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Autore: Roy Menarini

AVVENTURE DEL PRESENTE E DEL FUTURO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO

Indy è una creatura di Lucas e Spielberg insieme: del primo l’amore per l’avventura esotica e i b-movies, del secondo il cinematismo spettacolare e teorico. I primi tre film sono indiscutibili, Il quarto venne concepito da Spielberg come un percorso alle origini e poesia dell’analogico e del set (con omaggio al cinema muto hollywoodiano, Douglas Fairbanks e Allan Dwan in testa). Il quinto, purtroppo, non ha alcun “partito preso”. L’assenza di Spielberg è insostenibile, e l’avventura digitale con de-aging dell’eroe priva di qualsiasi consapevolezza. L’affetto permette però di chiudere un occhio, Phoebe Waller-Bridge ipnotizza, la storia di Archimede ammirevolmente eccessiva. Ma ci voleva ben altro.

ANIMALI SELVATICI

Pur ammirato, Cristian Mungiu non viene ancora considerato – come dovrebbe essere – uno dei grandi maestri del contemporaneo (magari insieme agli altri talenti dell’onda rumena, tuttora in formissima). La sua allegoria d’Europa, raccontata in Transilvania, è anti-mélo (basta guardare all’uso contrappuntistico della colonna sonora di In the Mood for Love). Horror sociale e grottesco universale trovano un equilibrio formidabile: forse è questo il film che sarà il caso di rivedere tra molti anni per spiegare il populismo e la xenofobia che hanno divorato il Continente – insieme alla stupidità escludente delle élite. Senza lezioncine, peraltro, ma a colpi di immaginario cinematografico: “the village” nel post-comunismo sovranista.

RODEO

Piccolo proiettile cinefilo nascosto a Cannes 2022, il film di Lola Quivoron romba di famelica voglia di vita al femminile. La veloce e furiosa protagonista scuote alle fondamenta un mondo maschio di motori e asfalto che scotta. Non sapendo bene se rimanere alla cronaca fenomenologica o costruire un’avventura autoriale, la regista rischia di restare a mezza strada, optando per una svolta thriller/noir forse più adatta a una struttura seriale articolata. Ma l’impatto rimane (compresa una locandina che non sarebbe dispiaciuta a Ida Lupino e forse nemmeno a Russ Meyer).

BLACK MIRROR 6

Bisogna dare atto a Charlie Booker di aver perfettamente capito che il presente ha divorato il suo not-too-distant-future e, presone atto, di aver portato la sua creatura in altri lidi. Ma, già a partire da un primo episodio di sconcertante pigrizia (un ragionamento autoriflessivo su Netflix e i suoi paradossi algoritmici), presto si capisce che al massimo questo Black Mirror può ambire a spiegare la crisi della fantascienza contemporanea – crisi non particolarmente scossa dalle svolte horror di alcuni racconti. Per il resto, da un punto di vista tecnico delude anche la scrittura, con sceneggiature cui servivano varie altre stesure e finali incomprensibili o sbrigativi (episodio 3, forse il più interessante, rovinato). Fine corsa del progetto, a occhio.

QUESTO MONDO NON MI RENDERÀ CATTIVO

“Peccato”, verrebbe da dire in risposta al titolo. Un pizzico di cattiveria in più servirebbe a Zerocalcare, che è un “buono” intrappolato ormai in un’autofiction senza fine dentro la quale si lamenta ad nauseam di essere considerato un venduto o un privilegiato (cosa che dà vita a una serie di meta-meta-meta-riflessioni sul suo stesso essere insopportabilmente preoccupato della cosa). La verità è che la serie precedente – la “summa” del calcarismo for dummies – funzionava benissimo per la sua brevitas. Zero è un talento strepitoso nella costruzione di gag fulminanti e fulminee, nei confronti surreali da pochi secondi con la cultura pop, nello schizzare personaggi di quartiere umani e lunari. Non funzionano per niente invece la trama orizzontale, le paturnie di sinistra, l’indulgenza di cui sopra, e – diciamolo – anche il disegno, che sui 30 minuti diventa legnoso e monotono. Alla prossima.

CINEMA CHE CORRE, SERIE CHE PARLANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE FLASH

Questo è ancora un DCU pre-Gunn, anche se ha l’aria di quello che getta il guanto di sfida alla Marvel. Ne scopiazza i multiversi in modo plateale (almeno rispetto alla Sony: qui sono i vari Batman della storia a tornare, più qualche Superman), offre retromarce cronologiche legnose – pur ispirate al Richard Donner del primo Kent di Christopher Reeve – e si salva con un doppio Flash decisamente spassoso. Che dire? Meglio dell’ultimo MCU ma – se paragonato per esempio allo SpiderVerse – sembra un pachiderma rugoso e anziano, per di più disegnato malino. Andy Muschietti comunque merita di essere seguito nei prossimi passi super-eroistici.

TYLER RAKE 2

Ecco la differenza tra l’evoluzione dell’action targata John Wick (che proprio nell’attitudine meccanica e parossistica trova il senso del presente) e quelli di Netflix. Il virtuosismo si conferma: anche nel sequel troviamo un piano-sequenza (23 minuti) vertiginoso, a dire il vero non purissimo per un paio di evidenti interventi al montaggio. Ma la domanda è: chi se ne frega? Rake non racconta nulla, né il mercenarismo post-coloniale, né l’estetica della violenza, né il nichilismo dell’eroe. La sfumatura mélo del killer con sentimenti paterni non fa che rendere il tutto ancora più increscioso. PS.: ma quanto è bella a 40 anni Golshifteh Farahani?

