneggiatoriali, Qui non è Hollywood funziona – a dispetto del titolo – proprio perché è un po’ americano: quanti avrebbero lodato la disamina della provincia statunitense se al posto di Avetrana ci fosse stato un paesino della Louisiana o del Texas? Ecco, la stessa cosa – sul puritanesimo, la pochezza umana, il ruolo tossico della famiglia tradizionale, la perdita di punti di riferimento sociali – viene svolta qui.

PARIS, TEXAS

Wim Wenders è tornato. Gli ultimi tempi già segnati dal commovente Perfect Days e dal ritorno in sala di Il cielo sopra Berlino si arricchiscono del restauro (magnifico, e ve lo dice chi non è grande appassionato di colori in 4K) di Paris, Texas. Quel che allora era parso un racconto potente segnato da qualche dispersione, e da alcuni auto-compiacimenti in salsa shepardiana, mostra 40 anni dopo una limpidezza straordinaria, una trasparenza classica che lo sospinge verso la New Hollywood molto più che verso il cinema d’autore internazionale di oggi. E anche le rappresentazioni iper-realistiche del paesaggio USA, per quanto iconograficamente note, restano spettacolari e toccanti, quanto lo è Nastassja Kinski, di rara vulnerabilità.

PAURE, SEDUZIONI, SOPRAVVIVENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

IL ROBOT SELVAGGIO

Segni di vita dall’animazione. Come per Il mio amico Robot, anche stavolta un’intelligenza artificiale antropomorfa – nata per uno scopo di servizio – interagisce col mondo in maniera malinconica. La natura viene per una svolta offerta nella sua crudezza, anche se i correttivi della seconda parte del film sembrano un po’ negare l’apprezzabile approccio etologico della prima. Comunque sia l’inno alla famiglia allargata (e non decisa dai legami di sangue) funziona bene e si rivela progressista senza il ditino alzato. Curiosa la scelta grafica di un tratto digitale quasi privo di un paio di passaggi di rendering. Come per i Spider-Man animati, siamo entrati nell’era per cui il fotorealismo non è più il fine ultimo? Meglio tardi che mai.

IDDU

Variamente sottovalutato (non dal pubblico, che gli ha tributato un ottimo riscontro), è invece una degna conclusione della trilogia sulla Mafia di Grassadonia e Piazza. Il tono, da fiabesco e dark, si fa grottesco, pur senza scimmiottare Elio Petri o una certa tradizione della commedia all’italiana più nera. Tutto si gioca sul non-incontro tra Servillo e Germano che – metacinematograficamente – si mandano pizzini che sembrano dialoghi a distanza di una sceneggiatura criminale. E anche la recitazione survoltata delle forze dell’ordine, in un gioco tra gatto e topo dove perdono tutti, finisce col contribuire alla sensazione di una processione ironica sul cadavere umiliato (dalla realtà) del cinema di denuncia civile.

THE APPRENTICE

In questo caso il rifiuto del pubblico è stato pregiudiziale. Al contrario delle attese, nessuno voleva veramente conoscere i dolori e le passioni del giovane Trump. Che Abbasi mette in scena come un uomo senza qualità, un mancato Kane la cui slitta rimane ben nascosta in un armadio di ricordi inutilizzati, dove le citazioni dal Macbeth o le influenze di Tom Wolfe non assumono mai un aspetto di “tragica grandezza”. Ovviamente, sullo sfondo si gioca anche una riflessione sull’America e su New York. Sacrosanto aver evitato l’aria scandalizzata del tipo “ma come è potuto succedere?”, preferendo l’atteggiamento del tipo “proviamo a capire com’è successo”.

SMILE 2

Cominciamo dalle basi. Parker Finn è un signor regista, e la prima mezzora (oltre al piano sequenza iniziale) è un saggetto di messinscena da proiettare al CSC. Così come Naomi Scott è una scelta controcorrente e umbratile per un manistream horror. Poi ovviamente l’idea è sempre la stessa, ma gestita con una carica di negatività così rovinosa da farci pensare a un trauma study sulla società contemporanea. La celebrità continua ad essere luogo di elaborazione simbolica dei nostri tempi e il fandom un protagonista delle narrazioni. Andrebbero visti in fila Vox Lux di Brady Corbet, Trap di M. Night Shyamalan e questo per costruire un bel triangolo cinefilo. Non tutto funziona fino alla fine ma Smile 2 va quanto meno rispettato (ottima la sequenza del “balletto mostruoso”, con un occhio a Gaspar Noé).

WOMAN OF THE HOUR

Raro caso di titolo inedito intrigante da piattaforma. L’esordio alla regia di Anna Kendrick (anche co-protagonista) recupera dalla cronaca un serial killer meno noto per costruirci intorno una storia legata al punto di vista femminile e alla dimensione predatoria di un ragazzo affascinante, inquietante, alfine mostruoso. La narrazione tesse temporalità complicate e chiede allo spettatore di seguire il filo rosso della violenza, intrecciandola con il ritratto di una donna molto sola e molto consapevole della propria intelligenza, oltre che con un pezzetto di storia della televisione americana. Tutte queste strade si sfiorano solamente, ma una strana forma di suspense e di acume umanistico hanno intanto detto quanto c’era da dire.

NOBODY WANTS THIS

Bisogna ammettere che le varie forme della comedy sembrano al momento le più pimpanti del panorama seriale, anche se non si può avere tutte le settimane Hacks servito sul piatto di portata. In questo caso il tema originale (una single quarantenne in odor di Carrie Bradshaw si innamora di un rabbino sexy) è stato ben concepito, e di conseguenza trattato con il giusto equilibrio di satira sociale e rispetto religioso. Diciamo che ci si sarebbe potuti spingere ben più in là con un po’ di coraggio, oltre al fatto che la chimica tra i due è molto più enunciata che percepita. Si sorride con garbo, sperando in punte più acuminate nella seconda stagione.

MONSTERS: LA STORIA DI LYLE ED ERIK MENENDEZ

Ryan Murphy sembra aver trovato nuova linfa (e soprattutto la “quadra” con Netflix) grazie all’antologica Monster, che peraltro somiglia molto come approccio ad American Crime Story. L’indagine antropologica è sempre americanologica (e viceversa), e Murphy rimane l’unico a declinare la finzione true crime in modo così controverso. Sbattendo lo spettatore da un punto di vista all’altro e offrendo alcuni episodi epocali (vedi quello di un unico piano sequenza nella deposizione sugli abusi sessuali: da brividi), è in grado di rovesciare continuamente il punto di vista morale. Di fondo, poi, l’analisi delle zone oscure dell’omoerotismo si conferma coraggiosissima, così come la sepoltura sarcastica dell’american dream dei migranti che ce l’hanno fatta. La televisione di Murphy (ovviamente insieme ai suoi team) appare il contrario esatto di quel che pensano di lui i detrattori – che però spesso guardano giusto un paio di episodi.

INGANNO

Che bello vedere Pappi Corsicato in testa alle classifiche mondiali di Netflix. Rispetto al piccolo, quasi segreto Perfetta illusione (con cui tornava al “suo” cinema dopo dieci anni), Inganno è quasi uno scherzo en travesti. Sarebbe troppo facile parlarne come di un mélo-noir nel segno di Sirk (che pure è citato nel primo episodio), nel quale lo stereotipo verrebbe decostruito come fanno i suoi miti Almodóvar e Fassbinder. La faccenda è diversa: Corsicato va fino in fondo al kitsch, e confeziona l’erotico patinato turistico che gli si richiede, pari pari. Ma al tempo stesso lo fa meglio di chiunque altro, sfruttando la sfacciataggine nuda di Monica Guerritore, le suggestioni omofile, e omaggiando in fondo anche gli accademismi di Lavia e gli anni Ottanta di Lamberto Bava, shakerato infine con la soap e l’estetica Canale 5. Applausi divertiti.

INTERROGAZIONI DI CINEMA E DI VITA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

FINALEMENT

Dev’essere proprio vero che a una certa età gli autori si scrollano di dosso tutti ricatti del presente e acquistano una libertà e una leggerezza indicibili. Lelouch firma in questo modo uno dei suoi migliori film di sempre, interrogando sia la vita (con una certa qual stucchevolezza che gli è propria, ora però adorabile) sia il cinema. Ed è qui che si gode di più: la fantasticheria del protagonista in verità è una specie di coraggiosissimo cinema della demenza senile, nel quale la struttura va a ramengo e situazioni, ricordi, racconti dentro racconti, episodi, aneddoti, viaggi e dialoghi si srotolano senza gerarchie – a volte sembra quasi un Dupieux se Dupieux avesse 87 anni e lasciasse spazio alla malinconia. Sorprendente.

IL TEMPO CHE VI VUOLE + MAKING OF

Mettiamo insieme due film che apparentemente c’entrano poco (il bello di questo sito è che si fa un po’ quel cavolo che ci pare) ma parlano entrambi a modo loro del mito del cinema. E falliscono esattamente per questo motivo. Francesca Comencini è sincera, e dispiace che si sia persa nel labirinto del suo omaggio al padre: non sono tanto le epifanie, le fellinate, lo stile da docu-fitcion a non funzionare ma proprio la restituzione del cinema comenciniano (cui mal si attaglia il “magico” del set) e della propria vocazione, sbiadita in un personaggio femminile che – per quanto autobiografico – non ha un’identità e non si sa perché decida di fare film. Cédric Kahn, invece, mette umanità e ironia nel suo “film de tournage”, decide di mescolare rivendicazioni narrative e sindacalismi da set (con intuizione non banale) ma lascia con un pugno di mosche in mano quando opta per la solita galleria dei tic interni all’industria francese: produttori in fuga, soldi che mancano, registi macchietta, cammei illustri, attori tronfi, ecc ecc, come in una puntata qualsiasi di Dieci per cento.

LA MISURA DEL DUBBIO

Ecco un buon terreno di discussione per le metodologie critiche. Il film scritto, diretto e interpretato d Daniel Auteuil (in vena di one-man-show) offre una divaricazione vistosissima tra forza concettuale della storia e imperizia di messa in scena. In vari titoli recenti (Anatomia di una caduta è solo la punta dell’iceberg) la giustizia e i tribunali sembrano tornati ad essere un importante luogo simbolico per l’elaborazione dei nostri dubbi sul mondo che ci circonda. Ed effettivamente l’ossessione poco professionale del vecchio avvocato per un caso che fatica ad analizzare lucidamente diventa il perno di un discorso denso e ammirevole. Ma il caos sceneggiatoriale, le metafore visive puerili, le soluzioni registiche da primo anno di scuola del cinema, il pessimo uso dello spazio scenico sono una tortura per l’appassionato. Che cosa scegliere? Quale aspetto privilegiare? Eccola, la misura del dubbio critico.

WOLFS

Oltre a una scelta commerciale, la non distribuzione del film di Jon Watts nelle sale ma solo su piattaforma (in controtendenza rispetto alle ultime scelte dei colossi streaming) rischia di diventare simbolica. In effetti, se Clooney e Pitt, prima ancora che asset dell’OTT, vengono considerati ormai inadatti alle folle da grande schermo, cambia la prospettiva. Wolfs è pensato pigramente come puro veicolo per insistenti scambi di battute e occhiatacce tra i due divi. Nemmeno per un momento qualcuno sul set dà l’impressione di credere a qualcosa di più di un divertissement usa e getta. Il che andrebbe benissimo in due casi: A) se fosse divertente e B) se fosse stato creato uno “spazio estetico” per il divismo dei due. Nel primo caso lasciamo (penosamente) giudicare; nel secondo il lavoro è rimasto sulla carta. Un paio di gag sul mal di schiena non costituiscono né un discorso sul celebrity ageing né una decostruzione crepuscolare.

HIS THREE DAUGHTERS

Inizia benissimo. Un monologo (in verità si scopre che è un dialogo) della strepitosa Carrie Coon, con la sorella fuori campo, annichilita, ad ascoltare l’attacco di ansia e finta razionalità della parente. Poi la drammaturgia si normalizza, e si fa strada un teatro da camera borghese nel quale tira aria di quando Allen rifaceva Bergman (o di quando Baumbach rifà Allen che rifà Bergman), quindi troppo diluito per creare vero dolore. Le tre sorelle sono personaggi riusciti, va detto, ma manca un’idea di cinema che non sia il “prestige” psicologico da fiore all’occhiello della piattaforma. La claustrofobia dell’appartamento e della panchina esterna finisce col tagliare fuori, insieme al quotidiano, anche la società.

ASSEDI E FUGHE CINEFILE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

LOVE LIES BLEEDING

Nel catalogo del “lynchano” può anche starci un noir al femminile che cita il lessico del maestro (dalle strade perdute ai crateri facciali di Eraserhead) e lo abbandona per altri lidi. Rose Glass è un’autrice un po’ accademica, e il rischio con i suoi film è che si veda sempre in filigrana l’aspetto analitico, con qualche perdita nel campo del romanzesco. Tuttavia, tra corpi scolpiti di una queerness sincera e un pulp che ama costeggiare il fantastico, Love Lies Bleeding trova una sua cifra cruda, in particolare nell’avventura sentimentale di due giovani donne radicalmente estranee al mondo. E se sullo sfondo ci sono davvero Thelma e Louise, è solo per deformarne il ricordo con graffiti sovrapposti e un cadavere (squisito) nel bagagliaio.

CAMPO DI BATTAGLIA

Sotto l’aria vetusta di un drammone da sceneggiato italiano, batte l’esatto opposto. Il miglior Amelio da anni inietta nel formalismo inquietudine morale e indignazione storica pescando dall’inferno della Prima Guerra mondiale e dai suoi effetti. Inno alla diserzione tutt’altro che scontato, Campo di battaglia fin dal titolo spiega di un cinema di conflitti “imprigionati” – o ospedalizzati – perché non li vogliamo vedere. Ed è interessante come il tema del virus (la Sapgnola) e le sue evidenti analogie con il Covid vengano ribaltate: la pandemia di oggi ci serve a comprendere che cos’è successo allora, e non viceversa.

SPEAK NO EVIL

Remake americano dell’horror danese che ha avuto un certa fortuna (chiamarlo cult sarebbe davvero troppo) negli scorsi anni. Per tre quarti si tratta di un rifacimento quasi in fotocopia, compresi movimenti di macchina, scenografia, stile. Poi – senza fare spoiler – cambia completamente l’assunto di base con un’ultima mezzora oppositiva rispetto all’originale. Si tratta di un caso piuttosto raro ma indicativo: ci si “ribella” al nichilismo del capostipite e si offre al pubblico mainstream più violenza purché più “consumabile”. Il tutto funziona solidamente, anche se perde in parte il lato di riflessione sociale.

LINDA E IL POLLO

Quando l’autrice italiana Chiara Malta ha spiegato che la sua influenza principale è stata il Peter Bogdanovich di Ma papà di manda sola? abbiamo esultato in molti. Il cinefilo, infatti, oltre a immergersi in un’animazione fatta a straordinarie macchie di colore, viene stimolato dall’azione comica (e malin-comica) dove il disastro consegue a un’assenza, e la furia umoristica procede dopo un lutto. La comicità slapstick, animata o meno, è sempre una reazione a un vuoto, forse alla paura stessa della morte. Linda e il pollo capisce tutto questo e lo serve sul piatto con grande affetto: a costo di sacrificare l’incolpevole pennuto.

LIMONOV

Probabilmente nessuna catastrofe cinematografica scalzerà Limonov dalla vetta di peggior film del 2024. Caso esemplare di adattamento scriteriato (e dire che ci si sono messi Pawlikowski, oltre al regista e alla consulenza dello stesso Carrère). Eppure, sembra quasi del romanzo sia stato spremuto via tutto quel che c’era di potente e controverso per dare spazio ai lati più sordidi e inconcludenti del protagonista. Il vitalismo esasperato di Kirill Serebrennikov diventa qui qualunquismo psicologico, del resto irrelato al personaggio originale. Quel che è peggio, poi, si annusano riferimenti alla Russia putiniana tutt’altro che ostili o quantomeno volutamente ambigui.

REBEL RIDGE

L’unanimità delle reazioni (“incredibile, c’è un buon thriller su Netflix”) fa capire quanto basse fossero le attese e quanto discretamente si sia comportato il regista Jeremy Saulnier. L’evidente riferimento al primo Rambo – come noto totalmente diverso dai seguiti – è un merito cinefilo, per di più rispettando l’assunto di Ted Kotcheff e del titolo originario: “first blood”, ovvero l’eroe non uccide nessuno. L’aggiornamento al clima “Black Lives Matter” non è né pedagogico né forzato, anzi offre, nel contesto di questa anonima provincia americana, informazioni importanti sulla difficile distinzione tra polizia e milizia privata e sul razzismo bianco molecolare da small town. Non facciamone più di quello che è, ma almeno si intravede un tipo di cinema che si pensa come tale.

THE PERFECT COUPLE

Guilty pleasure? Rischia di non esserci il pleasure. La serie diretta da una sempre più irriconoscibile Susanne Bier (a proposito di smontaggio delle autorialità) ruota intorno al classico godimento crime verso i guai morbosi delle famiglie ricche e potenti. Si tratta di una formula Agatha Christie immersa nell’acido di uno stile survoltato con un cast cui è chiesto di recitare come in una soap. A salvare il tutto dovrebbe essere una meta-ironia di base dove non solo la serie processa sé stessa con dialoghi ammiccanti ma ci si concedono svolte narrative assurde con leggerezza, quasi a dire “sì, lo sappiamo che non ha senso, e proprio perché lo sappiamo dovete divertirvi con noi”. Solo che in mezzo a questo intento cervellotico e incasinato ci si diverte pochissimo.

BREVISSIME ITALIANE

Sono usciti anche, nell’anonimato e con risultati molto bassi al box office, alcuni titoli nazionali: Quasi a casa parte da una bella idea (il confronto tra un’aspirante cantautrice e una rockstar fuori di testa) senza riuscire a bucare il tetto di cristallo del tenero abbozzo; Taxi Monamour conferma la sensibilità di Ciro De Caro e di Rosa Palasciano, anche se la malinconica e sbilenca autenticità di storie e personaggi rischia di farsi imbrigliare da quello stesso minimalismo scelto come luogo del discorso; Anywhere Anytime ha un obiettivo apparentemente folle (rifare Ladri di biciclette nel 2024 con i migranti al posto dei poveri del dopoguerra) ma alla fine è il più limpido, il più sentito, il più nitido come messa in scena; Coppia aperta quasi spalancata ha il merito di stravolgere un po’ di strutture e giocare tra vero/falso, palco/fuori palco, poggiando sull’umorismo anarchico di Chiara Francini, ma il tema del poliamore diventa obsoleto, inerte, pedante; La scommessa e L’ultima settimana di settembre funzionano per motivi opposti (un po’ dark il primo, orgogliosamente tenero il secondo); Finché notte non ci separi è tutto quello che un talento come Pilar Fogliati non deve fare; Come far litigare mamma e papà è riempitivo da piattaforma capitato per sbaglio in sala (e come tale disertato). Il panorama sarà anche vivace, ma l’idea stessa che tutto questo cinema faccia a meno degli spettatori è preoccupante.

QUESTA NON È VENEZIA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

MAXXXINE

La conclusione della trilogia avviene in forma di trip cinefilo e videofilo intorno agli anni Ottanta, con un tono a metà tra Bret Easton Ellis e Ryan Murphy. Decisamente meno affascinante degli altri due, si sostiene attraverso il personaggio di Maxine e il magnetismo “moccioso” di Mia Goth, vero, corporeo punto di equilibrio di tutta l’operazione. Non bisogna dare troppo peso alle citazioni (da Schrader a Polanski passando per Hitchcock), o piuttosto considerarle parte di quell’atteggiamento postumo del “post(u)moderno” recente, nel quale non ci sono più relazioni dirette alla storia del cinema ma evocazioni archivistiche di un passato ridotto a set turistico – come qui la casa di Psyco.

TRILOGIA DI TI WEST

E qui ci riferiamo invece al bilancio dell’intera trilogia. Riuscita, in generale, anche solo per l’idea di una “collazione” piena di rimandi e reticoli interni (bene vederli tutti in fila) in forma d’autore. Ti West è troppo scanzonato e appassionato del genere per adottare le linee “arty” del prestige horror A24 e quindi procede a un lavoro sul canone che – se preso sul serio – farebbe acqua ma che – se preso comprendendo il grado di masquerade carnevalesca emulativa – funziona benissimo. Mia Goth è corpo assoluto e co-autrice di un doppio ruolo brutale, ma ciò che conta (pur senza eccedere in sociologismi) è il triangolo (ehm) sesso/morte/spettacolo che West considera spettrometro della sua visione dell’America rurale e urbana. Pearl si distingue per originalità e compattezza dell’american gothic ma X è il capitolo più genuinamente e spassosamente gore/core.

L’INNOCENZA

Di Kore’eda bisognerà pur cominciare a dire che stiamo assistendo in diretta alla costruzione e conferma di un maestro del cinema contemporaneo in grado di rivaleggiare con i classici. Di straordinario (nel senso proprio di fuori dalla consuetudine del cinema d’autore) ci sono domande umanistiche ed esistenziali poste nella maniera più alta e più giusta, senza dimenticare di interrogare il mezzo cinematografico e le sue forme. Facile a dirsi. Ma Kore’eda è tra i pochi a sapere come fare: per esempio arrischiare una narrazione “a meccanismo” e poi erodere ogni schematismo attraverso la flagranza della messa in scena e la forza contraddittoria dei personaggi (in tutt’altra direzione, anche Farhadi fa la stessa cosa, lambendo la manipolazione narrativa e svuotandola dall’interno). Finale struggente che sarà difficile dimenticare.

INVELLE

Anni di lavoro, di disegni, di cura maniacale, di tratto, di forma, di segno, di limatura, per arrivare a uno dei più grandi film italiani (non solo di animazione) di questi anni. Simone Massi capitalizza la sua intera, gloriosa carriera nel modo giusto e trova il miracolo di un lungometraggio che ha molto da dire della dinamica italiana tra mondo contadino e storia del dopoguerra e tutto da dire quanto a innovazione stilistica: è qui, infatti, che – senza temere di essere impegnativo per lo spettatore – Massi immerge il suo disegno b/n in un flusso inarrestabile che sembra far gemmare una forma da un’altra, dal dettaglio al totale, dal piccolo al grande e viceversa, senza un momento di stasi, creando una sorta di panta rei che sinceramente non avevamo mai visto (immagini che sorgono e sgorgano l’una dall’altra, sconfinando in quella successiva, negando la fatica stessa del lavorarle separatamente; come a dire che questo è il cinema nella sua natura essenziale).

IT ENDS WITH US

Se proprio, per accogliere la natura dei tempi che corrono, dobbiamo rispettosamente accettare che la contemporaneità abbia bisogno di racconti didascalici (Barbie, Povere creature!, C’è ancora domani), almeno pretendiamo che siano interessanti, come i tre citati. Qui no. Inoltre, c’è un problema allo stato pre-interpretativo: si può procedere a interpretazione critica se i livelli minimali di presentabilità di un prodotto in sala sono irricevibili (dalla sceneggiatura alla recitazione, dai totali ai primi piani, dal montaggio al suono: tutto è amatoriale)? Fatta questa premessa, il film di Justin Baldoni è un classico caso per cui il compitino contro la mascolinità tossica è gestito in maniera così grossolana e controproducente (vedi il trauma infantile del marito violento: ma stiamo scherzando?) che entra nella lista dei titoli da sconsigliare alle scuole e da vietare ai giovani futuri adulti.

BLINK TWICE

Didascalismo parte due. Ma un po’ meglio. Zoe Kravtiz esordisce dietro la macchina da presa con un apologo horror contro il patriarcato uber-capitalista, raccontando di un’isola edenica dove le donne “dimenticano” le violenze subite giorno dopo giorno. Chiara come il sole la metafora sulla cancel culture (ed è la cosa migliore), tanto quanto l’attacco alla corruzione tossica del maschio bianco ricco (e qui le cose sono decisamente più banali). Si aggiunge una confusione stilistica evidente e un caotica frenesia di toni (dal raccapriccio all’umoristico). Comunque meglio errori vitalistici e di eccesso piuttosto che il moralismo soap a tavolino.

LA VITA ACCANTO

La vita accanto - Film (2024) - MYmovies.it

Pluri-autorialità in conflitto. Marco Tullio Giordana, esperto in racconti dal forte intento civile e dall’afflato storico, si ritrova a gestire un dramma psicanalitico famigliare sceneggiato insieme a Bellocchio. Di conseguenza, per tutto il film, lo spettatore scopre via via la coerenza con la filmografia bellocchiana ma nota l’assenza dello stile astratto e simbolico del regista emiliano – che avrebbe scosso il pesante allegorismo del racconto per trasformarlo in un presepe famigliare da incubo. Solo la generosità delle interpreti (sugli uomini meglio tacere, persino Paolo Pierobon soccombe) riesce ad evitare lo scult dietro l’angolo.

THE BEAR 3

Non facile costruire un’intera stagione sulla stasi. Volontariamente, cocciutamente, Christopher Stoner e il team creativo decidono per un’annata meta-narrativa dove succede pochissimo e il materiale stesso rimane congelato come il protagonista Carmy. Il passato si fa ossessione, il futuro non c’è (perché non c’è nel capitalismo ansiogeno rappresentato dalla ristorazione), e il presente è un labirinto di schegge, come al solito esemplarmente raccontato dal montaggio atomizzato e dagli ingredienti che vanno provati e riprovati. Evidente, ma piacevole, il parallelismo tra cucina e set, tra piatto e sceneggiatura. E comunque, quando si presenta un episodio 6 come quello che trovate in questa terza stagione, non si può che voler bene a The Bear.

PRISMA 2

Se c’è uno showrunner che non ha nulla da invidiare ai migliori colleghi statunitensi e britannici, questo è Ludovico Bessegato. E se Skam sta cominciando a mostrare la corda per aver voluto a ogni stagione individuare un problema teen specifico, Prisma ne è l’evoluzione più convincente. In questa seconda stagione, Bessegato – dopo aver posto le basi – si sente libero di fare quello che vuole, e srotola uno stile-acquario, immersivo, dove avvenimenti, voci, volti, amori, litigi, tabù, vengono armonizzati in un potente flusso formale e musicale (per una volta, ottime scelte, non da playlist algoritmica). Al fondo, rimane comunque il segreto vincente dei primi Skam: questi ragazzi hanno qualcosa da dire, scelte da fare, identità da scoprire, e tutta la vita davanti, al contrario dei cinquantenni stanchi e imborghesiti del cinema italiano, di cui non ci frega quasi mai un tubo.

HOUSE OF THE DRAGON 2

Siamo certi che non sia facile creare progetti paralleli a partire da una grande narrazione primaria e archetipica come quella del Trono di spade. Bisogna infatti trovare un equilibrio instabile tra fan service e innovazione. Equilibrio che nemmeno questa seconda stagione trova (anzi, aveva più vivacità intellettuale la prima). Troppo parassitario il rapporto narrativo e iconografico con il capostipite e troppo legnose le contrapposizioni tra casate e pretendenti per raggiungere la temperatura epica indispensabile alla riuscita della saga. E, pur essendo una serie ad alto budget, permane la mediocrità degli effetti speciali quando ci entrano in scena i draghi, questione irrisolta del fantasy televisivo.

IL CINEMA DI FERRAGOSTO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

ALIEN: ROMULUS

Per fortuna si torna su un’astronave e si torna alla caccia. Ci sono voluti molti anni per capire che cosa fare della saga aliena, ma Ridley Scott alla produzione e Fede Alvarez in regia (e sceneggiatura) hanno trovato la quadra rispolverando l’idea originaria: un’anima interna da B-movie fortemente ancorato alla valorizzazione estetica del set. Con una storia riuscita (sia pure troppo preoccupata e parassitaria – è il caso di dirlo – nei confronti della mitologia originaria, compresi i rovinosi Prometheus e Covenant), Alien: Romulus scarta qualsiasi tentazione allegorica. Anche se ci sono un androide nero, ribelli multietnici, maternità orrorifiche, simboli fallici e vaginali a iosa, nulla di tutto questo suscita grandi metafore. Conta l’azione, come giusto che sia, e conta che mostri e umani si confrontino secondo i codici animaleschi ed elementari della selezione naturale. Adorabile il fatto che sia stato girato in Ungheria e che ungherese sia la folta troupe (compreso, al prostetico, l’ottimo Iván Pohárnok, quello di Midsommar). Si segnala una maestosa sequenza in assenza di gravità, e una Cailee Spaeny (altezza 1,55 contro l’1,82 di Sigourney Weaver: e questo cambia molto nella dinamica dei movimenti), sempre più elettrica dopo la Priscilla di Sofia Coppola e la fotografa di Civil War: quando si dice saper scegliere i film giusti.

TRAP

I due cervelli-cinema americani al momento sono Soderbergh e Shyamalan. Il secondo cerca di restare attaccato al mainstream con un doppio meccanismo: thriller/horror sempre più “estivi” (nel senso di divertissement) e teoria dello sguardo sempre più estrema. Trap raggiunge vette di consapevolezza filosofica acutissime nel momento stesso in cui mette al rogo ogni meditabonda lentezza à la The Village. Stavolta Shyamalan chiede aiuto al patrimonio di De Palma per arrivare al solito Hitchcock da una libidinosa e libidinale porta secondaria. Siamo con l’assassino? Non del tutto, ma è il killer a insegnarci che bisogna saper guardare, distogliere l’occhio dal palco e analizzare lo spazio (sociale) circostante. Solo quando anche gli altri (le altre: la popstar, la moglie, la figlia) imparano a uscire dagli schemi e dai rapporti di forza stabiliti, possono affrontare la furia omicida maschile. Povere famiglie USA, che Shyamalan fa a fettine da The Visit in poi. PS. aspiranti registi del CSC: prendete i film di questo autore per apprendere lezioni di regia inquadratura per inquadratura.

CATTIVISSIMO ME 4

Tutto dipende dalle aspettative. Se, come chi scrive, andate in sala consapevoli che l’età dell’oro dell’animazione sperimentale di massa è finita da 10-15 anni, il quarto episodio della saga (ma in verità sesto, contati quelli dei Minions) apparirà meno letale del previsto. Se invece arrivate carichi a molla e intransigenti verso le furberie Illumination, beh allora ci saranno solo irritazione e astio. La storia è scritta piuttosto male (linee narrative che faticano a convergere), ma l’aspetto ritmico/stimolativo giustamente prevale, e il tutto – inteso come catalogo di gag e accidenti – funziona come anti-depressivo cinematico e anti-spastico da grande schermo. Per il resto, che qualcuno ci salvi dai music supervisor e dalle playlist vintage sparate a palla in colonna sonora (funzionò solo nel primo Guardiani della Galassia, il resto è noia).

MILLER’S GIRL

Al minuto uno la voce fuori campo di Jenna Ortega ha già pronunciato la parola “gotico”. Pur non c’entrando nulla con il contesto (la storia di una studentessa che cerca di sedurre il professore di Letteratura spingendolo a superare i confini etici), la piccola star è immersa in un contesto fantasmatico e decadente. Ambientato in soli quattro spazi (l’aula, il giardino della scuola e le due case), questo dramma verbosamente confuso sull’incertezza delle regole dell’attrazione riesce a fallire ogni singola occasione di interesse narrativo e di sottigliezza psicologica. Attraversato da una percepibile misoginia, chiude con un finale ancora più irrisolto e ambiguo. Razzie Award in arrivo, anche per il povero Martin Freeman, incolpevole ma disastroso.

MADE IN ENGLAND: THE FILMS OF POWELL AND PRESSBURGER

A scuola di cinefilia. Il doc di David Hinton (ora su MUBI) è cinefilo due volte. La prima perché è proprio quel tipo di amore per il cinema che ci ha fatto amare Powell e Pressburger (provate a guardare senza cinefilia Scala al Paradiso o I racconti di Hoffmann e perderete tutto); la seconda è lo sguardo del narratore Martin Scorsese. Scorsese, come già dimostrato tante volte, possiede una vocazione unica per le analisi critiche dei film che ama, riempite di così tanto affetto e tale ricchezza interpretativa da diventare irresistibili. Se si aggiunge che è stato proprio il cineasta americano a “salvare” Powell dall’oblio e a dargli una nuova vita artistica, la commozione tracima (per una volta, un sentimentalismo ben riposto). La qualità degli estratti è sublime, e anche questo va apprezzato per uno dei migliori documentari sul cinema di sempre.

BABY RUBY

Inedito distribuito da Netflix, Baby Ruby è opera di una stimata drammaturga teatrale, Bess Wohl. Purtroppo è il classico caso di buone intenzioni sostenute da un impianto simbolico greve e pedante. La storia di una giovane donna, appena diventata mamma, alle prese con una depressione post-partum non diagnosticata, viene messa in scena come un delirio paranoico dai tratti orrorifici. Ciò permette a Noemie Mérlant un generoso tour de force attoriale ma perde il confronto con tutte le messe in scena traumatiche di questi anni. A proposito di maternità problematiche o negate, basta infatti citare Hungry Hearts di Saverio Costanzo, Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, Titane di Julia Ducornau, La figlia perduta di Maggie Gyllenhaal o la serie Servant per avere un ricco ventaglio di approcci al tema non banali e ricchi di metafore meno consumate.