DENTI DA SQUALO

Siamo tornati alla famigerata “operina prima”? Non si ha nessuna voglia di essere sarcastici, sia chiaro. Eppure rimane un po’ di amaro in bocca a constatare che l’atteso esordio di un regista apprezzato nei corti (Davide Gentile) punta su una storia così basilare, su un’idea interessante ma ribadita ad nauseam spolpandone ogni possibile metafora (uno squalo intrappolato in una piscina di una villa abbandonata), su una storia di formazione delicata quanto automatica. Un po’ di voglia di spaccare tutto il giovane cinema italiano non ce l’ha mai? Giovani attori molto generosi, al contrario di Virginia Raffaele che si conferma inadatta al grande schermo.

EMILY

Della biografia di Emily Brontë (diretta da Frances O’Connor) piace che non spacci Cime tempestose per un romanzo piacevole e sentimentale. Del resto Charlotte, nella prima scena (si parte dal letto di morte di Emily), le chiede come abbia potuto ideare qualcosa di così sordido. Non a caso l’autrice è impersonata da Emma Mackey, che ricordiamo bene in Sex Education già indipendente e ruvida. Spigolosa anche qui, riesce a parare i rischi da feuilleton (e ce ne sono) con il piacere di rovinare le feste e la buona società.

PEDRO-MANIA

Tornano in sala cinque film storici di Pedro Almodóvar in versione restaurata. E cioè L’indiscreto fascino del peccato, Che ho fatto io per meritare questo?, La legge del desiderio, Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Tacchi a spillo. Si tratta di recuperare il cinema incendiario degli esordi e capire (di nuovo) quanto fu sovversivo per il post-franchismo e per l’Europa tutta, mentre si srotolava la transizione dai blocchi ideologici a una nuova era dal futuro incerto. Il lavoro sulle identità sessuali, sulla struttura del racconto, sulla cinefilia punk, sul design e sui colori, è lo stesso che troviamo oggi più formalizzato, forse ammaestrato, talvolta potentissimo, senza il salutare (sebbene irritante) spirito anarcoide – specie nei primi tre titoli elencati.

ANIMAL HOUSE

Nella retro-mania che sta ormai seducendo sale e pubblico di questi tempi salutiamo con piacere il ritorno di un cult movie che tutti pensiamo di conoscere a menadito, forse meno noto però alle nuove generazioni. Il tempo passa e, se lo spirito irriverente e la caciara animalesca da universitari sbronzi appare inevitabilmente saccheggiata da tanti imitatori a seguire, ne guadagnano invece la lucidità politica e il neo-classicismo comico di Landis. Con attenzione al personaggio-chiave: Niedermeyer, sadico americano medio militarizzato e bifolco, che fa ridere ma fino a un certo punto. Una satira anti-Trump quasi 40 anni prima di Trump.

LA DIPLOMATICA

Prima stagione con botto finale (cliffhanger financo eccessivo) di una strana creatura che appare un frutto più creativo che algoritmico dello streaming, non foss’altro che per la luminosa, ironica, tosta e umanissima Keri Russell, che già ci aveva avvinto in The Americans. Quasi come una nemesi di quella spia russa irriducibile fino all’ultimo, qui si trova invece a fare il contrario: mediare, oliare, fare compromessi, convincere, smussare le leadership mascoline, Sullo sfondo, il multilateralismo caotico del 2023 (si parla anche di guerra in Ucraina). Divertente, intelligente, un po’ monotono nei continui confronti dialogici in interni, trova comunque il modo giusto per la serialità di processare la politica internazionale attraverso l’intensificazione narrativa.

SERVANT

Arriviamo in ritardo al bilancio della serie, conclusa qualche tempo fa dopo quattro stagioni horror e satiriche. Troppe. Ma il giochino del sadomasochismo borghese (tra food porn, Polanski, ossessione familista, rapporti di classe) ha funzionato così bene che forse possiamo chiudere un occhio sulla conclusione anodina. Come sempre accade, quando il fantastico passa dall’esitazione alla spiegazione soprannaturale, cede interesse. Rimarranno tuttavia nella memoria i ribaltamenti concettuali d’impronta Shyamalan (produttore e autore di alcuni episodi, come anche la figlia, a prima impressione regista di talento) e la sarcastica claustrofobia onirico-sociale ideata dal creatore Tony Basgallop.

IL MONDO IN UNA STANZA E ALTRE SFIDE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

PACIFICTION

Pensate ad Avatar se fosse girato da Lav Diaz. Se vi è difficile da immaginare, ci pensa Albert Serra ad estrarre un prodigio dell’assurdo: il post-colonialismo, la difesa dei nativi, la Polinesia incantata, lo sfruttamento delle risorse, il capitalismo predatorio sono anche qui temi principali, annegati però in un clima arty, umido e ubriaco, nel quale si aggira un Alto Commissario che – tra uno stordimento e l’altro – cerca di tenere insieme tutte le esigenze in gioco. Nel contesto di una paranoia nucleare fatta di piccoli spionaggi impalpabili, segnato da un continuo richiamo all’impossibilità di vedere (chiaro), Pacifiction è un viaggio fatto di stasi, un errare irresistibile e seduttivo, una danza sul mondo di oggi raccontato da un punto di osservazione potente, (in)corrotto, come le onde che – con flagranza straubiana – vengono mostrate con la mdp a fianco della cresta.

FAST X

Tra i lamenti di chi forse non ricorda che razza di disastro erano i capitoli 8 e 9, esce questo decimo, ben consapevole di che cosa bisogna fare a questo punto: ridurre al minimo (ma mai abbastanza) i pipponi su Dio e famiglia o una trama di un qualche senso, e sparare a mille la musica della distruzione totale, lasciando allo spettatore pochissimo tempo per formulare qualcosa di più di una reazione epidermica. Sempre più globale come il suo cast, Fast X fa polpette della politica internazionale e le serve, fritte e unte, dentro un panino di spettacolo meravigliosamente decerebrato, dove tutti gli attori sono cani e le uniche brave – Charlize Theron e Michelle Rodriguez – appena si vedono si massacrano di botte in un badass catfight. Inutile rimpiangere i primi episodi: meglio così, cafoni fino in fondo (come ha capito un Jason Momoa psycho queer), che restare a metà del guado.