ICONE E MONDI ALTERNATIVI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

DEADPOOL & WOLVERINE

Deadpool & Wolverine continua a sbancare al botteghino nel secondo fine  settimana

No, non è la prima volta che il MCU dimostra di aspirare a una fan base collocata all’altezza dell’enciclopedia pop di ragazzi delle scuole medie (o di adulti che ne sono nostalgici). Ma, scurrilità scatologiche a parte (mai visto un umorismo più reazionario di quello di Deadpool), l’idea di rendere testuale ogni discorso intorno alla Disney e farne un enorme giochino meta-narrativo è miserrima. Anche perché sfruttata al midollo. Il multiverso è ormai un semplice cubo che serve a recuperare qualsiasi personaggio senza nessuna regola interessante e, rispetto all’uso creativo che ne fanno per esempio gli Spider-Man animati della Sony, appare dilettantesco. Il vero discorso industriale da fare è un altro: si può notare che, dentro le IP (i supereroi Marvel/Disney), si esce dalla crisi rilanciando le poche IP che funzionano davvero. Ovvero le IP al loro interno si comportano internamente proprio come l’intera industria dell’audiovisivo quando cerca di sfruttare le IP per sopravvivere. Per il resto tra un film di due ore e un evento del Comicon ormai non c’è più una grande differenza.

DARK MATTER

Dark Matter, la serie sci-fi con Jennifer Connelly | AV Magazine

Funziona meglio il multiverso della serie tratta dal romanzo di Blake Crouch (anche ideatore). In questo caso si parla di un fisico che costruisce una macchina in grado di generare un corridoio tra mondi alternativi, e che cede alla hybris finendo col generare troppi sé stessi. Sebbene lo stile sia talmente pigro e quadrato da candidarsi ad anti-complex TV, episodio dopo episodio questa fantascienza classica conquista proprio per la sua estraneità alle mode. Molto si deve a una coppia (Joel Edgerton e Jennifer Connelly) in grado di umanizzare personaggi poco più che legnosi, ma – nel contesto della produzione streaming contemporanea, totalmente priva di bussola – il tutto trova un dignitoso posto al sole.

REALITY

I rapporti tra file audio, podcast, registrazioni, documenti sonori e cinema si fanno più stretti. E l’intreccio con il sotto-genere dell’interrogatorio (da Una pura formalità al recente Upon Entry) si staglia sullo sfondo di questo esperimento di Tina Satter, i cui dialoghi in unità di tempo, luogo e azione sono fedelmente quelli di un’indagine reale. La domanda di base (il leak è giustificato se pensi che il tuo Paese sia sotto attacco?) si perde un po’ nel meccanismo “gatto e topo” tra agenti FBI e protagonista sospettata, ma la teatralizzazione dei rapporti di potere nell’America trumpiana riesce perfettamente (a cominciare dalla stanza spoglia e disabitata in cui si svolge il colloquio). Somiglia al Soderbergh recente senza averne però la forza politica. Performance sorprendente di Sydney Sweeney.

IL CASO YARA

Chi scrive ammette un impasse. Come si recensisce una docu-serie? Esiste un’estetica del prodotto? Ha senso cercarla? In sua assenza, pare che ci siano solo due strade: quella di analizzarne i contenuti giornalistico/investigativi o quella di giudicare la caratura morale dell’iniziativa. La seconda va scartata a priori: se avete visto anche solo 2-3 docu-serie sapete che gli autori passano con un carrarmato sulla sensibilità di chiunque, pena il rischio di perdere spettatori. Sulla prima, fortunato chi ha le competenze. Resta, quindi, da parte nostra giusto qualche annotazione narrativa e cioè: se il pur discutibile Sanpa aveva dalla sua la capacità di evocare il simbolo psicanalitico di una nazione (il patriarca e i figli metaforici da salvare), qui non si intravede una polarità così intensa, e si rimane confinati alla solita, italica provincia mostruosa. Oltre ogni ragionevole interesse.

UN PIEDIPIATTI A BEVERLY HILLS – AXEL F

I danni della nostalgia pop a tavolino. Quello che, al di là del titolo italiano, chiamiamo semplicemente Beverly Hills Cop 4, è l’ennesimo tentativo di Netflix di blandire gli abbonati over 50 con personaggi e storie anni Ottanta. Eddie Murphy, che con la sua casa di produzione sta gestendo da tempo la sua icona over-60 (in un triste mix di irriverenza giovanile fuori tempo massimo e stanchezza anagrafica), cerca di fare più chiasso possibile. Tornano anche gli attori di quarant’anni fa, in una parata del rimpianto che non ha la necessaria dignità per pensarsi come orgogliosamente anziana e post(u)moderna. Certo che con lo streaming-cinema a volte il concetto di usa-e-getta assume significati cosmici.

URAGANI (DI SENSO)

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TWISTERS

Lo strepitoso capostipite di De Bont sancì il “blockbuster teorico” degli anni Novanta (meccanismi spettacolari che fungevano da documenti consapevoli dello stato dell’arte dell’effetto speciale e da meta-sfide supercinematografiche: filmare il vento una di queste). Il sequel trent’anni dopo cambia obiettivo: accenni minimali al cambiamento climatico e attenzione invece alle “due Americhe” (meteorologia scientifico/progressista contro domatori cowboy di tornado). Vincono i secondi, l’America tanto profonda e radicata da trivellare un pickup sul terreno per non farsi portare via dagli uragani (della Storia). Intelligentissimo fingendo di essere rozzo. Con un pizzico di cinefilia, tra Oz e Frankenstein.

HORIZON – CAPITOLO 1

Avremmo dovuto analizzare il doppio capitolo di quattro, ma l’insuccesso ha rimandato a data da destinarsi il secondo episodio. Del primo si può dire (a parte un curioso e accumulatorio teaser finale del numero due) che si tratta di un’opera forse leggermente diversa da quel che ci si aspettava. Assai più “manniano” che “eastwoodiano”, trova nella riflessione sulla landa e sulla proprietà un fulcro di racconto essenziale, che tiene a bada i molti satelliti narrativi centrifughi e bruscamente ellittici. Niente western crepuscolare e malinconico, molta più azione controversa e durezza da frontiera, campo in cui funziona benissimo. Lo spirito è comunque seriale a tutti gli effetti, tanto da farci chiedere (visto che la spettacolarità e il formato appaiono più claustrofobici del previsto) se non valesse la pena pensarla da subito come una serie prestige da piattaforma, ovvero ciò che Warner adesso cercherà comunque di ottenere dal girato.

FLY ME TO THE MOON

Una volta Gualtiero De Marinis scrisse di non ricordo quale film un commento che suonava più o meno: “è talmente pedante che se non capisci il messaggio viene a bussarti a casa per ripeterlo”. Ecco, il film di Greg Berlanti è così. Da una parte impagina il tutto come un classico platform movie (cioè una specie di stile da vecchio film per la TV però con valori produttivi da 100 milioni di dollari), dall’altra utilizza la storia della “pubblicità della Luna” come un lungo, snervante discorsetto sui media, sulla pubblicità, sull’America, sul concetto di falso storico. Almeno si può vedere come un “documentario” su Scarlett Johansson: i suoi oufit, i suoi accenti (in lingua originale), i suoi ritmi da screwball meritavano di meglio.

IMMACULATE

C’è che si appassiona a questo tardivo ritorno (mainstream) della nunsploitation, che però dell’epoca d’oro possiede solo le nun e ben poco del godurioso expolitation necessario. Vale anche per l’horror con Sydney Sweeney, reduce da una commedia di successo e subito affossata dal dozzinale “convento delle torture” cui non si sa bene perché si è prestata. Magari per noi italiani il tutto peggiora a causa della solita rappresentazione caricaturale della religiosità nazionale (con l’aggravio degli attori locali mal gestiti), ma anche volando più alti – pensiamo al messaggio anti-patriarcale – si rimane con un crocefisso di plastica in mano. Praticamente il peggio dell’horror commerciale mescolato al peggio del prestige horror.

GLI INDESIDERABILI

Note dolenti. I dubbi che già si insinuavano nel troppo elogiato I Miserabili (non molto dissimile dal cinema della banlieue che sembrava aver detto quasi tutto negli anni Novanta), si confermano con l’opera seconda. Sia pure aperto e chiuso da due sequenze cinematograficamente lucide e forti, il lavoro di Ladj Ly rimane ancora a un livello schematico di rivendicazione sociale e urbana. Giustissima, s’intende, ma indecisa a metà strada tra la scelta verbocentrica del socialismo di Guédiguian e l’estetismo rapinoso di Romain Gavras.

ERA MIO FIGLIO

Eccolo, il famoso cinema medio che nelle sale non esiste(rebbe) più. Ma chi se lo fila oggi, un film introspettivo, autunnale e soffuso come Era mio figlio di Savi Gabizon? Peccato, perché la storia di un padre che scopre di avere un figlio adolescente quando questo è già morto, e viaggia cocciutamente a ritroso per catturarne tracce postume, funziona come dramma che si ferma a un passo dal mélo. La recitazione implosa di Richard Gere, che dona a un personaggio di potere tutta la vulnerabilità necessaria, è a sua volta un piccolo film-nel-film. Non un capolavoro, ovviamente, ma per l’appunto quel cinema che serve (o serviva) a fidarsi del grande schermo. E delle opere minori come compagne d’esistenza.

BOTOLE CINEFILE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

HIT MAN

Clamoroso trattato sull’identità contemporanea travestito da giallo-rosa. Le botole di Richard Linklater si aprono a ogni svolta fisiognomica del protagonista, fino a farci cascare dentro anche molti avveduti cinefili. Strepitoso come si parli di filosofia nei dialoghi, ma poi si scarti in maniera evidente il bric-à-brac continentale e diventare infine un vero saggio di riflessione analitica. Vertiginoso, divertentissimo, sexy, il film vale anche come opzione meta-cinematografica, ma quel che importa è la domanda esistenziale profonda: chi sei e a quale costo sei disposto a cambiare? Occhio al finale col sacchetto in testa: si sorride ma sarebbe meglio rimanere inorriditi, a dimostrazione della splendida ambiguità dei personaggi.

A QUIET PLACE – GIORNO 1

A Quiet Place: Giorno 1, la recensione | Darkside Cinema

Sorprendente sequel ben scritto e diretto da Michael Sarnoski, che per una buona mezz’ora sembra nascondersi dentro il ben noto meccanismo fanta-horror (attacchi di alieni animaleschi e silenzio come unica salvezza), e poi vira verso una malinconica ballata sulla morte della vecchia New York e l’addio alla comunità. E sebbene si debba sospendere l’incredulità molto ma molto intensamente (l’immortale gattino che sopravvive sott’acqua), non è questo che conta. Conta il mood, espressamente jazzy. Strepitosa (la scelta di) Lupita Nyong’o, che dopo Us amplia il ventaglio della sua “alterità horror”.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA

Restaurato e immediatamente re-distribuito in prima visione, il lavoro meno “personale” di Marco Bellocchio (scritto con Goffredo Fofi a partire da una bozza di Sergio Donati) è tuttora un signor film: è vero che a impressionare di più è il clima d piombo che si respira dalle strade, dalle piazze, dai volti, ma sarebbe poco generoso buttare via l’indagine sul giornalismo bieco e schifoso della destra borghese. C’è aria di Petri, ma non è certo un difetto. Poi ovviamente è anche un tassello di Gian Maria Volonté come autore, poiché modella il suo personaggio dentro una galleria di rara coerenza e in un contesto di impegno civile oggi impossibile persino da immaginare.

FEDERER – GLI ULTIMI 12 GIORNI/JIM HENSON – IDEA MAN

Mettiamo insieme due documentari da piattaforma. Entrambi mediocri. Nel primo caso dobbiamo decidere quali occhiali indossare: da studioso di trasformazioni dei media, è interessante questa produzione sul passaggio (piccola morte?) del campione dalla carriera al post-carriera; dal punto di vista artistico, invece, il risultato è di rara pigrizia, fallendo persino l’obiettivo minimo del bromance tra Roger e Rafa, assai più riuscito nella realtà che sullo schermo. Nel caso del doc di Ron Howard invece l’interessantissimo materiale di partenza funziona nella ricostruzione della carriera di Henson e del sistema televisivo e cinematografico nel quale emerge, ma poi si (dis)perde nel biografismo più “pettinato” con interviste di atroce bruttezza.

SUGAR

Beh, se siete riusciti a non sapere nulla della serie, la sorpresa che si svela a un certo punto entra negli annali della serialità contemporanea (se qualcuno afferma di averlo immaginato in anticipo deve portare le prove scritte). Difficile parlarne senza fare spoiler. Diciamo allora che l’impianto neo-noir, sebbene appesantito dalle fighetterie in regia di Fernando Meirelles, fa perno sul personaggio principale e su un Colin Farrell in grado di esprimere alle perfezione le vulnerabilità del protagonista. La quota cinefila, espressa attraverso segmenti brevissimi di vecchi classici in B/N, per fortuna non irrita e – sempre alla luce del colpo di scena – diventa davvero curiosa per come viene giocata rispetto all’immaginario del detective.

L’ARTE DEL RACCONTARE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’ARTE DELLA GIOIA

Premesso che non sentivamo il bisogno di vedere l’estetica prestige Sky smarmellata su grande schermo con dubbi esiti estetici (viva le serie su smart TV e non al cinema!), l’adattamento di Golino da Sapienza (6 ore solo per il primo quarto del romanzo) è puntuale e al tempo stesso interpretativo. Pur senza diventare verhoeveniana, come forse avremmo desiderato, la regista si lascia prendere dal paganesimo sessuale, politico, anti-maschile dell’originale letterario e ne espone il lato feuilleton senza minimamente pensare di offenderlo – come giusto che sia. E non so quante volte di recente abbiamo visto un’attrice italiana (Tecla Insolia) così “pop porno”, maliziosa, angelicamente perfida.

INSIDE OUT 2

The “Inside Out 2” Trailer Introduces a New Emotion

Massimo risultato (leggi: incasso) col minimo sforzo. Se me lo fossi trovato direttamente su Disney+ non mi sarei sorpreso: racconto davvero rinunciatario e minimale che si limita a giocare sulle idee del primo episodio, rifiutando a bella posta di riproporne la complessità, per privilegiare una vicenda molto compatta (un weekend della nostra teen puberale in un camp sportivo) ma di respiro cortissimo. La rappresentazione di Ansia fa gol, anche se a porta vuota. La Pixar continua a deludere nei sequel, ma sono quelli che rimpinguano le casse, quindi inutile fare gli schizzinosi. Peccato solo la rinuncia – non da oggi – alla ricerca visiva, alla sperimentazione industriale.

THE ANIMAL KINGDOM

Premiato smodatamente ai César ed elogiato altrettanto eccessivamente, il film di Calley funziona molto meglio per la compattezza del racconto che per le trite metafore su adolescenza e rapporti famigliari (non c’è nessuna differenza di finezza rispetto a Twilight o Teen Wolf, salvo appunto la qualità narrativa e visiva). Anche per la Francia è un prodotto atipico, un po’ come quelli di Mainetti in Italia, che certamente non vale meno di Calley: ben vengano. Ottimi i giovani in scena, così come un Romain Duris particolarmente vulnerabile. Totalmente sprecata invece Adèle Exarchopoulos.

GASOLINE RAINBOW

Quintessenza del cinema “indie” americano, il road movie dei fratelli Ross (su MUBI) potrebbe somigliare al cinema di Chloé Zhao, ovviamente in minore se pensiamo al destino mainstream della cineasta. La fuga adolescenziale funziona soprattutto per come mette in scena una giovane nazione marginale, squat, antifa, skate, ecologista, tra attitudine punk e autarchia anti-capitalista, in giro per città e la province USA. Più filosofia di Henry Rollins che di Jack Kerouac. Pian piano, però, spira un’aria meno spontanea, forse per un desiderio legittimo di chiudere il cerchio.

IL RACCONTO DI DUE STAGIONI

La rivisitazione da parte di Ceylan delle basi universali della letteratura occidentale continua. Stavolta – dopo tanto Checov – l’autore turco guarda a Dostoevskij. Si veleggia verso le tre ore e mezzo, necessarie per esplorare il mondo sentimentalmente incerto e emotivamente limitato del solito intellettualino indeciso raffigurato dal cineasta. E sempre la Turchia viene considerata, probabilmente non a torto, lo scenario ideale e metonimico per raccontare un presente socio-politico globale, sospeso tra tradizione e modernità, populismo ed élite, desiderio e conformismo. Le variazioni di questa filmografia sinceramente ci sembrano minime, ma ha comunque un respiro enorme.

ATTENBERG + CHEVALIER

Ci piace questa idea di fare in prima visione un po’ di ricerca sul contemporaneo inedito, con azione da cineclub. Trent Film va alle radici dell’onda greca degli ultimi anni, così da ricordare che non esiste solo Yorgos Lanthimos. Athina Rachel Tsangari, tra 2010 e 2015, aveva realizzato questi due film (dichiaratamente “da festival”) dove il mix tra messinscena glaciale e analisi molecolare del capitalismo all’europea continua ad essere attuale. Tra i due, meglio Chevalier dove la satira della maschilità è rotonda e riuscita, chissà se modello anche per il più furbacchione Ostlund.

REGNI, STATI (DI CRISI) E SOPRAVVIVENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.  

I DANNATI

E se Roberto Minervini si trovasse in una situazione di impasse creativo? E con lui il cinema del reale? Con il rarefarsi delle sue regie (l’ultima, già involuta, era del 2018: Che fare quando il mondo è in fiamme?), Minervini sembra da una parte mettersi in discussione attraverso un film di finzione e dall’altra costruire un progetto molto più interessante da spiegare che da vedere. Nell’esplorazione nordista dell’Ovest, i soldati (dannati) mandati nel vuoto e nel pericolo rappresentano un western documentale, materiale, scarnificato, gravido di storia americana e di ragionamenti sulla guerra (purtroppo appesantiti da dialoghi sentenziosi, poco “minerviniani”). Tutto è ammirevole, ma tutto si riduce a un orizzonte letterario e simbolico troppo noto e su cui c’è ben poco da aggiungere – e via via ce ne si rende conto, al netto di una bellissima sequenza di agguato (sogniamo a questo punto un Minervini più sfrontatamente malickiano ed epico).

IL REGNO DEL PIANETA DELLE SCIMMIE

No, non esiste alcuna timeline razionale o anche solo funzionale per l’intera saga dagli anni Settanta a oggi. E del resto, già questo quarto capitolo della nuova serie (ri)cominciata nel 2011 serve ad azzerare o quasi il tutto, e a proiettare nuove vicende su uno scenario più semplificato: pianeta dominato da scimmie buone e cattive, con umani buoni e cattivi a resistere. Il resto sono combinazioni. Concettoso e rilassato, il riavvio di Wes Ball non ha molto da offrire in termini simbolici o spettacolari (non produce un “pensiero su Hollywood” come talvolta fanno i media franchise), ma si difende grazie a una solidità di messa in scena quasi analogica – pur con ricorso massiccio al digitale. Interessante il personaggio di Mae (che echeggia quello di Linda Harrison e il suo mutismo nei primi due capitoli d’antan) con i suoi dubbi da guerrigliera.

IL GUSTO DELLE COSE

Dominati come siamo dalla dittatura del cibo e dalla celebrità degli chef, ecco un film che spariglia totalmente le abitudini rappresentative. La storia di Bouffant e dell’amatissima sous-chef di fine ‘800 seduce non tanto per l’acquolina in bocca quanto per la dimensione filosoficamente epicurea dell’approccio e la sfrontata celebrazione della borghesia come luogo di invenzione estetica. Tran Anh Hung si conferma cineasta sontuoso, in particolare nei primi 45 minuti (la prima giornata di cucina) fatti di un erotismo palese (la mdp osserva in movimento le tante preparazioni girando per la cucina come se inseguisse gli atti sessuali di un’orgia) e considerando i sensi dello spettatore una specie di enorme zona erogena cinefila. Il resto è una storia struggente, certo, ma mai commovente come il corpo dei lucci e la cottura delle quaglie.

THE FALL GUY

Per mezzora è: una curiosa commedia del ri-matrimonio action, un originale modo di giocare con il divismo di Ryan Gosling mettendolo di nuovo in ruolo subalterno con una donna che fa più carriera di lui, un divertente meta-film che omaggia l’epoca del cinema di Burt Reynolds e l’epica dello stuntman. Finale (della mezzora) bellissimo, con la riconciliazione sul set. Poi però c’è da riempire un’altra ora e tre quarti dove non succede nulla di rilevante, con una sotto-trama gialla imbarazzante. Possibile spendere tanto e non dare un’occhiata alla sceneggiatura? Produttori crudeli, dove siete finiti?

TROPPO AZZURRO

Barbagallo è l’anti-Castellitto. Figli d’arte romani entrambi, sembrano anime opposte. Se Castellitto immagina per sé stesso un mondo cinico, pop, tarantiniano, dove il cafonal incontra il cinema d’autore più postmoderno, Barbagallo recupera (chapeau) l’immaginario narrativo ed estetico del cinema minimalista italiano morettiano anni ’80, con precisione chirurgica. Uno grida e ride, l’altro sussurra e sorride. Uno muove la mdp come un vortice e usa il montaggio come unghie sulla lavagna, l’altro punta alla trasparenza, al dialogo, al bozzetto, mette la sordina a tutto, e fa dell’irresolutezza del protagonista la sezione aurea del film. E funziona.

RIPLEY

Battuta tra esperti: “è così curata che sembra una serie di 10 anni fa”. Tornando seri: Ripley rappresenta un UFO nella serialità frammentata di oggi oltre che un’idea di racconto estraneo alle pur caotiche linee dello streaming contemporaneo. Zaillian, autore totale, identifica nel personaggio di Highsmith (un personaggio anempatico e amorale che portò il soggetto apatico novecentesco nel giallo americano) una chiave per l’anomia del presente. Più Zaillian schiaccia la storia nel formidabile bianco e nero di Elswit e nell’Italia splendente d’epoca, più dice qualcosa del nostro illeggibile presente falso-vero. Ma anche fosse solamente uno studio compositivo su come possono stare nella stessa frase Netflix e ricerca visuale, ci basterebbe.

BABY REINDEER

Curioso caso di serie che impatta tutti i temi immaginabili dell’arena quotidiana (stalking, body shaming, vittimizzazione secondaria, fluidità sessuale, cultura dello stupro, ecc.), quasi fosse un catalogo da convegno, e di serie che li mette simultaneamente in discussione. La coda (penosa) del dopo-serie, con macchine del fango e dibattiti infiniti sulla “vera vittima”, ribadiscono da una parte che il mondo è irredimibile e dall’altra che Netflix riesce spesso a diventare centro di irradiazione dei discorsi sociali e culturali del momento. In tutto questo, è difficile credere che il creatore e attore Richard Gadd non immaginasse il putiferio che sarebbe nato da una serie auto-biografica con storie così forti e accuse così nette. Non si sa se ammirarne la spericolatezza o preoccuparsi del cinismo. Difficile offrire un giudizio critico puramente testuale, che sarebbe in ogni caso positivo, pur moderatamente irritato dall’eccessiva dilatazione narrativa dell’ultimo episodio (si può rilanciare sono fino a un certo punto, se si è continuamente rilanciato sul concetto del rapporto affettivo con la stalker: message sent).

FALLOUT

Assodato ormai che la serialità sembra affermarsi come il mezzo più efficace per adattare i videogame (da Halo a The Last of Us), si apprezza di Fallout la volontà di non prendersi troppo sul serio, pur mantenendo più linee narrative potenzialmente infinite, marchio di fabbrica di Nolan e Joy. Anche se insistendo su un immaginario ormai affollatissimo (quello del post-atomico, dell’iconografia desertica, della mutazione genetica), la serie conquista via via un’autonomia estetica di tutto rispetto grazie a un approccio ironico e spregiudicato. Potremmo definirlo utilmente atompulp. Valida anche la ricostruzione dell’America alternativa del passato, segnata dal design retrofuturista.

MANHUNT

Non meno incendiario di Civil War, e altrettanto astutamente fatto uscire nell’anno delle elezioni, Manhunt ci racconta le origini dell’America in perenne secessione ideologica. La caccia a John Wilkes Booth, assassino di Lincoln, è solo una scusa per portarci nelle retrovie della spaccatura nazionale, dove il razzismo e il capitalismo oligarchico sono due facce della stessa medaglia. Interessata anche a una certa precisione nel revival della cultura materiale, e con un’idea interessante di teatralizzazione del conflitto (Booth è un attore e in vari episodi lo spazio scenico è trattato in maniera teatrale), la serie – pur con passaggi a vuoto – si impone tra le più intelligenti dell’anno.

NIENTE DA PERDERE

RIEN À PERDRE Bande Annonce VF (2023, Drame) Virginie Efira, Arieh  Worthalter, Félix Lefebvre - YouTube

Potremmo discettare sul discreto esito del film, su come narra la solitudine e la vulnerabilità della protagonista, su come cerca di capire anche il punto di vista dei servizi sociali, su come quella vita quotidiana sa di vero, ecc ecc. Ma anche questo – come altri francesi degli ultimi anni – in verità possiede un solo motivo di passione cine-corpo-filiaca e ci sentiamo di ripeterla a seguire: Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira….

DI destini, ribellioni e desideri

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

GLORIA!

Sotto il nume tutelare di Sofia Coppola e del cantautorato indipendente, Margherita Vicario inventa un racconto curioso e gustosamente anacronistico (in tutti i sensi). Mescolando contro-storia femminista e cabaret nazionale (Elio, Paolo Rossi), il Sister Act ottocentesco ha quanto meno il merito di non somigliare a nulla della nostra produzione, anticipando pop e jazz novecenteschi di un secolo, senza preoccuparsi di invenzioni melodiche “così, di botto, senza senso”. Rimane il problema di un cinema che, almeno in Italia, non sembra avere un pubblico (cosa non da poco), ma come esordio – pieno di ingenuità e non sequitur – va classificato come virtuoso.

IL MIO AMICO ROBOT

Benedetta bidimensionalità: ormai l’animazione semplice con tratti netti e sereni sta diventando un antidoto al “troppo pieno” di area Illumination. La vicenda di solitudine quasi lancinante, di surrogati affettivi, di soggettività artificiali, di coppie che non reggono lo scorrere del tempo, di queerness più riuscita di qualsiasi diversity da multinazionale, di accettazione della fine dei rapporti e di non-esclusività reciproca, di seconde occasioni e di relatività del corpo, beh, amplia la pedagogia del cartoon in maniera quasi commovente. Le citazioni (splendida quella di Lebowski, per creatività) sono la ciliegina.

ZAMORA

Un tempo si invocava in Italia il “cinema medio”. I cinefili s’incacchiavano ma tutti gli altri cercavano una terza via tra film “grand public” e radicalismi stile Alice Rohrwacher. Ecco, Zamora è questa roba qui: una sceneggiatura esatta, con caratteri quasi tutti riusciti, con una convenzionalità storica di messinscena solidissima, un ricorso intelligente al passato socio-antropologico del nord, e un elastico delicato teso tra Olmi, Avati e persino Fantozzi. E a ben pensarci, la stessa cosa si potrebbe dire dell’intera attività di Marcorè, ecletticamente in bilico tra satira deformante e tenerezza malincomica, qui eletta a regola aurea.

OMEN

Visto in una sala nella quale, quando compare la foto di Gregory Peck, uno spettatore ha esclamato “e chi c…o è?”. E in effetti, il patetico tentativo di collegare il prequel a un film che al massimo pochi nostalgici potrebbero considerare un cult la dice lunga sull’ossessione per le IP dell’horror mainstream. Certo, siamo lontani dagli abissi di spazzatura del nuovo Esorcista di Green, ma non è che le emozioni “nunsploitation” di questi nuovi/vecchi presagi siano particolarmente inquietanti. Felici di ritrovare Nell Tiger Free col suo sguardo febbrile e la sessualità problematica in pieno continuity casting, ma non ci basta.

E LA FESTA CONTINUA!

Ci vorrebbe uno come Mengele per voler male a Robert Guédiguian. A ogni film scioglie il sangue di San Gennaro della sua Marsiglia, che ha tutto il mediterraneo socialista dentro di sé. E mentre nella realtà assistiamo con le mani nei capelli alla lenta ma inesorabile agonia della sinistra europea, i suoi film estraggono storie utopiche dove le persone riescono ancora a mettersi insieme per fare qualcosa di buono, tra un bicchiere di vino della casa e una lista elettorale. In tutta sincerità, preferiamo l’autore quando va fino in fondo al sentimento della perdita (La casa sul mare, il suo migliore tra gli ultimi), ma quando vediamo Ascaride e Darroussin innamorati al suono delle note di Aznavour perché dovremmo ribellarci a questo cinema del tramonto felice?

I DELINQUENTI

Non proviene direttamente dal Pampero Cine, questo strano oggetto di Rodrigo Moreno, ma dialoga comunque con Laura Citarella e Mariano Llinás, senza nascondersi troppo – anche grazie alla presenza di Laura Paredes. Qui, con un remake stravolto e collassato a tre ore di Apenas un delincuente di Hugo Fregonese (1949), si mettono in atto le dilatazioni che abbiamo imparato a conoscere in questa vague argentina: derive lente, spirali del caso, umanissime aspirazioni che sbattono contro l’imprevedibilità del reale (o contro i propri limiti). E soprattutto la sensazione che esista ancora il concetto di destino, purché si sia disposti a cambiare se stessi, financo a gettare all’aria tutto (compreso il racconto cinematografico con le sue regole).

LO SPECCHIO SCURO DEL CINEMA FLAGRANTE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

MAY DECEMBER

Con i consueti fantasmi di Orson Welles e di Douglas Sirk a inseguirlo, Todd Haynes escogita la perfetta trappola cinefila: fare un women movie apparentemente middlebrow per poi procedere a un’analisi culturale e pulsionale estremissima. Il confronto “grandattoriale” tra Julianne Moore e Nathalie Portman, con tutti gli eccessi recitativi che si porta volontariamente dietro, scandaglia ogni tipo di perversione corporea, ageistica, sessuale, tra sociopatia e devianza, in un gioco a rimpiattino tra abusi, manipolazioni, tossicità ed estrema, infinita solitudine. Pur gravato qua e là da elementi di sceneggiatura pesantemente simbolici (la metafora della caccia e quella della crisalide), May December è una specie di pièce sulla provincia molecolare americana, e la messa in scena di Haynes nega e raffredda il mélo con capacità clinica (come se Robert Altman girasse il remake di Eva contro Eva).

PRISCILLA

Ritorno in grande stile per Sofia Coppola dopo il trattenuto On the Rocks. L’analisi biografica degli anni giovanili di Priscilla ed Elvis, tutti raccontati dal punto di vista di lei, non soltanto esprimono una rigorosa coerenza d’autore (evidenti le parentele teen con Maria Antonietta, The Bling Ring, Somewhere), ma anche una formidabile coerenza tra discorso e forme espressive. Da una parte, infatti, Coppola smonta pezzo pezzo la mascolinità di Elvis raccontando i vari stadi della manipolazione di genere e dell’abuso di potere psicologico (grooming, mansplaining, gaslighting, ecc.); dall’altro questa disparità assume i connotati di una favola mostruosa con sproporzioni eccessive (l’altezza dei due), ossessioni dello spazio interno (la camera da letto come prigione), giochi di ruolo orrorifici (le mascherate di Elvis come travestimenti psicotici del carnefice), passerelle di sguardi (Priscilla alle prese con l’osservazione collettiva dell’ensemble maschile di amici di Presley). Acutissimo, inoltre, il discorso sulla celebrità vista dall’interno di un mondo domestico, dove non si è abbastanza vicini alla stella per goderne la luce (al massimo per “tenere acceso il focolare”) ma non abbastanza lontani per evitarne le conseguenze nefaste.

KUNG FU PANDA 4

Ce n’era bisogno? Decisamente no. Funziona? Decisamente sì. L’animazione blockbuster sta facendo una grande fatica – complici pandemia e destrutturazione del mercato family – a costruire nuovi prototipi (leggi: franchise). E quindi ecco rispolverati i campioni d’antan. Ma, una volta appurata la natura puramente derivativa (“trovate una qualsiasi idea pur di riportare Po sullo schermo entro il 2024!”), bisogna ammettere che si riconferma l’abilità in scrittura, più che nel reparto grafico, degli autori: personaggi riusciti, gag spesso esilaranti, citazioni gustose (la baracca traballante di La febbre dell’oro), qualche allusione al populismo e al trasformismo del caos geopolitico internazionale. Certo però che i tempi in cui Kung Fu Panda stimolava le riflessioni di Slavoj Žižek son belli che andati.