THE FIRST SLAM DUNK

Esito finale di un processo culturale pop lungo anni, che attraversa fumetto e animazione, il film scritto e diretto da Takehiko Inoue ha frantumato il botteghino giapponese ed è arrivato in Italia forte di un rispetto guadagnato in partenza. Il racconto ruota su una sola partita di basket, inframezzata da flashback dedicati a una storia famigliare mélo (la cosa francamente più indigesta). Snervante per chi non ama questa grafica e questo tratto, ma incredibilmente coinvolgente per chi entra nella dilatazione temporale e psicologica del narrato, The First Slam Dunk vanta anche una credibilità nella rappresentazione cestistica e nei movimenti dei giocatori davvero sorprendente.

THE MOTHER

Abbiamo già insistito più volte sul fatto che gli action Netflix puntino a una semplificazione narrativa per pubblici vasti (190 Paesi!) e che la routinarietà action non ne sia limite, ma fine ultimo. A tal punto che basta la personalità di una come Jennifer Lopez per infondere un po’ di calore a una storia che verrebbe applaudita solo se ideata da uno studente di quinta elementare in un momento di noia durante la merenda pomeridiana. Narcos, guerra e survival si mescolano senza grandi disastri, a patto di essere comprensivi verso il conto in banca da rimpinguare di Joseph Fiennes e soprattutto di Gael Garcia Bernal. Dirige Niki Caro, un tempo più ambiziosa, ora shooter spersonalizzata di film eterodiretti con qualche spruzzata di paesaggi naturali.

SANCTUARY

Una stanza di hotel, due personaggi, 90 minuti. Si tratta di dominatrice e schiavo, ma anche di un gioco di maschere che copre via via: famiglia, potere, sesso, denaro, America. Con una teoria di base vecchia come Marx: il capitalismo regola i rapporti di forza, coinvolge i corpi e si incarna nel sentimento borghese. C’è un’aria da indie movie di quelli senza troppo cinema dentro, purtroppo. Fortunatamente, c’è Margaret Qualley che, sfruttando il personaggio più carismatico dei due, porta il compito fino in fondo appropriandosi della scena, in tutti i sensi. Da decidere se dopo l’ora e mezza ne esca normalizzata o vincente. A partire da questo sospetto si gioca anche la valutazione del film.

STILL

Invece che da Michael J. Fox partiamo da Davis Guggenheim, il regista del doc di Apple+ TV. Noto come autore embedded (come dimostrano i film su Obama e Gates), sembra impossibilitato a uno sguardo critico, distanziato, autonomo. Riprendendo Fox e la sua malattia, finge di porgli domande scomode ma si limita a celebrarne forza, personalità, famiglia. Del resto, è anche comprensibile. Il peggio, però, viene dall’uso del materiale: al tempo stesso quantitativamente scarso e giocosamente manipolatorio, sembra escludere sia la biografia cronologica sia la destrutturazione creativa di una carriera. Per fortuna rimane Michael, umanissimo baby face invecchiato nella malattia; e rimangono alcune strepitose sequenze di sitcom (quasi estreme) in cui il Parkinson era già visibile ma nessuno lo sapeva, stando davanti al piccolo schermo. Titolo intelligente, che prometteva meglio (con tutto il rispetto, ovviamente).

ALIEN/S

Tornano in sala i primi due capitoli – i più importanti – della saga xenomorfa. Che cosa si può dire in 5 righe di due capolavori? Forse che è molto interessante rivederli uno dietro l’altro, perché dimostrano l’elasticità della fantascienza: Ridley Scott gira un horror gotico, James Cameron in film di guerra stile Vietnam, ed entrambi riplasmano il genere senza negarlo. Punto di contatto, di ebollizione, di continuità battagliera è ovviamente Ripley, cui Sigourney Weaver ha saputo donare – con la sua spigolosa bellezza e il suo talento ansioso – un archetipo indimenticabile di donna epica. Il resto, e sia per una volta detto con cognizione di causa, è storia.

RITORNI (ALLE ORIGINI) E RIPARTENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

RITORNO A SEOUL

Basterebbero i primi due minuti, con lo scambio di soggettiva sonora e una canzone struggente, a dire del talento di Davy Chou (regista franco-cambogiano, ultra cinefilo e cosmopolita). Anche la protagonista, interpretata con formidabile umanità da Ji Min-Park, è sospesa tra Europa e Oriente, Francia e Corea, con tutti i problemi di ritorno alle radici e alle origini. Invece che un dramma lamentoso sull’espatrio, questa sorprendente e malinconica opera sghemba preferisce atmosfere sospese, spazi che assorbono emotivamente, scambi umani inconsueti. L’idea vincente è “lottare” col carattere del personaggio: adorabilmente spigolosa, lei; tenero, sinuoso, il film. Era al Certain Regard 2022 e nella short list dell’Oscar straniero 2023. Avercene.

BEAU HA PAURA

Trattato teorico (un po’ sfuggito di mano) di come comico e horror convivono, il film di un Aster in totale libertà creativa verrà rubricato tra i deliri di questa strana epoca dove dovrebbero dominare gli algoritmi e invece ci si lamenta perché dominano gli autori. C’è di tutto, in questa storia divisa in quattro rigidi atti (altro che flusso di coscienza), dalla psicanalisi alla metafora del capitalismo, dal racconto americanologico all’avanguardia. Ma, a furia di pensare al regista e ai suoi demoni edipici, ci si è forse dimenticati la pista principale: e se fosse un nuovo capitolo del Joaquin Phoenix universe? In fondo anche Joker aveva seri problemi con la mamma con risate fuori posto, e ci sono connessioni evidenti con Lei, Vizio di forma e The Master per non parlare dell’operazione Io sono qui! che pare un prequel situazionista dell’allucinazione di Beau.

I GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 3

Ormai quelli del MCU non sono più da tempo racconti unitari ma collage di storie che si fermano e ripartono almeno 3-4 volte durante le lunghe ore di visione, un puzzle di cortometraggi legati faticosamente da una storyline sempre uguale (un cattivo mistico che vuole distruggere e rifare il mondo). Se è un’estetica, ridateci il postmoderno. James Gunn punta tutto su Rocket per aprire più spudoratamente la cassaforte infantile (un quarto di film è fatto di peluche parlanti, cui si aggiunge il cane più fastidioso e peggio ripreso degli ultimi anni), anche se poi non resiste a un po’ di salutare gore in salsa “suicide squad”. Dopo due ore e mezza di discontinuità tra cose riuscite (l’iconografia dei pianeti) e cose pessime (la musica usata a casaccio), non si sa se piangere l’addio dell’autore visionario o augurarsi un produttore showrunner più dispotico di Kevin Feige.

L’AMORE SECONDO DALVA

Cambio di sguardo. Lontana dal cinema dell’indignazione programmata, Emmanuelle Nicot decide di invertire il punto di osservazione su un grave caso di abuso famigliare e analizzare una piccola vittima che non sa di esserlo. Che anzi difende il carnefice, ingannata da un amore perverso e violata nello spazio di crescita, infine costretta a credere a una realtà umana alternativa. Il percorso di recupero, anch’esso, deve passare attraverso tappe abbastanza inedite, poco pedagogiche. Piccolo film, che non punta al capolavoro ma ha un partito preso di racconto che merita lodi sincere.

PLAN 75

Ingegneria sociale o diritto all’eutanasia? Il cinema giapponese, spesso alle prese con la concettualizzazione narrativa della morte (qualcuno ricorda Departures?), torna ad affrontare il problema di petto: che ne sarebbe di una società che spingesse gli over 75 ad ammazzarsi dolcemente per levarsi di mezzo e lasciare spazio ai parenti più giovani? Chie Hayakawa rischia parecchio, per esempio la demonizzazione della morte decisa consapevolmente, nel momento in cui mette sull’altro piatto della bilancia affetti inter-generazionali e filosofia della solidarietà. Ma la quieta calma dello stile stempera il conservatorismo e vira verso la fantascienza alla Ishiguro.

GLI ULTIMI GIORNI DELL’UMANITÀ

Il bello del film-vita di Enrico Ghezzi è che ha reso ghezziani tutti coloro che lo circondano e che hanno costruito con lui e per lui il montaggio. Dalla famiglia (con la figlia Aura al centro di gravità) ai collaboratori, registi, amici che hanno aiutato. In mezzo, un oceano in-archiviato di immagini che seguono varie traiettorie tra le quali spiccano: estratti di film (che esplorano la cinefilia ghezziana da programmatore), home movies (i più struggenti, dove scopriremo come spiare da un buco della serratura può essere un gesto di amore paterno), found footage, riprese teatrali (un Ronconi strepitoso), lacerti di Ghezzi-video, testimonianza riprese alla buona da incontri di grandi autori, per esempio Straub e Huillet. Un film di fantasmi, dove torreggia lo spettro fatico dell’autore, che si esibisce senza esibirsi, con un passato che non è più presente.

NEBULOSE DI CINEMA IN TRANSITO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi

MON CRIME

Per Ozon il cinema è una pratica infinita, un film all’anno (come minimo) e l’ossessione per la mutazione radicale di stili, forme, narrazioni a ogni progetto. Qui si torna a Feydeau, alla commedia lubitschiana, al gioco di maschere talmente lieve da insospettire: e infatti il tema del femminile e della violenza sessista del mondo dello spettacolo emergono in modo beffardo, in mezzo alle buffonerie e alla gazzarra, cosicché chi vuol capire capisca. Sempre interessante in ogni sua operazione.

AS BESTAS

Tocca ridimensionare, ma solo un po’, l’acclamato folk thriller di Sorogoyen. Regista dotato, in gamba, lucido purché lo si tratti con gli strumenti giusti, un autore cinefilo che piega i generi a modo suo e non certo il nuovo filosofo della violenza o dei conflitti contemporanei. Qui, pescando un po’ da Peckinpah e un po’ dal nero francese, conduce una sfida serrata aggiornata alla guerra tra poveri del capitalismo contemporaneo. Ecco ciò che rende As Bestas diverso da Il vento fa il suo giro, che – insieme a I padroni di casa di Gabbriellini (migliore però di questo Sorogoyen) – costituisce un po’ una trilogia delle comunità impermeabili al “nemico esterno”.

NOVEMBER

Il tesissimo racconto politico-terroristico di Cédric Jimenez è un film che serve come il pane al cinema europeo contemporaneo per almeno due motivi. Il primo è che mostra, fuori dal polar contemporaneo (di cui è peraltro ottimo esponente) come si spettacolarizza un trauma nazionale attraverso gli stilemi dell’action metropolitano, narrato e montato a rotta di collo. Il secondo è che apre la via a un cinema di “patriottismo critico”, non lepenista ma nemmeno progressista, che si situa dalla parti di Bigelow, ovviamente senza (ancora) arrivare a quelle vette.

PASSEGGERI DELLA NOTTE

“Quei film che in Italia non sappiamo fare…” ecc ecc. La formula è antipatica e retorica ma rende l’idea. Se Ozpetek o Luchetti facessero regolarmente pellicole come questa (o se il cinema italiano potesse costruire personaggi femminili così) avremmo un cinema medio-autoriale più appassionante. Proprio il fatto che il cinema francese ne sforna a decine ogni anno ridimensiona paradossalmente I passeggeri della notte che tuttavia seduce con una Charlotte Gainsbourg clamorosa e con momenti mélo molto puri, molto riusciti, caldi come la voce radiofonica notturna di Emmanuelle Béart.

L’INNAMORATO, L’ARABO E LA PASSEGGIATRICE

Sono sinceramente imbarazzato a riportare qui sopra il titolo italiano (come può venire in mente? sarebbe ironico? bah). Detto questo, il lunare ménage a trois – dove il tre cambia sempre, perché i personaggi sono tanti ma ce n’è sempre uno di troppo – di Alain Giraudie ha dalla sua un erotismo buffo, un’osservazione perfida della Francia contemporanea e un gusto per l’assurdo tali da perdonarne le fragilità. Va preso nel modo giusto, una poesiola molto corporea, senza puntare al capolavoro né alla pochade.

LA CASA – IL RISVEGLIO DEL MALE

Si riparte da una voragine, come nel precedente (discreto) Hole – L’abisso di Lee Cronin, regista irlandese che qui è chiamato a rinnovare l’estremismo gore della saga. Lo spirito originario però non era garantito dalle dosi di raccapriccio ma dall’atteggiamento fantasmagorico e quasi comico di Sam Raimi, la cui energia esplosiva negli spazi claustrofobici di una casa è qui emulata con risultati piatti e soporiferi. Di ironia neanche l’ombra, di soluzioni brillanti alle fantasie di smembramento se ne contano pochine. Ma quanto sta male il mainstream horror? Reagire prima che il coma diventi irreversibile.

COCAINORSO

E alla fine, se pop grandguignol dev’essere, meglio di gran lunga Elizabeth Banks con il suo orso strafatto di polvere bianca. Il film è abbastanza spiazzante perché non la butta totalmente in caciara ma perde tempo a descrivere personaggi tra serio e faceto e costruendo una storiella tutto sommato divertente. Con uno spirito “landisiano” (pur senza lontanamente avvicinarsi al Lupo mannaro), facezie anni ’80 e momenti splatter si alternano con sano atteggiamento di consapevole svacco. Del resto, con un titolo di questo tipo, uno spettatore non può certo lamentare di essere stato ingannato sul tipo di film che gli è capitato davanti.

SUPERMAN

Torna in sala per il centenario Warner Bros. il primo grande Superman dell’era moderna, quello con l’indimenticato Christopher Reeve (ancora più perfetto come Clark Kent che come supereroe) e con i mostri sacri Marlon Brando, Glenn Ford, Gene Hackman. Per quanto obsoleto e un po’ acciaccato dall’età, il lavoro di Donner è pienamente riuscito e ha influenzato una generazione, facendo da base ad alcune rinascite più recenti (in primis quella ideata da Bryan Singer), ma ancora lontano dalle cupezze DC Universe. Merito di un giusto spazio alla commedia sentimentale e al divertimento puerile, che Superman deve saper garantire.

FANTASIE REALI E REALISMI FANTASTICI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DUNGEONS & DRAGONS

Lo zero assoluto che ci si aspettava da questo A2 (film ad alto budget ma non colossale) è probabilmente stretto alleato dell’euforia che si prova una volta in sala. I meriti sono sostanzialmente due: le battute che i personaggi si fanno durante l’avventura sono – rarissima avis – divertenti davvero, anche per i non decerebrati; e quel che si chiede a un fantasy (ovvero la fantasia, elemento quant’altri mai ignorato) si squaderna con un numero di mostri, di freak, di animaletti, di strampalerie, oggetti surreali e organismi metamorfici tale da stupire senza saturare. Poi c’è Michelle Rodriguez, che altro aggiungere?

SUPER MARIO BROS. – IL FILM

Se vi aspettate un Lego Movie o un Ralph spaccatutto, cioè una cosa capace di riflettere sul gioco e sull’industria dei consumi, abbandonate la sala. Illumination e Nintendo sanno che cosa serve: caso mai un logo movie, un fan service di massa, dove rispettare al millimetro mitologia e temi, senza un guizzo, senza una trasformazione, senza un contropiede. Peccato, però, che anche la cosa che riesce meglio ai padri dei Minions (gag talmente accelerate e intensificate da ottundere i sensi) qui si faccia fatica a trovare. Però almeno sapete dove trovare dei buoni idraulici nei giorni festivi.

ÉL

Ci sono voluti 70 anni per veder distribuito in Italia il ritratto di psicopatologia ideato da un Luis Buñuel al suo meglio nel periodo messicano. Ne valeva la pena. Il restauro (faticoso, visto lo stato della copia, che qua e là mostra le sue rughe in modo commovente) ci restituisce una specie di thriller della gelosia dove fanno capolino le perversioni care al regista, a cominciare dal feticismo podologico. Un maschio tossico che ne annuncia mille altri, una società gretta e ipocritamente religiosa, la famiglia come trappola, e un lato hitchcockiano che saetta avanti e indietro dentro un bianco e nero corrusco. Imperdibile.

LEILA E I SUOI FRATELLI

Il cinema iraniano sta di nuovo benissimo, anche se ovviamente soffre dentro una società soffocata dall’oscurantismo governativo. Saeed Roustayi taglia a strati con il coltello l’intreccio insolubile di tradizioni simboliche (più sociali che religiose, a ben vedere) e ricerca della sopravvivenza. La fratellanza in una famiglia dove il dinamismo è tutto dell’unica figlia donna è al tempo stesso un intrico e un melodramma, che Roustayi affronta in modo fluviale con quasi tre ore di dialoghi e confronti serrati – e con una macrosequenza di matrimonio di feroce satira monicelliana. Manca la lucidità teorica di Farhadi ma non se ne può fare una colpa.

L’APPUNTAMENTO

Sarajevo 2022, le ferite di guerra si insinuano persino dentro uno speed date che dovrebbe rimuoverle. Ma cosa succede se trovate un cecchino dall’altra parte del tavolo? La regista macedone Teona Strugar Mitevska costruisce un processo storico in una sola stanzona (squallida) dove le fantasie di distruzione e quelle di riconciliazione si attraggono e respingono come amanti fatti di mercurio. Le macerie sembrano vincere anche quando un sorriso amaro prevale, chissà. Troppe allegorie, troppi assoli, ma il messaggio (ebbene sì, il messaggio) arriva forte e non semplificato.