UN MONDO A PARTE

Se Bisio ha interpretato il desiderio di negoziazione geo-culturale (Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord) e Antonio Albanese quello della riconciliazione tra élite e popolo (Un gatto in tangenziale uno e due), ora quest’ultimo sloggia il primo nel suo stesso territorio. Più che settentrione e meridione, però, qui si tratta di “nuovo localismo”, con un confronto tra città e piccolo borgo, e annessa questione scolastica. Scoperte le formule (che, ci mancherebbe, devono esserci nella commedia), si può apprezzare uno script assai brillante, che vive del rigenerante apporto di caratteri e caratteristi abruzzesi, con una serie di gag, parodie sociali e paradossi culturali ingegnosi. Al solito, quando arriva il momento della pedagogia dei sentimenti, si eccede e il terzo atto diventa un percorso di riparazione ai rischi di lacerazione satirica del resto del film. Pur rimanendo curiosi di sapere cosa ne avrebbero fatto con più cattiveria i maestri della commedia all’italiana (magari con un Manfredi perfido), si dia il giusto merito a Riccardo Milani, autore lucidissimo di prodotti dignitosi e necessari al box office.

GODZILLA E KONG

Il Monsterverse di Legendary e Warner prosegue la sua corsa, riservando alle serie streaming qualche cura narrativa in più (il non disprezzabile Monarch) e lasciando alla sala cinematografica lo spettacolo villano del wrestling tra mega-mostri. Nulla di male – tanto più che, come ci spiegano gli analisti, si tratta di un cinema un po’ orfano, che porta in sala cellule dormienti di spettatori non sempre invogliati dalla formula del blockbuster d’autore stile Villeneuve. Qui si va giù pesante, insomma, rozzi quanto basta per non imboccare il sentiero della metafora ideologica (che pure ci tenterebbe). Piace, di Adam Wingard, lo sprezzo per i freni inibitori e la passionaccia per l’avventura esotica, con tanto di regni perduti, civiltà sepolte, varietà fantasiosa di creature (tra cui un messianico Mothra). Momenti di assurdo volontario: Kong dal dentista e Godzilla che ronfa al Colosseo.

IL TEOREMA DI MARGHERITA

I feelgood movies esistono anche nel cinema d’autore. Lo dimostra il raccontino su matematica e sentimenti di Anna Novion, che si situa nel sottogenere del cinema “aritmetico” con tutti i suoi stereotipi kitsch: la protagonista secchiona, la sfida risolutiva di stampo enigmistico ed epico, l’intreccio di amore e numeri primi, e tutto il bric-à-brac metaforico cui siamo abituati da anni. Non si vede certo con dispiacere, a patto di non farsi buggerare dalla seriosità e prenderlo alla stessa stregua di un film con mostri mitologici che si prendono a botte, con un secchio di popcorn in grembo.

ANOTHER END

Il tiro al piccione sulla fantascienza meditativa di Piero Messina è stato un po’ impietoso. In verità, sebbene derivata da una lunga serie di precedenti (a cominciare da Alps di Lanthimos), la storia dei corpi vicari che prolungano l’esperienza di chi vive un lutto ha un discreto tasso di densità narrativa. Forse c’era bisogno del coraggio di andare fino in fondo – una “commedia del rimatrimonio” con una moglie morta e un corpo sostitutivo – ma anche in questo caso il dialogo sentimentale fra trapassati non è cosa che si vede tutti i giorni. Lo stile è quello del cinema d’autore internazionale co-prodotto, con quell’idea che la fantascienza filosofica dev’essere per forza geometrica a glaciale.

ORLANDO MY POLITICAL BIOGRAPHY

Paul B. Preciado è uno di quei pochi pensatori inarrestabili che si merita l’abusato detto che “se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”. E, a proposito di invenzione, questo film/intervista/performance/documentario/saggio è inclassificabile e forse anche un pizzico sottovalutato. Partendo dal “mistero teorico” del romanzo di Virginia Woolf (un testo di enorme complessità che però è capace quasi cent’anni dopo di parlare a tutte le identità non binarie di oggi), lo scrittore e filosofo imbastisce una galleria di personaggi più veri del vero, dando loro voce e facendo una specie di lezione peer to peer di presa di parola biopolitica. Magari non un turning point ma un testo dove la densità teorica sfocia in flagrante trasparenza cinematografica.

SCANDAGLIO DI PIATTAFORME TRA DESIDERI E IDENTITÀ 

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. Questa settimana ci dedichiamo principalmente alle piattaforme.

SUPERSEX

D’accordo che la società Groenlandia sa il fatto suo quando deve scegliere storie attraenti e realizzare prodotti seriali con fiuto global (prima di questo, Lidia Poët): l’astuzia produttiva per chi scrive è sempre un valore. Ma i limiti di Supersex non sono solo tecnici (dalla recitazione mimetica a occhi spalancati e ghigno maialesco di Borghi al risaputo vintage pop di sapore Sibilia/Rovere come se fosse un Mixed by Rocco). A mancare è proprio uno sguardo onesto sul porno, di cui mancano (pur in un tripudio di nudi ansimanti) sia la potenza oscena sia la miseria deprimente – che c’erano, per esempio, nel pur imperfetto Pleasure di Ninja Thyberg del 2021. Così tutto diventa un “vorrei ma non posso”, con una parte di letteratura d’appendice matarazziana in realtà lagnosissima (la prostituta idealizzata di Jasmine Trinca, gli occhi della mamma, il modello mascolino fallito del fratello) e un’altra di riflessione sul godimento femminile cui non basta la scrittura giustamente affidata a una creatrice come Francesca Manieri. Una serie dalla struttura generalista sul c….o di Siffredi era una scommessa folle, ma ci voleva allora un approccio ben più visionario e (s)porco. E che ci stanno a fare le piattaforme come Netflix se poi si gira col freno a mano?

UN AMORE

Di sesso ce n’è anche qui, forse più del previsto. E anche in questo caso si testa il fragile “star system” nazionale alla prova della serialità, qui nell’area nobile e “prestige” di Sky. Al di là del titolo ormai abusato (e quanta nostalgia per l’omonimo mélo di Tavarelli del 1999), Un amore è un altro caso di modello trattenuto. Bisogna dire, però, che Audenino creatore e Lagi in regia non paiono almeno aver avuto timore di pescare da un certo gusto rétro alla Lelouch (che è parso il modello più evidente) e che Accorsi/Ramazzotti – fuor di ironie degli esterofili a tutti i costi – tengono su la baracca anche quando piove dal soffitto (narrativo). Dilatato all’impossibile, con troppi droni e troppi scorci emiliani, la miniserie cade comunque in piedi – bisogna però misurarne l’impatto, la sensazione è che molte serie italiane rischino una rapida irrilevanza.

ROADHOUSE

Come ha già fatto notare qualcuno, non è chiarissimo (se si esclude la morte prematura di Patrick Swayze) perché Il duro del Roadhouse sia diventato oggetto di nostalgia al punto da progettarne un remake. Un Jake Gyllenhaal leggermente fuori età lo sostituisce in ambiente più soleggiato (Florida), con un’accelerazione – letterale, considerati i vistosi interventi in postproduzione – di scazzottate e scontri fisici. Di certo non si può accusare Doug Liman, un tempo rispettato dai cinefili, di essersi preso troppo sul serio. Dobbiamo apprezzare l’autoconsapevolezza di questa vocazione allo svacco, al cinema scervellato, al film-pinta di birra, al cinema-MMA, ad Amazon che imita un Bud Spencer strafatto di anfetamina in go-pro? Mah.

EXPATS

La creatrice Lulu Wang è quella di The Farewell (caso del 2019 leggermente meno fortunato di Past Lives ma non troppo). Qui adatta un romanzo di Janice Y. K. Lee, in un tripudio di identità nazionali e culturali: americani e inglesi a Hong Kong, coreani e filippini che affrontano il passaggio dell’ex colonia alla Cina, e in generale un crogiuolo di tensioni geo-sociali che impattano sulla vita dei protagonisti. La formula è il “melodramma di prestigio”, con pesanti problemi di credibilità (Nicole Kidman fuori età) e non richiesti simbolismi. Bisogna però ammettere che il contesto è originale, e tutto sommato propone anche una terza via al globalismo delle piattaforme, dove – invece che reagire all’allocazione dei fondi produttivi – si cerca di ragionare sulle potenzialità dei racconti di migrazione (anche se di livello alto borghese).

NOTRE CORPS

Esce su MUBI un doc che si candida ad essere tra i film più importanti del 2024. Claire Simon parte con un’idea semplice ma potente (osservare il corpo delle donne “medicalizzato” all’interno di un importante ospedale – tra visite, esami, diagnosi, riflessioni sul sé e sulla salute), e giunge poi a un colpo di scena imprevisto (la propria malattia, che affida anch’essa alla macchina da presa). Ne esce un lavoro che va oltre Wiseman e pone domande frontali e fortissime sulle donne, girando peer to peer un’osservazione al tempo stesso pudica e sfrontata, delicata e nuda, dove i ruoli – inizialmente distanti – finiscono col ribaltarsi (su spettatrici e spettatori). Bisognerà riparlarne con calma.

FUMARE FA TOSSIRE

Grazie alla piattaforma I Wonderfull si possono recuperare vari, recenti inediti di Quentin Dupieux (tra cui anche l’eccezionale Incredibile ma vero), un autore totale e tutt’altro che riconducibile al demenziale che esibisce. Anche qui i meccanismi più deliranti (una banda di supereroi deficienti che, mentre salva il mondo, racconta intorno al fuoco alcune storielle descrivibili come un creepshow ideato dai Monty Python) nascondono un animo profondamente kafkiano. E in mezzo a splatter, parodie, elementi da film di serie Z e famosi attori che stanno al gioco, si fa strada un infinito pessimismo umano e sociale, cui solo lo sberleffo dona elementi di un vitalismo degno di esistere.

CRIMINAL RECORD

Il crime seriale inglese occupa un posto tutto suo nel ricco panorama di genere. Questa serie (visibile su Apple TV+) mette in fila figure carismatiche come Peter Capaldi e Cush Jumbo dentro una vicenda nera di femminicidi, tensioni etniche, abusi di polizia, razzismo e depistaggi. La Gran Bretagna post-Brexit che ne viene fuori è particolarmente violenta e oscura, mentre la sfiducia nelle istituzioni rischia di avvelenare anche le comunità inter-razziali o annichilire ogni speranza di riforma interna (comunque affidata a donne, e ancora meglio a donne nere). Non tutto funziona, specie un ultimo episodio deludente e involuto, ma se si guarda all’affresco più che al plot vale una visita.

THE CURSE

Questa la teniamo per ultima solo perché la recensione è in grave ritardo, ma si tratta di una serie tra le più imprevedibili e clamorose della stagione. Complice una Emma Stone sempre più selvaggiamente spericolata (qui nuovamente produttrice e attrice), questa parodia nera e rovinosa dei factual si estende a una lettura isterica dell’America contemporanea dove non ce n’è proprio per nessuno. E se la lunghissima durata (della serie e anche dei singoli episodi) offre tutto il tempo ai fratelli Safdie a a Nathan Fielder (poco conosciuto da noi) per imbastire un racconto surreale, satirico, quasi un horror sociale sul capitalismo post-pandemia, nulla può comunque preparare al disagio inquietante dell’ultimo episodio. Che lasciamo scoprire a chi ancora non l’ha vista (su Paramount+).

MEMORIE PERDUTE E DISTOPIE DEL DESIDERIO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

DRIVE-AWAY DOLLS

Eccoli, i Garage Days Revisited di Ethan Coen. Inutile cercare la cattedrale dei fratelli qui dentro, o un’americanologia simile a quella cui siamo abituati. Coen single recupera uno script ideato insieme alla moglie (scrittrice e montatrice) Tricia Cooke, ambientata nel 1999, e si diverte a fare un film mezzo punk e mezzo indie che ha come unico interesse il piacere filmico di rinverdire una tradizione di orgogliosa serie B. Certo, la sgangherata jam session lesbica si diverte a retrodatare certe correnti culturali ma sempre col sorriso goliardico stampato in bocca. Si alternano schegge di Russ Meyer, visioni alla Kenneth Anger, liquami mentali da LSD, scorribande suburbane alla John Waters, un pizzico di Willy il Coyote, il noir e – ovviamente – stracci di Lebowski, Blood Simple e Arizona Junior. Tutto, però, sarebbe stato meno efficace senza una strepitosa Margaret Qualley, sempre più a suo agio negli Stati Uniti dai tratti isterici. 80 minuti, giustamente. Di pura rigenerazione dal basso.

MEMORY

Fa piacere il ritorno del melodramma sotto varie spoglie (vedi anche Estranei e – solo in parte – Past Lives). Michel Franco, non certo un regista timido (nel bene e nel male), si trova al suo primo vero film hollywoodiano con star (almeno Jessica Chastain) e intesse una struggente storia d’amore tra una donna abusata e un uomo in precoce stato di demenza progressiva. Mentre le tragedie si accumulano, le verità nascoste emergono, la salute peggiora, gli spettatori più scettici mollano il colpo e i cinefili “melomani” invece cominciano a godere. Lei migliore di lui (Peter Sarsgaard) che pure ha vinto a Venezia, esageratamente, la Coppa Volpi 2023.

AMERICAN FICTION

L’enorme successo di questa satira contro gli stereotipi neri portati avanti dalla stessa letteratura black – e amati principalmente da un pubblico bianco progressista accademico – sembra quasi mostrare l’esigenza di una risata liberatoria nell’epoca delle guerre culturali. Se non fosse arrivata dall’interno del mondo nero intellettuale, ovviamente sarebbe apparsa irricevibile. Detto ciò, il film è molto più complesso del previsto. Al di là dei dialoghi brillantissimi e di un cast in stato di grazia, le evoluzioni narrative non sono semplicistiche (il finale è amarissimo: la coppia non riconciliata, la scrittrice star snobbata dal protagonista sessista, il mondo del cinema in mano a registi bianchi). E tirare una satira per 100 minuti è affare complesso, perché deve trasformarsi in una commedia senza perdere il veleno. Il vero peccato è la pigrizia di regia: non era il tipo di film da virtuosismi estetici ma tutto è sacrificato alla scrittura e alla direzione degli attori.

CARACAS

I romanzi di Ermanno Rea sono esplorazioni antropologiche di Napoli. L’erranza e la dimensione memorial-saggistica sorreggono trame a volte molto esili. Vale anche per Napoli ferrovia, dove l’amicizia tra opposti (un vecchio intellettuale comunista e un uomo più giovane, fascista senza un vero perché) serve a imbastire un dialogo quasi mitico dentro il consueto contesto del nostos cui Mario Martone in Nostalgia (ancora da Rea) aveva offerto più degna trasposizione, consapevole che la chiave fosse nella rappresentazione della città sospesa tra radici ancestrali e immobiliarismo criminale. Se perdiamo tanto tempo a contestualizzare è perché di Caracas non c’è molto da dire; siamo molto dispiaciuti che un frutto autoriale di Napoli come Marco D’Amore non abbia trovato nessuno degli strumenti necessari per trasporre (e comprendere) Rea, finendo col concepire un film dagli effetti emotivi superficiali e senza un vero progetto di messa in scena.

ANCORA UN’ESTATE

Clamoroso ritorno di Catherine Breillat con una storia che inganna i pigri e acceca i meno attenti. Nella vicenda della passione sensuale che esplode tra una donna matura e il figliastro non contano (solo) le dinamiche sociali e le cornici narrative apparentemente anti-borghesi. Si tratta invece di un esperimento eccezionale di sguardo frontale e disvelante di personalità incapaci di definirsi se non attraverso l’altro. Tramite scene di sesso veritiere e inquietanti (come sempre in Breillat), seduzione e campi di forza, verità e menzogne, godimenti e pentimenti sembrano essere l’unica cosa per cui vale la pena vivere dentro una pulsione al vuoto, al niente, che soggiace all’esistenza contemporanea. E così tutto il cinema dell’amour fou francese, tendente all’omologazione e alla retorica, viene decisamente rinnovato, rigenerato e scosso come si fa con un ramo pieno di foglie secche. Il finale, come già notato da altri, è da antologia. Léa Drucker, insieme a Virginie Efira e Léa Seydoux, costituisce ormai un pantheon di corpi/star perturbanti del contemporaneo transalpino.

SULL’ADAMANT

Orso d’oro 2023, forse un po’ eccessivo, per un film comunque nobilissimo che riconferma la ricerca di Nicolas Philibert. Questa chiatta sulla Senna, vera e propria arca dei disperati, in cui fare osservazione (partecipata) del disagio psichico e della sua gamma di sensibilità è in fondo una specie di risposta documentaria al grande cinema fluviale di Epstein o Vigo. Tuttavia, qua e là si ha la sensazione che stavolta il punto di vista dell’autore resti un po’ appannato, indeciso tra una de-estetizzazione in forma di rispetto per i soggetti e un abbandono alle suggestioni narrative, personaggistiche, psicologiche che la materia suggerisce. Giusto per trovare il pelo nell’uovo, s’intende.