SCIAME

Donald Glover colpisce ancora. Appena abbandonata la comedy più inquietante di sempre (Atlanta), si infila in un ritratto mostruoso d’America, girato in pellicola e talmente crudo da ricordare John McNaughton. Eppure, in mezzo alla scia di sangue pitturata da una fan troppo zelante, si infiltrano massicce dosi di ironia, vere e proprie scosse elettriche di linguaggio indefinito, che sono la ragion d’essere di Glover – anche in fondo nella versione “Gambino”. Citiamo anche una meravigliosa Billie Eilish, dentro un episodio che è forse la scatola nera del tutto: e se l’America fosse una setta diventata nazione?

AZIONI, NOSTALGIE, LUOGHI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ARMAGEDDON TIME

Che James Gray sia uno dei più importanti registi contemporanei americani è assodato. Con questo ritratto semi-autobiografico, avvicinato a un The Fabelmans senza mito del cinema, lavora ancora più direttamente sulle sue ossessioni ricorrenti (famiglia, padri, conflitti culturali, viaggi erratici, memoria). Curiosamente, laddove pensavamo avrebbe dissolto ogni accademismo (C’era una volta a New York) e riguadagnato la libertà perduta (Ad Astra, soffocato dai produttori), abbiamo trovato invece un memoir trattenuto e insistente. Di cui si deve onestamente dire soprattutto bene, perché è un bel film. Ma Gray può essere molto meglio di così, meglio delle citazioni da Fellini e Truffaut e meglio delle strizzate d’occhio contro Trump.

JOHN WICK 4

C’è chi legittimamente rimpiange il John Wick pre-delirio, quello dove l’action veniva sì intensificato ma non portato al paradosso (sostanzialmente, il primo episodio e parte del secondo). Ma se caos dev’essere, tanto vale che sia come lo vediamo nel quarto capitolo del sempre più estremo Stahelski. Un body count inenarrabile ottenuto attraverso un parossismo gestuale e geometrico dove persino le pallottole devono essere conficcate a forza nel nemico. La scena della scalinata del Sacro Cuore – e in particolare la caduta infinita di Wick – sono la scatola nera del franchise. Cinematico e pronto per esami teorici più profondi.

DELTA

Fa piacere che ci sia chi opera ai fianchi i generi cinematografici, cercando di mettere insieme tradizione iconografica italiana e suggestioni cinefile internazionali. Il progetto della “scuola Rovere”, qui incarnato dal lucido Michele Vannucci, stavolta si sposta sulle terre del Po (decisamente note alla storia del cinema nazionale). Un po’ polar, un po’ De Santis, un po’ palude silenziosa, Delta alla fine è soprattutto un folk western di pregio, dove l’unico problema è di natura narrativa, con un terzo atto meno incisivo del previsto con rischio di anti-climax (si teme involontario). Lo Cascio prosegue nel suo viaggio dentro le cadenze italiane, Borghi rischia di interpretare sempre lo stesso orso asociale.

CLERKS 3

Nel post(u)moderno che segna questi anni a tutti i livelli, arriva anche Kevin Smith, con un capitolo straziante e flagrante a chiudere la trilogia dei commessi. Unire elementi demenziali e morte è gioco difficile, ci è riuscito Belushi con pochi altri. Smith comincia cazzeggiando, con una regia a dir poco statica, ma poi costruisce una totentanz punk nostalgica e pur sempre goliardica, fatta di fantasmi e di corpi che invecchiano male. Fino a una svolta meta-cinematografica da applausi, perché gestita con grande e disinvolta consapevolezza. Ovviamente ancora più significativa per chi aveva 20 anni nei Novanta.

LO STRANGOLATORE DI BOSTON

Dal capolavoro sperimentale di Richard Fleischer con Tony Curtis in split screen a un modesto tentativo di tornare sul caso ancora aperto degli omicidi di Boston di fine anni Sessanta. Incartato in un tradizionalissimo film di indagine giornalistica (che pure vorrebbe ripetere le atmosfere di un altro thriller dell’irresolutezza, Zodiac, senza lontanamente sfiorarne le vette), lo streaming movie finisce per essere poco più di un veicolo per Keira Knightley, supportata dalla sempre ottima Carrie Coon. Un po’ poco.

FLEISHMAN A PEZZI

Dimostrazione che la serialità in forma drama è forse l’approdo più credibile per il cinema indie-Sundance degli anni Novanta/Duemila. Non a caso qui ritroviamo due coppie di autori che hanno fatto un pezzetto di quella storia (Dayton/Faris di Little Miss Sunshine e Berman/Pulcini di American Splendor), alle prese con un ritratto denso e “malincomico” di un gruppo di quarantenni delusi dalla vita. Se Eisenberg ripete il personaggio post-alleniano, sono le due protagoniste a splendere, soprattutto Lizzy Caplan, attrice ampiamente sotto-utilizzata. La voce narrante del suo personaggio è anche un progetto politico di presa di parola femminile, contro lo strazio lamentoso del mancrying autoreferenziale.

VERA

Nuova incursione nel sottobosco umano di Covi e Frimmel, sempre in bilico tra materiali documentari e propensione alla scrittura narrativa. Stavolta però Vera si sposta nel mondo cafonal di una sensibilissima e colta figlia d’arte, che si presta a una curiosa autofiction gestita da altri. Paradossalmente, se dell’umanità di Vera Gemma non ci si può che inebriare (anche come processo di comprensione fisica del suo corpo), a mancare il bersaglio sono proprio gli elementi romanzeschi, che stridono e si palesano un po’ posticci. Quasi che, per rispetto della protagonista, gli autori siano rimasti al di qua sia del mélo sia del freak show.

TEMPI E CORPI ALLA FINE DEL MONDO

LA MAMAN ET LA PUTAIN

L’istante in cui la Nouvelle Vague si volse al nero. Un’epopea di parole e sesso, dentro poche stanze e un paio di bistrot, che comincia come una ronde amorosa con la gioia di inizio anni Sessanta e finisce con le schegge della disperazione dei primi anni Settanta. Impastato di vita, corpi e infelicità (Eustache si suicidò otto anni dopo, e il film stesso nasce da event luttuosi), il capolavoro si conferma tale, inquadratura per inquadratura (da rivedere su grande schermo a tutti i costi), con un bianco e nero che diventa sempre più pece man mano che avanza. Un film contro la filosofia del piacere culturale (chissà se Léaud capiva, recitando, quanto il suo personaggio fosse pessimo e idiota), dentro un cinema inventato da altri ma rivoltato come un calzino, indossato come guantone e sferrato come un pugno in faccia allo spettatore romantique.

DISCO BOY

Imponente esordio per un cineasta italiano non giovanissimo (40 anni), Giacomo Abbruzzese, che mette insieme una storia post-coloniale e internazionale che si svolge tra l’est europeo perduto nel populismo periferico (Bielorussia, Polonia), dentro una Francia razzista e guerrafondaia, prosegue nel Delta del Niger in guerra mistica, per finire di nuovo a Parigi tra i fantasmi africani. Film politico se ce n’è uno, con alcune idee che non dispiacerebbero a Carax (la lotta mortale fatta di infrarossi), capace di dire qualcosa di possente sull’Europa crocevia di disperati tra i quattro punti cardinali della civiltà. Citazioni evidenti dalla Claire Denis di Beau Travail. E premio meritatissimo a Berlino 2023 per la fenomenale Hélène Louvart alla fotografia.

LE MURA DI BERGAMO

Per “celebrare” i tre anni dall’inizio della pandemia, non ci sono solamente dibattiti e indagini giudiziarie. C’è anche il lacerante documentario di Stefano Savona, girato sia durante i momenti peggiori del 2020 in Lombardia sia nel dopo-virus (o quasi) mentre il tessuto urbano e umano devastato dal Covid cerca di elaborare il lutto. Peccato che il lutto sia stato solo rimosso; anzi il film riapre giustamente la ferita, ricordandoci che in quelle settimane assistemmo muti a forme di eutanasia, di selezione genetica, di strage, di annientamento dei corpi in una fiammata scioccante che – oltre a cancellare dalla faccia della terra migliaia di anziani – causò per sempre ferite a coloro che certe decisioni le dovettero prendere, abbandonati dal “sistema”. Ma anche un doc sincero e umano su come ricucire, come prendersi cura della memoria e in fondo perdonarsi. Sarebbe un peccato non vederlo solo perché non si ha voglia di ricordare, o – peggio – pensando a un dramma locale. “Tu non hai visto niente, a Bergamo”.

THE LAST OF US

Sarà anche per questo che ci è stato difficile appassionarci più di tanto al virus-videogame di HBO? Detta sinceramente: si tratta della miglior trasposizione possibile, e i due protagonisti sono a dir poco indovinati (Pedro Pascal è un attore limitatissimo, ma con quella faccia lì puoi trovare soluzioni espressive a qualsiasi gap tecnico; mentre Bella Ramsey è tutta la serie). Però, la ridondanza con Walking Dead, The Road (libro e film) e soprattutto Light of My Life di Casey Affleck pesa tantissimo nell’ovvietà delle varianti narrative. E non bastano i registi prestige del cinema d’autore internazionale (Jasmila Žbanić, Ali Abbasi) per alzare l’asticella, specie in episodi dove il body count trascende ogni vaga verosimiglianza, senza il coraggio di entrare in una modalità davvero visionaria. Comunque sono noticine un po’ severe di cui nessuno udirà lo stridio, visto il consenso amplissimo che come un’onda ci trascinerà alla seconda stagione.

SCREAM 6

Ultimamente ho ripreso ad andare in birreria. Non ne avevo troppa voglia, convinto di ritrovarmi gomito a gomito con un 99 % di persone troppo giovani. Poi – vinta la ritrosia – ho scoperto che nei pub dove andavo ci sono ancora quelli della mia età, che non hanno mai smesso, cui si sono aggiunte tutte le altre generazioni (come i cerchi nel tronco dell’albero). Ecco, Scream VI è la birreria: ci sono i reduci dal postmoderno anni ’90 che cercano d ritrovare Craven, quelli successivi che se ne fregano delle citazioni ma sono affezionati lo stesso, quelli di oggi che ci vanno per Jenna Ortega e per vedere un horror con due final girls non americane, e così via. Tanto Ghostface è solo una maschera, e sotto ci siamo noi a divertirci. Il più stretto rapporto tra domanda e offerta del cinema contemporaneo: nessuno pretende più di questo.

DI UOMINI, DI LUCI , DI MEMORIE E DI CORPI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE WHALE

Conferma quasi tormentosa della poetica corporea di Darren Aronofsky: il racconto claustrofobico cozza contro il fisico debordante (prostetico) di Brendan Fraser. Ci sono due film in uno: quello borghese, d’essai, da Oscar teatralizzato, e quello biblico, mostruoso, eccedente che piace al regista; cioè la fusione perfetta tra Madre! e Noah, bingo con cui Aronofsky frega chi lo aspettava di due varchi. Ultima nota: le metafore dei protagonisti in scena (cura, religione, famiglia, professione, arte) somigliano ai personaggi-allegoria di Bussano alla porta.

EMPIRE OF LIGHT

Maltrattato perché erroneamente paragonato a The Fabelmans (quando in verità non c’entra niente). La sala cinematografica di Mendes è principalmente lavoro: i commessi sono depressi o bullizzati, e la tenerezza tra due esclusi serve principalmente a un affresco intimo e storico sui primi anni della Thatcher. Poi c’è anche la parte tornatoriana della proiezione salvifica, ma tutto sommato attutita dalla prova mostruosa di Olivia Colman (mi spiace per chi lo ha visto doppiato), dalla fotografia semplicemente prodigiosa di Roger Deakins (che torna alle sue prove da fotografo di provincia) e dalla musica di Reznor e Ross, puramente pianistica e ormai estranea a ogni rumore industriale.