SPACEMAN

Difficile trovare un potenziale più irritante e molesto del progetto di questo sci fi d’autore Netflix, a metà tra retrofuturismo e steampunk in stile est-europeo. Aggiungiamoci in regia un autore di videoclip (e musicista) svedese come Johan Renck. Mettiamoci come carico un terzo atto di misticismo kubrickiano, con astronave alla deriva (e più di un contatto con Silent Running di Douglas Trumbull). Ne esce la tempesta perfetta del film hipster. E lo è. Salvo che qui a bottega non lo abbiamo affatto disprezzato, vuoi per una bellissima love story queer tra il protagonista e un ragno gigante, vuoi per l’ennesimo personaggio malinconicamente fallito di Adam Sandler, vuoi per la Cecoslovacchia ucronica che qualcosina ci dice anche sulle catastrofi del nostro infelice presente.

FANTASMI D’AMORE E PAURE ANCESTRALI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.  

TRUE DETECTIVE – NIGHT COUNTRY

Premessa: chi scrive non considera il primo True Detective qualcosa di epocale, se non per la storia culturale del prestige e del “cinematismo” nelle serie televisive. La pessima riuscita del due (soprattutto) e del tre (meno, ma comunque involuto), aveva abbassato le mie attese sulla quarta parte antologica fino a sfiorare lo zero. Sarà per questo che alla fine la sensazione del bicchiere a metà (ovvero non vuoto) prevale. Una sontuosa Jodie Foster – con annesse microcitazioni da Il silenzio degli innocenti – e un’ambientazione molto riuscita hanno convinto, sebbene la vicenda si ingarbugli sino a un finale poco soddisfacente. E anche dello spazio lasciato al soprannaturale, lasciando allo spettatore decidere quando e quanto crederci, non si sentiva il bisogno. In pratica, una stagione da godere più come esperienza immersiva (nel mondo dell’Alaska noir) che narrativa. Il sottofondo mistico-conservatore (e vagamente anti-scientista) si ricollega al millenarismo delle origini, ma un pochino preoccupa lo stesso.

LA NATURA DELL’AMORE

La distribuzione Wanted si è dichiarata giustamente dispiaciuta del disinteresse suscitato dall’esordio di Monia Chokri. Problemi di circolazione dei film, certo, ma anche di come intercettare il pubblico giusto. Questo strano dramma ironico e romantico individua una cifra sottilissima (una sorta di parodia dei dualismi d’amore che tiene conto consapevolmente della storia del cinema sentimentale) che alterna uno sguardo trasparente a un altro che sembra commentare ironicamente gli avvenimenti che vediamo – un po’ come succede in Past Lives ma caricando sullo humour invece che sul pathos. Alla fine, tra amplessi travolgenti e stereotipi binari, si fa strada una malinconia assoluta sui nostri desideri impossibili e su quanto la realtà, col tempo, deluda chi “se l’era raccontata”. Luminosa, sensuale e da seguire d’ora in poi la protagonista Magalie Lépine-Blondeau.

FINALMENTE L’ALBA

Che cos’era Cinecittà all’epoca d’oro? Un labirinto (di immaginario), un baraccone (di cosmopolitismo all’amatriciana), una parodia di Hollywood o un luogo di crudeli rapporti di potere? Tra tutte queste interpretazioni possibili, Saverio Costanzo sembra non saper decidere quale privilegiare. Eppure, con un occhio a L’amica geniale (che specie nella prima parte pare non aver abbandonato l’estetica dell’autore) e uno a Babylon, il C’era una volta il cinema di Costanzo pecca di generosità invece che di spocchia, spingendo a giudicarlo senza cinismo. Fellini, Visconti, Leone (e Sorrentino) scorrono sullo sfondo, ma ciò che conta non è il citazionismo (purtroppo da manuale introduttivo) quanto la claustrofobia che contrasta con la grandeur, forse la lettura più originale di anni Cinquanta altrimenti poco credibili.

ORIONE E IL BUIO

Oltre a offrire un titolo eccezionale (metafisico e concreto insieme), il nuovo Dreamworks su Netflix, sceneggiato niente meno che da Charlie Kaufman, non delude le attese. La mossa principale, semplice quanto inedita (non sarebbe forse dispiaciuta alla Pixar) è di rendere il Buio un personaggio, tra l’imbranato e il solitario, in cerca d’affetto. Il superamento delle ansie del piccolo protagonista, in compagnia di un vero e proprio “team” della notte, diventa un curioso romanzo di formazione psicologica infantile, nel quale a un certo punto è la luce a fare paura. Il tocco di Kaufman (che trae il tutto da un noto successo editoriale) è di trasformare la progressiva moltiplicazione delle cornici narrative in qualcosa di fluido e appassionante. Certo, rimane la sensazione che le piattaforme abbiano frammentato l’intero mondo dell’animazione, che ha l’aria un po’ smarrita. Ma a volte gli esperimenti (produttivi e distributivi) funzionano bene.

VOLARE

Buy esordisce dietro la macchina da presa, si mantiene anche davanti, e gioca con la “politica dell’attrice” che l’ha vista inchiodata per anni ai ruoli di insicura nevrotica. La fobia dell’aereo è alla base dell’esilissimo racconto, che all’inizio pare offrire un respiro ampio da sophisticated comedy (rara in Italia) ma poi rovina tutto “chiudendosi” in un hangar di fobici bislacchi che sembrano usciti direttamente dal tardo cinema di Carlo Verdone. Se si aggiunge l’ossessionante spot per la compagnia nazionale di volo e un terzo atto risolto frettolosamente, alla fine quell’ipotesi di un cinema intimo e prezioso (alla Gianni Di Gregorio) evapora insieme al racconto.

NADA – NOTHING

Tra le meno discusse del momento, c’è anche un’intelligente serie argentina su Disney+. La firma, in verità, è garanzia di gusto: Cohn e Duprat, quelli di Il cittadino illustre e Finale a sorpresa. Pur essendo una comedy di pochi episodi, i due cineasti confermano la sontuosità di messa in scena e la riflessione sull’arte (in questo caso culinaria) nel paradossale mondo contemporaneo. Il dandy protagonista, critico di ristoranti e scrittore anzianotto, funziona alla grande nella sua adesione isterica a una Buenos Aires dalla natura matrigna, e quando poi viene raggiunto dalla guest star Robert De Niro, il gioco di specchi tra immaginari si colora anche di una vena umoristicamente malinconica. Da recuperare.

CONFINI, SOGLIE, STECCATI TRA CINEMA E GENERI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.  

GREEN BORDER

Ci vuole una piccola, ma essenziale, preparazione geopolitica per comprendere ciò che accade al confine tra Bielorussia e Polonia, e il perché della beffa finale rispetto ai profughi ucraini. Ma è l’unico ostacolo di un film il cui difetto principale è proprio il contrario, ovvero un didascalismo di fondo faticosamente nascosto tra i rami e le fronde del bosco di confine. Ammirevole, giusto, forte, il discorso di Holland dimentica però di trovare una chiave stilistica, affidando al bianco e nero e alla camera a mano sia l’estetizzazione sia il “morso di realtà” rispetto all’inumano trattamento dei migranti in Europa. Più interessante la scansione in capitoli, sorta di polifonia romanzesca dove si mescolano i punti di vista, a costo di dimenticare per strada qualche personaggio per troppo tempo. In ogni caso un peccato la scarsa promozione, con conseguente insuccesso in sala.

UNA BUGIA PER DUE

L’antipatica sentenza sarebbe la solita: “un tipo di film che in Italia non sappiamo fare”. Quale tipo di film? Una commedia di sceneggiatura a fior d’acqua che, come nella canzone leggerissima di Colapesce/Di Martino, in verità contiene un’estrema malinconia. Ed esamina un bel pezzo di società francese, con tutti i suoi stereotipi e tutto l’opportunismo che il lavoro contemporaneo suggerisce. Il giovane avvocato che approfitta di una malattia (che in verità non ha) per fare carriera sarebbe stata feroce se monicelliana, ma funziona lo stesso anche graffiando senza infierire.

HOW TO HAVE SEX

Per motivi distributivi (esordio di una giovane regista inglese, marchio MUBI, storia ambientata in un non-luogo vacanziero) il film di Molly Manning Walker rischia di essere confinato al confronto (in perdita) con Aftersun. Evitando i paragoni, invece, il coming-of-age di tre adolescenti di periferia nel tipico “macello ormonale” di Creta, pur sembrando un po’ programmatico – anche nell’ossimorica costruzione dell’autenticità – via via si complica, si annerisce, sfugge al rischio di cinemino a tesi. Ed esplora i confini della sessualità e del consenso con una precisione che ammette le sfumature e rinuncia al pedagogismo di moda oggi.

UPON ENTRY

Cinema della claustrofobia (che poi diventa esteticamente claustrofilia), assai cinefilo per come valorizza il budget lillipuziano e per come fa circolare aria da B movie pur di denuncia. Il film-interrogatorio non è cosa nuova (da Guardato a vista di Miller a Una pura formalità di Tornatore) ma qui ci si smarca sia dal noir sia dal racconto metafisico della notte buia e tempestosa. Il racconto ambientato nel confine aeroportuale diventa politico, le domande ribaltano identità culturali e identificazioni psicologiche, in 77 minuti tiratissimi che fanno bene allo spettatore.

LE AVVENTURE DEL PICCOLO NICOLAS

Terzo film della serie di Nicolas, spesso un po’ snobbato anche dagli esperti di animazione per la sua fin troppo impalpabile raffinatezza e per l’indirizzo apertamente infantile. Questo sequel, però, è una sorpresa: pur mantenendo toni e timbri lievi, riesce nell’impresa di non rendere indigesto l’impianto meta-narrativo dei due creatori che dialogano con il proprio personaggio. Anzi, tutto diventa più sorprendente (e graficamente vario), permettendo persino ai traumi della storia francese di fare capolino, tra infanzie perdute, infanzie nostalgiche e infanzie da costruire.

TE L’AVEVO DETTO

Perché tanto odio? Si rimane basiti di fronte alle umiliazioni che Ginevra Elkann fa subire ai suoi personaggi femminili. Questione di gusti, per carità, ma deformare Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino fino al sordido funzionerebbe se ci fosse un progetto di sovversione freak del nostro cinema d’autore. Invece è solo un’altra ondata di calore (dopo quella di Siccità) buona per intrecciare episodiche vicende di persone infelici, scontente o più facilmente patologiche. Progetto incomprensibile, e del resto rifiutato in blocco dal pubblico.

TUTTI TRANNE TE

Nessuno lo ha visto arrivare, il successo di questa rom com. Cui diamo il bentornato, visto lo stato di crisi (o di coma) del genere. Non che ci sia da strapparsi i capelli dalla gioia, visto l’esito. Si tratta di un cine-bacio di San Valentino dove due attori non particolarmente dotati – se non di bellezza – danno vita a una specie di strano ibrido tra Nora Ephron e Tempation Island. Buone notizie ce ne sono poche, forse l’unica è proprio il fatto che la commedia romantica torni in sala e abbandoni il triste declino dello streaming usa e getta. Tuttavia, cercansi sceneggiatori in gamba e soprattutto interpreti che valgano almeno un’unghia di Meg Ryan, Julia Roberts, Hugh Grant, Tom Hanks, Billy Crystal.

RACCONTI PRIVATI TRA UMANESIMO E FARSA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

THE HOLDOVERS

Autore sensibile, ma quasi condannato a una empatia controllata che non si trasforma mai né in mélo esplicito né in drama dal consapevole gusto hollywoodiano, Payne porta avanti una filmografia tanto coerente quanto poco incisiva. Lontani i tempi urticanti di Election, la scuola ridiventa sfondo per un racconto che gioca di sponda tra umanesimo salingeriano e cinema anni Settanta, evocato però superficialmente, forse soffrendo di un complesso di inferiorità verso Paul Thomas Anderson (che sembra uno spettro che si aggira minaccioso per il film, capace di costringere Payne alla timidezza). Ovviamente, nessuno nega si tratti di un lavoro di qualità, dalla direzione degli attori alle finezze narrative e psicologiche, ma il rischio di smussare gli angoli a forza di tenerezza è quello di disperdere un talento su cui si avevano ben altre aspettative.

YANNICK

Ormai bisogna prenderlo sul serio, Quentin Dupieux. Autore totale e ambizioso (anche se l’apparenza è opposta: un regista sornione, parodistico, che sovverte i canoni della seriosità francese), questa volta racconta – con mirabile unità di tempo, luogo e azione – una ribellione spettatoriale che diventa ambigua riscrittura umoristica della solitudine. Ma mentre altri si sarebbero accontentati di un gioco pirandelliano, magari anche gustosissimo, Dupieux riesce a spiazzare le attese, seminare domande più che risposte, farci dubitare del sistema estetico in cui viviamo, e sfiorare anche il tema del populismo – senza ditino alzato. Appena sotto Mandibules e Incoryable mais vrai, ma sempre ad alta quota.

I SOLITI IDIOTI 3

A proposito di toni finto-demenziali, certo Biggio e Mandelli non sono Dupieux ma giocano su un campo non troppo dissimile. Unici comici in Italia oggi che flirtano con il pecoreccio e l’escrementizio (il paragone più utile è Sacha Baron Cohen), costruiscono – se si sta al gioco – un film a tratti esilarante, dove il nichilismo corrisponde a una precisa visione (apocalittica) del presente. Il turpiloquio diventa pura surrealtà, e le gag – pur spesso riciclate dai personaggi ben noti (tornati per rilanciare il duo) – funzionano spesso. C’è poi la sequenza al museo che vale il biglietto, per come satireggia il sistema sempre più autoreferenziale dell’arte (super)contemporanea.

FARGO 5

Dagli idioti agli stupidi (buoni e cattivi) che popolano come sempre la serie di Noah Hawley. Lo showrunner, consapevole di aver smarginato in territori troppo sbadati nella quarta stagione, torna sontuosamente con un racconto denso e fantasioso. Al centro, l’americanologia aggiornata al trumpismo, dove vengono messi a confronto un populismo buono, un militarismo biblico e un’imprenditoria cinica – che però sa riconoscere ciò che è importante salvaguardare quando tutto va a rotoli. Come al solito, la filmografia coeniana è saccheggiata in orizzontale, e le due protagoniste (con menzione d’onore per Juno Temple) meritano il piedistallo.

MONARCH

Sinceramente ben pochi avrebbero scommesso un soldo bucato su una serie spin off del già non irresistibile (eufemismo) MonsterVerse di Warner/Legendary. Certo non è un capolavoro, ma bisogna ammettere che questa serie a zonzo tra gli anni ’50 (con aggiornamento realistico della FS d’epoca) e presente alternativo funziona meglio del previsto. Il budget non può essere gigantesco, quindi i mostri si vedono pochino, ma basta Kurt Russell – con figlio clone come coprotagonista – a fare simpatia, tra ricordi carpenteriani e un’attitudine da B-movie più sincera di quella dei lungometraggi collegati.

SKAM 6

L’interesse verso Skam sta vertiginosamente scendendo, lo si capisce a livello empirico (e i dati confermano). Peccato perché il disimpegno dei giovani spettatori sembra dovuto alla mal sopportazione verso un difficile transito verso nuovi volti, nuove storie, nuove atmosfere (lontane dagli esordi). Ma, anche se è possibile che la serie di Bessegato stia diventando un plaesure consapevole per spettatori anagraficamente maturi, bisogna concedere l’onore delle armi. Non tutto funziona, e la casistica dei disordini patologici adolescenziali rischia di limitare la freschezza degli argomenti. Detto questo, si continua a restare a livelli che gran parte dei teen drama nazionali si sogna, specie per direzione degli attori e credibilità dell’universo messo in scena.

(IM)PERFEZIONE DEL CINEMA E POLITICHE D’AUTORE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. In questa puntata, solo tre titoli affrontati un po’ più a lungo.

PERFECT DAYS

Ritorno in grande stile di Wim Wenders dopo alcuni anni di appannamento (in particolare nel cinema di finzione, mentre nel campo del documentario si erano viste cose buone, anche se non all’altezza del compagno di strada Herzog). Perfect Days spiega la differenza tra film “buono” e film “buonista”, depurando ogni forma retorica di feelgood movie attraverso una strategia di “rarefazione ripetitiva” che – proprio attraverso la scansione della giornata e l’interazione con le geometrie architettoniche dei bagni pubblici di Tokyo – costruisce un ambiente narrativo e iconografico capace poi di assorbire le svolte drammaturgiche più mélo. Filmare la dignità, del resto, è impresa per pochi, e Wenders la compie con pochi, significativi gesti cinematografici (e un attore protagonista perfetto come il titolo): la breve sequenza con la sorella oggi potrebbe essere girata da ben pochi altri autori (forse Eastwood). Bisogna invece aspettare la fine dei titoli di coda – e speriamo che almeno i cinefili lo abbiano fatto – per conoscere la parola giapponese che indica la luce cangiante che traspare attraverso gli alberi: essa cambia ogni volta, così a dimostrare che immobilità del quotidiano (attraverso il controllo del tempo) e sorpresa fenomenica sono due forze da mantenere in equilibrio instabile mai uguale a sé stesso. Inoltre, lampi di Ozu (pur meno di quanto si dica) e di Tati (alcune gag sulla “modernità”, specie quelle dei bagni che si oscurano, ricordano Hulot) saettano lungo il racconto. Ovviamente il tema della vita analogica contro la superficialità della vita digitale nasconde un certo conservatorismo, ma Wenders si può permettere di fare il moralista – nel senso settecentesco del termine. Ed è curioso che in un film nel quale le traiettorie urbane sono tutte simili e centripete il ricordo corra alla Trilogia della strada degli anni Settanta, anche per la scelta della musica che accompagna il viaggio in auto – un canone e un repertorio noti, ma comunque struggenti. Insomma, sinceramente, una vera sorpresa.

IL RAGAZZO E L’AIRONE

Per quanto abbiamo imparato a conoscere Miyazaki, per quanto ormai la letteratura sul suo cinema sia ampia e circostanziata, capiremo questo film tra 20 anni. Densissimo racconto di formazione, riflessione a strati sul mondo e sui mondi, meditazione composta ma angosciata sulla rovina dell’ambiente come ecosistema collettivo, catalogo di metamorfosi e di forze simboliche, elogio delle figure femminili (che si versano l’una dentro l’altra in diversi stati anagrafici), tripudio di arte del disegno che – come al solito – diviene lezione di rappresentazione figurativa in atto, infine anche canto pacifista di fronte al concetto di guerra immanente con i consueti fantasmi del trauma bellico qui ancora più profondi del solito: tutto questo fa parte dell’ultimo capolavoro del maestro, dieci anni dopo il formidabile Si alza il vento (che aveva spiazzato molti, in verità). Inspiegabile il tentativo di alcuni di produrre classifiche interne alla filmografia dell’autore: Il ragazzo e l’airone è un’opera primaria e maestosa e – come detto – oscura, i cui temi e significati necessitano di tempo per sedimentare ed essere analizzati. Di immediato, invece, c’è il successo clamoroso del film, a dimostrazione che la cultura della conoscenza (la patrimonializzazione di un autore) permette di costruire un pubblico curioso e rispettoso.

ENEA

Che ci si possa scannare sui social per un’opera seconda di Pietro Castellitto è cosa che desta meraviglia. Ma se ci allontaniamo dalle forme più isteriche di simpatia o antipatia nei confronti del figlio d’arte (di questo, più che del film in sé, si parla in giro), troviamo la naturale evoluzione dell’autore di I predatori. Pur con maggior programmaticità e avendo forse lasciato un po’ troppo in ombra il lato comico più spassoso che emergeva nell’opera prima, Castellitto si conferma sostanzialmente l’unico a fare cinema surreale generazionale, lontano da tutto l’impegno, l’allegoria, l’indagine sociale e le battaglie ideologiche di altri autori nostrani. La forma a scenette giustapposte lo fa sembrare un Ecce Bombo post-cafonal e tutto interno alla borghesia conservatrice, che viene scuoiata senza porsene al di fuori: il protagonista è sostanzialmente una merda arrogante, e il volto del regista/attore è talmente irritante che vorresti prenderlo a badilate. Ma il profluvio di idee, bizzarrie, gag, intuizioni spiazzanti, frustrazioni contorte, squarci di emotività, dentro un catalogo di soluzioni stilistiche che sembrano annientare ogni coerenza e continuità, pretende di essere preso sul serio e sicuramente copre uno spazio che nel cinema italiano (lo chiameremo già post-sorrentiniano?) al momento non esiste. Peccato per un personaggio femminile (Benedetta Porcaroli) passivo e buttato via. All’opera terza capiremo se le ambizioni andranno oltre la passione per il sabotaggio meta-borghese.

I MIGLIORI FILM DEL 2023

Come ogni anno, ecco la classifica dei migliori film dei dodici mesi passati. Si tratta di una top 20, con l’aggiunta di vari “posti caldi”. I titoli presi in considerazione hanno avuto distribuzione ufficiale in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2023, in sala e su piattaforma, purché inediti. Non entrano in classifica film visti ai festival non distribuiti. Dunque la datazione di alcuni dei film, anche quando è precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.

Posti caldi sparsi (prima di, a fianco dei, oltre i venti migliori): Adagio, Un bel mattino, The Caine Mutiny Court-Martial, El Conde, Dead for a Dollar, Disco Boy, Frammenti di un percorso amoroso, Fratello e sorella, Gigi la legge, L’innocente, Maestro, Le mura di Bergamo, Napoleon, Peter Von Kant, Ritorno a Seoul, Skinamarink, Tàr, Trenque Lauquen

20) Manodopera / Anatomia di una caduta (ex aequo)

19) Benedetta / The Palace (ex aequo)

18) Io Capitano

17) Colpo di fortuna

16) John Wick 4

15) Pacifiction

14) La chimera

13) Beau ha paura

12) Babylon

11) Aftersun

10) The Fire Within

9) Spider-Man: Across the Spider-Verse

8) Rapito

7) Animali selvatici

6) The Killer

5) Il libro delle soluzioni

4) Il maestro giardiniere

3) Asteroid City

2) Killers of the Flower Moon

1) Decision to Leave

Schegge 2023

Stéphanie Blanchoud che canta con un filo di voce in La ligne, la ripresa a 360 gradi della piccola comunità in festa in Godland, i colori di Le vele scarlatte, la luce in Marcel the Shell, i deltoidi in Creed 3, il museo di Scream in Scream VI, la senilità in Clerks 3, le panchine in Armageddon Time, la locanda di As Bestas, la marcia finale di Il sol dell’avvenire, gli schemi cestistici di Slam Dunk, i concerti di Inu-Oh, le scene sui treni di Indiana Jones 5 e MI7, la parola “morte” in Barbie, le bretelle in Oppenheimer, il sesso in Passages, i pupazzi di The Store, il fuori campo in Kafka a Teheran, le vecchie foto degli scioperi in The Old Oak, l’Europa in Lubo, gli occhi rovesciati di Talk to Me, il fumo di Il cielo brucia, la miseria in Misericordia, l’atrio del cinema in Empire of Light, le derapate di Rodeo, e mille altri baluginii….

PASSAGGI E TRAPASSI DEL CONTEMPORANEO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

NAPOLEON

Il riassunto di quella che ha tutta l’aria di essere la versione final cut (4 ore) arriva in sala con molta freddezza critica. In verità, considerato che Ridley Scott è da anni un cineasta anti-autoriale, per cui ogni singolo progetto prescinde da quello precedente e da quello successivo in una cocciuta ricerca del pezzo unico, le cose non vanno così male. Il Napoleone involuto e isterico interpretato dal volutamente spaesato Phoenix racconta il trasformismo del potere ma anche l’intuitività del condottiero: si può essere geniali strateghi di guerra e idioti incapaci di gestire il proprio talamo nuziale. E così, tra una battaglia e l’altra, si torna all’idea di polemos scottiana: falangi che si giocano la battaglia sul proscenio della Storia, non importa in che epoca (Il gladiatore, Le crociate, Black Hawk Down), tanto l’uomo ha sempre risolto le cose con la violenza fisica e con la manipolazione politica. In più, ci sono fantasmi kubrickiani – quelli del film mai girato – che fanno capolino piuttosto evidenti, con riflessione a tuffo carpiato: e se Napoleone fosse un Barry Lyndon che ce l’ha fatta? (Almeno fino a Waterloo).

PASSAGES

Dopo un fugace passaggio estivo in sala, il triangolo amoroso fluido diretto da Ira Sachs arriva su MUBI. Autore assai sopravvalutato (a occhio anche da se stesso), Sachs ha il dono di raccontare una storia di rara irrilevanza con una sensibilità fuori del comune, specie nelle scene di sesso omoerotico. Tutto ruota intorno alla performance di Rogowski (attore apolide ed eccezione vivente dell’arthouse internazionale), visto che gli altri vertici della variabile geometria amorosa lasciano a desiderare – specie il pur simpatico Ben Whishaw, inchiodato alla medesima parte nelle serie e nei lungometraggi che gira. Ma, stile a parte, per raggiungere la flagranza eustachiana ci vuole ben altro che una crisi affettiva borghese raccontata senza peli sulla lingua e “lavorando” i corpi. E quando non si sa come finire una storia, come in questo caso, si rimane poi con un pugno di mosche in mano.

LA CHIMERA

Diciamolo, Alice Rohrwacher fa di tutto per irritare i non estimatori, a forza di pasolinate, cittismi, olmismi, realismo magico, folklore e amore contadino. Ma se si resiste al contesto ideologico, la forza espressiva di questa autrice si rivela e si svela, potentissima. Ben oltre il racconto dei tombaroli e delle vestigia sepolte di una civiltà (s)perduta, Chimera racconta un’Italia in cui il moderno non ha mai veramente attecchito. Una nazione di scarti, di oggetti sepolti, di ladruncoli rabdomantici per due lire, di tesori interrati e riscoperti solo sfidando i tarocchi di un destino segnato. E alla fine è un film sulla Morte, per una volta narrata in maniera terragna, malmostosa, qua e là ironica, come destino comune mentre cerchiamo un fil rouge esistenziale, pensando di essere immortali. E poi c’è un cinema-cinema strepitoso, pellicolare, che va percepito nella sua densità ottico-sonora, che pochi (Pietro Marcello, Emma Dante, per esempio) sanno fare oggi in Italia.

DREAM SCENARIO

Tra stilemi alla Gondry e pesante influenza del produttore Aster, il film americano di Borgli conferma qualità e difetti di Sick of Myself, e soprattutto la sensazione di conservatorismo crescente man mano che la storia si sviluppa. La satira sociale sull’influencer onirico e sul neuro-marketing del populismo si rivolta contro il suo creatore, il quale – a parte una sconsiderata svolta narrativa fanta-tecnologica nel terzo atto – non trova di meglio che colpire a strascico tutti i personaggi, immaturi o cattivi, e che sfida il buon gusto insistendo su una giovane donna con fantasie passive di aggressione sessuale. Siamo meglio di come ci descrive Borgli. Anche se l’idea di base e la prima parte funzionano e intrigano.

CENTO DOMENICHE

La dignità di Antonio Albanese fa spesso attutire la severità critica che meriterebbe. Al quinto lungometraggio da regista, esprime una spoglia mediocritas poco utile alla storia che sta raccontando (o troppo intrisa del personaggio, assai ingenuo, che mette in scena). In ritardo di vent’anni sul cinema del lavoro e dell’indebitamento che circola in Europa, la triste epopea del protagonista è molto schematica, con archi di trasformazione scritti col righello (l’impiegato suicida, il coro della bocciofila, la figlia amorevole). Gli si vuole bene, come sempre, ma poi ci si chiede: perché, esattamente? Segnaliamo infine che il matrimonio dei figli rimane (come la prima comunione del dopoguerra) la vera ossessione del cinema italiano, da Aldo, Giovanni e Giacomo a Paola Cortellesi, da Abatantuono al qui presente.

THE MORNING SHOW 3

Da serie prestige con cui Apple si affacciava alla battaglia dello streaming, The Morning Show si sta trasformando rapidamente in un guilty pleasure dove la parata delle star iper-truccate (Aniston e Witherspoon) comincia a odorare di cringe consapevole. Ma la terza stagione è comunque meglio della goffa e contraddittoria seconda. Aggiornatissima (Ucraina e post-Covid sugli scudi), ruba a piene mani dalle ultime due stagioni di Succession la riflessione sugli imperi dei media digitali e sugli OTT che si mangiano la TV lineare. Ne esce una difesa innamorata pazza della TV generalista e dei legacy media, però ospitata dalla piattaforma. Paradossi dei tempi che corrono.

CULTURE MATERIALI E RIGORE NARRATIVO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

MISERICORDIA

Nel rapporto cinema/teatro in Italia, Emma Dante prosegue la sua corsa solitaria, mescolando forme e linguaggi nella sostanziale incomprensione dei più (tra chi la eleva automaticamente in quanto simbolo culturale e chi la deprime perché esaspera l’astrazione performativa sullo schermo). Dentro al viaggio nel “sordido magico” di questo lembo di umanità alla deriva (affacciata sul mare) ritorna la forza espressiva di Dante, senza che l’insistito simbolismo femmineo e acqueo rovini lo scenario. Certo, Le sorelle Macaluso aveva più respiro, più urgenza e più varietà, ma Misericordia ha il merito di un world-building di rara crudezza.

LUBO

Altro caso di regista italiano che irrita parte della cinefilia per i formalismi e i realismi ambientali. Diritti, in verità, è l’unico cineasta italiano insieme ad Alice Rohrwacher (del resto entrambi, in modi diversi, olmiani) che guarda alla cultura materiale come carburante filmico. E, persino in un apparente feuilleton storico su uno zingaro assassino la cui colpa è una goccia nel mare della persecuzione biopolitica del suo popolo, l’approccio antropo-oggettuale di Diritti colpisce nel segno (anche grazie al comparto di Ursula Patzak e Giancarlo Basili su cui urgono libri e documentari). Peccato per un atto finale affrettato e narrativamente contraddittorio.

THE OLD OAK

Non è difficile immaginare che allegoria rifletta la Vecchia Quercia. Tutti hanno indicato Ken Loach come la figura nascosta dal titolo con l’inchiostro simpatico, ma più probabilmente, conoscendo la pratica ideologica del cineasta, è il “cinema socialista” ad essere quella old oak (con l’insegna che cade a pezzi ma ancora capace di costruire affetti e lotte). Il didascalismo dell’epoca Laverty (sceneggiatore dell’ultima, lunga parte della carriera loachana) è il solito, il cuore dietro la macchina da presa anche. E l’analisi del tramonto dell’idea internazionalista, soffocata dal populismo triste dell’operaio finito nelle braccia della destra xenofoba, colpisce duro.

TRENQUE LAUQUEN

Finalmente viene distribuita (anche se in modo minimalista) un’opera del collettivo di registi argentini El Pampero Cine – quello di La flor di Mariano Llinas, da recuperare assolutamente per chi non lo ha visto. Sfidando anche in questo caso i formati classici, il doppio film da 4 ore complessive di Laura Citarella ruota intorno a una donna da rintracciare, filo esile dal quale nascono (gemmano, diremmo) tante diverse storie, personaggi, segmenti narrativi, forme audiovisive, percorsi erratici. Praticamente impossibile da riassumere, Trenque Lauquen pratica un cinema dell’affabulazione lenta, dell’immersione progressiva, del mondo come racconto infinitamente scrivibile. Antropocentrico, ma agìto da forze profonde. Forse non il capolavoro declamato da alcuni, ma un film che è un grande, lungo fiume poco tranquillo.

IL POPOLO DELLE DONNE

Nelle gallerie i lavori di Ancarani sembrano esondare e mettere in discussione la fissità del quadro o dell’installazione; nei cinema sfidano i nessi narrativi e le procedure stilistiche, chiedendo contemplazione, curiosità, stati di coscienza inediti. Qui abbiamo un gesto contrario ma altrettanto sfidante: riprendere la psicoterapeuta Marina Valcarenghi, con pluridecennale esperienza di lavoro con stupratori e omicidi, mentre tiene all’aperto una conferenza di un’ora sulla violenza di genere. Come a dire: silenziare le forme per esaltare il contenuto fatico in assoluto rigore. La parola delle donne, prima ancora del popolo. L’oralità come forma di cinema puro.

RIFONDAZIONE DEL CINEMA E ANATOMIE COMPARATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

Era difficile immaginare un ritorno così maiuscolo per Michel Gondry. Grazie a una seduta di auto-analisi intorno alla depressione e all’urgenza del fare cinema, l’autore riesce con la sua imprevedibilità ad evitare ogni effetto di meta-cinema felliniano. Piuttosto, il film diventa da una parte terapia (e dignità della terapia in sé, da offrire allo spettatore con meravigliosa impudenza) e dall’altra invenzione nella sua accezione più letterale. Ed è proprio il profluvio di idee fondative (dalla foglia bucata come mascherino al “camiontaggio”, dalla colonna sonora composta gestualmente alle animazioni) che rende Il libro delle soluzioni una pur rifondazione del cinema. Cinema come bricolage ma tutto sommato anche cinema come infinita possibilità di sintesi originale dei gesti artistici, qualsiasi forma prendano. Sarebbe un peccato che, con la sua aria dimessa e fragile, questo bellissimo film sul concetto di fantasia prendesse la strada della “curiosità minore” nella filmografia dell’ex-regista di culto.

ANATOMIA DI UNA CADUTA

Che cosa gli vuoi dire, a un film così? Una storia solidissima dal punto di vista drammaturgico, che parte da una morte misteriosa e comincia a scavare nel prima e nel dopo attraverso l’indagine, i personaggi, gli eventi. Il gioco con lo spettatore è ovvio quanto riuscito: a chi crediamo? e perché? con quali pregiudizi? Al centro una figura di donna: non per forza piacevole, non per forza simpatica, in mezzo a una feroce lotta mascolina tra pubblico ministero e avvocato difensore, tra marito morto e figlio cieco. Se dobbiamo guastare la festa, lo facciamo solo per far notare simbologie di scrittura un po’ facili (il bambino ipovedente è il personaggio più meccanico) e un’umiltà di regia che non per forza suona sempre come la scelta migliore. Ma sarebbe cocciuto eccederne i piccoli limiti.

SAW X

Per ritornare sui passi della saga (già comatosa da tempo) ci voleva qualche scossa. L’idea è far tornare l’Enigmista in un episodio collocato nel passato e connetterlo ai cattivi succedanei grazie a qualche sorpresa finale. Ma soprattutto attraverso una storia meno prevedibile, dove la vendetta scaturisce da un torto feroce, che quasi quasi sembra giustificare (l’horror Usa sta andando sempre più a destra) le torture raccapriccianti. Queste in verità sono il vero attrattore, in una corsa al grand guignol che sfiora nuove vette, almeno nel mainstream. Ogni tanto sembra quasi una “camera delle meraviglie” anatomica, un cabinet finalmente consapevole della filosofia dell’orrore. Ma passa subito, e tutto torna rozzo come sempre.

LA CADUTA DELLA CASA USHER

Ennesima conferma per Mike Flanagan: le sue carte migliori sono in scrittura. Anche questa epopea dell’avidità (non travestita da horror, caso mai il contrario) è piena di finezze. Non si tratta solo dell’idea riuscita di antologizzare tanti racconti di Poe attraverso la gestione orizzontale di un contenitore verticale (modernizzato), ma proprio di personaggi sinuosi, particolari, controversi, credibili. E se qualcuno pensa che lo showrunner abbia chiesto troppo, ci si ricordi dello stato dell’horror seriale contemporaneo prima di fare gli schizzinosi. Il cast, in buona parte ben noto ai flanaganiani, fa il resto con convinzione.

IL GRANDE LEBOWSKI

Un quarto di secolo per uno dei titoli più celebrati del cinema americano contemporaneo e dell’intera carriera dei Coen. E bisogna dire che regge a ogni revisione, anche perché tutte le questioni di postmodernità e mix di generi, poste all’epoca dalla critica, oggi sono meno centrali e lasciano spazio alla struggente e tragicomica epopea dei falliti, degli inetti e dei sinceri che ne ha decretato il vero successo. E Dude si conferma sempre di più antidoto all’ansia moderna, che negli anni Novanta stava alla finestra pronta a divorarci nello spaventoso nuovo secolo di terrore, guerre, pandemie, crisi economiche. Un meccanismo praticamente perfetto, forse l’ultima commedia possibile del secolo breve.

POTERI TOSSICI E FUNZIONI DEL CINEMA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DOGMAN

Il ritorno di Luc Besson a una qualche ambizione produce un risultato che sembra apprezzabile solamente per il piacere dell’ibridismo. Troviamo infatti: un protagonista queer (ma molto etero nei gusti), un film di cani per bambini, una specie di horror, un noir con ammazzamenti, un remake di Joker, un musical, il tutto in un unico percorso dominato da Caleb Landry Jones (perfetto nella parte). Ma Besson continua a mostrare la corda nella regia (sciatta soprattutto nella rappresentazione degli spazi e nel mondo “arredato”) e mantiene un autismo di fondo nei confronti della materia, finendo col raffreddare il mélo che avrebbe potuto essere.

SICK OF MYSELF

Piccoli Ostlund crescono, e non è per forza un’ottima notizia. La storia di una patologia narcisistica che sfocia nell’autolesionismo in favor di telecamera ha il solito difetto di molti pamphlet contemporanei: la tendenza a ribadire il concetto metaforico con una tale frequenza che il cinema sembra scomparire per far posto all’ora di lezione. La campanella di Kristoffer Borgli che ci riporta sui banchi ogni dieci minuti mina l’aspetto corporeo e biopolitico, che dovrebbe essere qualcosa di incontenibile o spiazzante (problema che persino Lanthimos sta affrontando purtroppo con gli ultimi due film).

FAIR PLAY

Discorso simile per il film di Chloe Domont distribuito da Netflix. Più interessante il luogo di lavoro (una specie di Wall Street aggiornata al presente), così come un personaggio femminile più complesso di quanto appare. Il velo pietoso che dobbiamo invece stendere su quello maschile – che nulla c’entra con qualche trigger del recensore ma è solo buon senso di fronte a una controproducente parodia del maschio idiota – apre un fianco scoperto che sanguina dall’inizio alla fine della scrittura. Detto questo, bisognerà cominciare a studiare questo “cinema dell’invettiva” contro le mascolinità tossiche.

L’ESORCISTA – IL CREDENTE

La severità delle prime tre recensioni ci fa sentire un po’ in colpa, se paragonate a questa presa per i fondelli. Purtroppo David Gordon Green, che aveva cavato la pellaccia dalla nuova trilogia di Halloween (pur tra irritanti alti e bassi, e ben lontano dagli esiti di Rob Zombie), sembra muoversi bendato alla ricerca della pentolaccia di Friedkin da colpire, Ma non bastano né le poche note di Tubular Bells né la povera Ellen Burstyn – maltrattata da una sceneggiatura sadica – a far intravedere la sacra sindone di Pazuzu. Siamo in zona Blumhouse quando i soldi scarseggiano e bisogna traslocare in fretta e furia prima dello sfratto.

KAFKA A TEHERAN

Idee chiare e solide, quelle di Ali Asgari e Alireza Khatam, durissimi nei confronti dei rapporti di forza e della pressione ideologica del regime in Iran. Concepito in una decina di quadretti da pochi minuti l’uno, con la passione per la parola della scuola-Farhadi, mettono in scena altrettanti colloqui tra chi ha il potere e chi lo subisce. Scuola, commercio, lavoro, istituzioni, industria, polizia, nessun “dispositivo” può esimersi dall’ispezione e dalla demolizione della libertà altrui. Camera fissa, enfasi sul fuori campo. Qualche schematismo e un finale enfatico (dunque contraddittorio) non rovinano il triste affresco.

FLORA AND SON

John Carney si conferma il cineasta più cariogeno del momento, strappando la leadership a (me)Lasse Halstrom. Battutacce a parte, si tratta del più classico fautore del cinema riparativo, un’idea emolliente del film – meglio ancora se in streaming come questo – in grado di evitare qualsiasi granello di polvere nell’ingranaggio. Sia chiaro: una volta accettata questa funzione patemica, tutto funziona benissimo, dalla rappresentazione sociale alla sboccatissima (e brava) Eve Hewson. Basta sapere che cosa si vuole (e non essere troppo snob come gusti musicali: questo è il canone di Carney).

IL MEDIUM CINEMATOGRAFICO E I SUOI SPIRITI ERRANTI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

STRANGE WAY OF LIFE

Strano scivolone per Pedro Almodóvar, che non sembra aver percepito la presenza qualche annetto fa di Brokeback Mountain. Non che non si possano raccontare anche mille storie queer nel West (anzi), ma senza questo malcelato stupore e soprattutto questa strana, svogliata, poco nitida messa in scena. Si tratta, come già del resto per The Human Voice, di un fashion-film che viene legittimato per la sala e per MUBI. Eppure, persino di quella forma mancano l’estetizzazione euforica e il senso epidermico dell’immagine digitale: come se Pedro ci credesse davvero ma non abbastanza da curare scrittura e regia come da par suo.

TALK TO ME

Come spesso accade, si rischia di giudicare il film in base alle attese o alle recensioni precedenti invece che nel merito. E nel merito questo cupo racconto di spiriti cattivi (e corpi adolescenziali che si candidano stupidamente a farsene carico) è ambivalente. Ha una prima parte dove il groviglio di metafore teen funziona ottimamente ma una seconda dove il fuoco del discorso si perde in una fibrillazione piuttosto confusa. Peccato anche il sottofondo reazionario (basta vedere che cosa fanno i personaggi non-bianchi e non-binari per rimanere a dir poco perplessi). La storia peraltro si conclude proprio quando avremmo voluto che cominciasse: il controcampo dell’orrore.

NO ONE WILL SAVE YOU

Arrivato in sordina, il sci fi a basso costo di Disney+ sta cominciando a farsi strada nelle difficili curve del “caso streaming”. Infinitamente meno oirignale del primo A Quiet Place, cui è stato accostato, questo thriller domestico virato in sardonica invasione aliena ha dalla sua l’assenza di dialoghi e un certo spirito di sopravvivenza (al citazionismo inevitabile), che di questi tempi aiuta. Probabile allegoria di un’America traumatizzata e preda dei deliri di Qanon, la sarabanda di Brian Duffield è un altro tassello di una filmografia (da regista, sceneggiatore, produttore) fatta di lacerti d’immaginario a metà tra l’abisso del nulla da dire e il dirlo con talento.

CASSANDRO

Che dire di questo biopic che sembra disperdere tutta l’alterità del wrestler gay Cassandro, impacchettandolo in seratina streaming per tutti i palati e non spiegando veramente nulla di lui? Un solo consiglio: sostituitelo con Cassandro the Exotico! diretto da Marie Losier nel 2018.

ASSASSINIO A VENEZIA

Perseverare diabolicum. E infatti Branagh, con un maggior grado di reinvenzione di Agatha Christie, spinge il terzo episodio di Poirot proprio in territori horror. Chiunque conosca il razionalismo del protagonista capisce dopo mezzora come stanno le cose – per assenza di altre possibilità (almeno il vero horror vive del bivio irrazionale, mentre qui è vietato in partenza). E così, con gli spiegoni in primo piano a raccontare ciò che in nessun modo viene sviluppato narrativamente, ci troviamo nuovamente immersi nel grande canale della mediocrità cui ci ha purtroppo abituati il pur volenteroso autore nord irlandese.

LA VERITÀ SECONDO MAUREEN K.

Come se d’improvviso si fosse stancato (come noi, del resto) della sua ironia modestamente kitsch, Jean-Pierre Salomé costruisce un giallo giudiziario e sindacale intorno a Isabelle Huppert. La storia di una donna stuprata e malmenata da emissari dei “poteri forti” (e questa volta è proprio il caso di dirlo) funziona sul doppio livello della denuncia contro le multinazionali e dell’esempio di un sistema poliziesco sessista e compromesso. Niente di particolarmente rimarchevole, ma solidissimo, per lo più grazie alla diva (diva non per caso).

FRAMMENTI DEL CINEMA ERRABONDO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

EL CONDE

Premiato stranamente a Venezia per la Miglior Sceneggiatura (immaginiamo non per motivi tecnici, essendo volutamente squilibrata e libera, ma per l’idea narrativa), il nuovo Larraín conferma la lucidità biopolitica dell’autore cileno. Letteralmente post mortem, El Conde conferma la visione della storia cilena – e novecentesca in generale – come intimamente legata al corpo e alla sua dissoluzione. Non solo Pinochet è un vecchio, laido vampiro che non ha nemmeno il coraggio lasciarsi morire, ma si inscrive in una genìa di sfruttatori, torturatori e prevaricatori che solo l’horror (sociale) può descrivere. Ciò che ha attenuato gli entusiasmi critici è probabilmente la martellante monotonia di un film-satira da due ore, ma ciò appartiene più alla disabitudine nei confronti di questa struttura (che peraltro non nega lo splendore visivo murnaiano e sjostromiano) che alla riuscita dell’operazione. Costruito come una pila di paradossi che si spostano l’uno sull’altro, legati spesso a gag e repentini cambiamenti di prospettiva, El Conde esplora l’allegoria alle estreme conseguenze: creare un paio di allegorie è facile, usarle come materiale di base e invertire il rapporto con la narrazione letterale tutto un altro paio di maniche. E così, la stirpe della strage e della tortura, dell’avidità e del potere non viene (come si poteva temere) rappresentata e derubricata come banale ur-fascismo metastorico, bensì come una continua attività contro-rivoluzionaria che si chiama in tutto il mondo e in tutti i tempi: conservazione.

MANODOPERA

Negli anni è aumentato il rischio di leziosità e sopravvalutazione della stop motion, come se la sola fatica nel realizzare questa forma di animazione fosse di per sé lodevole. Non è il caso di Alain Ughetto, che omaggia la durissima storia di emigrazione dei parenti italiani in Francia con una forza espressiva e narrativa straordinarie. Pieno di dolore, umorismo, umanità, Manodopera riesce in particolare nell’impresa di restituire l’autenticità di un mondo che l’occidente ha del tutto sepolto nella memoria ormai perduta di quelle generazioni, riuscendoci attraverso una tecnica (e una struttura narrativa talvolta astratta) che avrebbero dovuto sottrarre realismo. Sorpresa di questo scorcio post-estivo.

FRAMMENTI DI UN PERCORSO AMOROSO

Scommessa vinta di Chloé Barreau: unire l’archivio di immagini e lettere di ex amanti che la regista ha maniacalmente conservato negli anni con le interviste agli stessi, invecchiati di oltre vent’anni. Pur con qualche sbeccatura compositiva (troppa musica) e forse mancando un più radicale discorso sull’archivio personale (molto presente invece nei migliori doc contemporanei), il film seduce e funziona. Un po’ perché è come se si riconfermasse come vero uno stereotipo antropo-cinematografico (i francesi pensano e raccontano l’amore meglio degli altri) e un po’ per gli squarci di umanità degli intervistati: chi sorride del sé stesso giovane, chi non l’ha superata, chi è ancora innamorato, chi ormai se ne frega del tutto, chi – semplicemente – capisce che così è le vita.

UNA STERMINATA DOMENICA

Un tempo i critici stigmatizzavano il “cinemino CSC” minimalista e timido che sembrava uscire dagli allievi della Scuola. Da vari anni l’aria è cambiata. Autori come Alain Parroni masticano un linguaggio arthouse internazionale in grado di densificare e elettrizzare la dimensione formale anche se le storie raccontate (come questa) non hanno particolare quantità narrativa. In più, le ambizioni sono ammirevoli: l’idea di raccontare una gioventù indecifrabile e tagliata fuori cercando di colmare il divario tra il cinema di Claudio Caligari e la Roma della linea Fellini/Sorrentino è tanto audace quanto generosa. Film più da esperire che da teorizzare, lascia buone sensazioni (attori compresi).

PATAGONIA

Altro esordio di qualità, stavolta di Simone Bozzelli, con una vicenda che ricorda qua e là il bel Calcinculo di Chiara Bellosi del 2022. Proprio questa Italia marginale, rave, estraniata, polverosa, extra-urbana, da Nomadland della provincia nostrana, colpisce per originalità ed esattezza iconografica. Meno il rapporto tossico tra i due protagonisti, uno carismatico e uno soggiogato, che pare un’ossessione della nostra cinematografia (dal Sorpasso a L’imbalsamtore: che sia una metafora eterna dei seduttori politici e degli elettori plagiati?). Occhio: stiamo coltivando un blocco di nuovi e giovanissimi attori da valorizzare. Speriamo se ne accorgano anche le produzioni più grosse.

L’EXPERIENCE ZOLA

L’ammazzatoio di Zola è uno dei romanzi chiave per capire le trasformazioni della società moderna (e il suo lato oscuro) nel secondo ‘800. Matarrese racconta il progetto di una versione teatrale con una regista e un attore la cui vicenda dietro le quinte si plasma via via in modo simile al dramma. La quarta parte ogni tanto viene giù e tra teatro e cinema i confini svaporano. Se non fossero idee antichissime, saremmo più euforici, anche se la forza espressiva degli interpreti colma alcune ovvietà drammaturgiche. Ma preferiamo il bellissimo Siamo qui per provare di Greta De Lazzaris e Jacopo Quadri, non lontano come ispirazione.

L’INVENZIONE DELLA NEVE

C’è una dimensione teatrale anche nel ritorno sul grande schermo di Vittorio Moroni. La storia di una madre “negata” e del suo intermittente rapporto con la figlia viene gestito in due modi: uno è fortemente teatralizzato, e ruota intorno alla performance anti-realista di Elena Gigliotti, la protagonista; il secondo, metaforico, viene affidato alle animazioni di Toccafondo, come sempre convincente e qui forse più oscuro del solito. Piccolo, piccolissimo film, che testimonia però della coerenza del regista lombardo.