SHARPER

Nessuno ha ancora capito quale sia il pubblico del “cinema” di Apple+TV, che continua a finanziare un sacco di titoli a fondo perduto. Questo thriller che sembra tornare al postmodernismo narrativo dell’epoca fincherian-soderneghiana anni ’90 (senza averne minimamente la politicità) funziona solo come pleasure nemmeno troppo guilty. Mangiata la prima polpetta avvelenata, lo spettatore scafato – o anche solo sveglio – non tarderà a prevenire il meccanismo. Ovviamente Julianne Moore vale sempre il biglietto (o mezzo abbonamento).

MIXED BY ERRY

La premiata ditta Rovere/Sibilia continua a macinare cinema e serialità con un’esuberanza progettuale che va celebrata. Non sempre le ciambelle escono col buco (doloroso il passo falso di L’incredibile storia dell’Isola delle rose), ma c’è l’intelligenza di applicare sempre la stessa idea (storia vera di giovani che sfidano la legge attraverso forme creative) in diversi contesti storici e geografici. Qui funziona quasi tutto, anche se con eccessi di durata, a cominciare da attori e vicenda, che sfiora la dimensione teorica: il falso che viene autenticato solo quando viene a sua volta falsificato.

LAGGIÙ QUALCUNO MI AMA

Il documentario d’autore sui grandi del cinema italiano si sta divaricando tra i grandi nomi che vi si applicano (Tornatore, qui Martone) e i più piccoli che combattono la loro battaglia sullo stesso campo (Alessandro Bencivenga, Francesco Zippel, ecc.). Merito di Martone è di fare sostanzialmente un video-saggio pacato e profondo su Troisi, lasciando parlare molto le sue sequenze più belle, facendo interviste acute, mostrando cinefilia – e la presenza dei critici di Sentieri Selvaggi ne è riprova. Tradizionale, sì, ma in certi momenti irresistibile per come penetra la filosofia troisiana.

CALL MY AGENT

Il problema era noto. Una serie di questo tipo può innalzarsi dall’inside joke solo se dimostra che il cinema vive in un habitat dove lo star system e il dinamismo del pubblico sono evidenti. Visto che da noi così non è, la serie deve per forza adattare l’originale francese sfruttando i pochi divi riconoscibili, da Accorsi a Favino, da Cortellesi a Sorrentino, che stanno al gioco con innegabile simpatia ma con risultati scolastici, quando non sempliciotti. Possiamo dire che comunque si cade in piedi, viste le premesse? Forse sì, ma è come quando a Masterchef gli aspiranti cuochi cercano di replicare il piatto del grande ospite: bravini e basta.

GENERI, POLITICHE, COMUNITÀ IN CONFLITTO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

GLI SPIRITI DELL’ISOLA

Ossessionato dalle simmetrie e dai concetti che vengono frammentati e affidati a singoli personaggi, McDonagh torna nella sua Irlanda teatralizzata e compone un raccontino dell’assurdo amato da tutti. Purtroppo, però, non basta un protagonista che si mozza le dita per ferirci veramente. E nemmeno le mossette di attori che scambiano l’ironia beckettiana per umorismo dark commestibile. Non parliamo poi dell’ecumenismo paternalistico sulla guerra irlandese: un po’ colpa di tutti e in fondo dei soliti maschi bellicosi? La tragedia di un popolo barattata per apologo che distribuisce le colpe facili facili.

BUSSANO ALLA PORTA

Passo indietro sconcertante di un autore sempre un passo avanti, specie nei film più vituperati e sabotatori. Autocitando The Village, E venne il giorno e Signs, Shyamalan scoperchia la sua dimensione politica ma offre il fianco ai pericoli. I suoi aggressori gentili, alcuni omofobi altri simpaticamente folk, sono biblici fin dalla prima mezzora, senza nessuna rivelazione cinefila. Sarebbe comunque solo un capitolo più standard del solito se non fosse per il rischio (non evitato neanche facendo ricorso a qualche effimera ambivalenza) che diventi il cult millenarista dei Qanonisti. Benissimo satireggiare l’élite borghese che ama Pfizer e Biden (sebbene bastasse Servant), ma far torturare due gay con il sorriso sulla bocca e glorificare l’indole compassionevole del potenziale martire omofilo sembra la cosa più cringe che M. Night abbia mai fatto. Poi ognuno scelga con che occhi guardare, naturalmente, ma la lezione scopertissima sul concedere fiducia ai discorsi che non vogliamo ascoltare è un tradimento dell’ambiguità shyamalaniana.

GIGI LA LEGGE

Il vero film del momento è il terzo dell’inclassificabile Alessandro Comodin. Ogni discorsino da convegno sui confini tra reale e finzione del doc contemporaneo viene centrifugato dalla spiazzante autenticità astratta del mondo messo in scena. In una provincia friulana che si situa tra Twin Peaks, Bruno Dumont e la natura di Apitchapong W., si muove Gigi la trottola (o Gigi il polizotto) tra strani suicidi, tempo perso nell’abitacolo della volante e surreali dialoghi col vuoto o con la ricetrasmittente. Appena pensi che sia un ritratto umoristico di un fool ti ritrovi di fronte alla complessa, inquietante umanità del protagonista, che è quel che sembra e fa esattamente la vita che vediamo davanti allo schermo. Eppure è come una terra vista dalla Luna, o quanto meno una realtà duplicata cui attingiamo senza essere davvero vicini a toccarla.

GREAT FREEDOM

Arriva su MUBI il candidato austriaco all’Oscar 2022, una storia esclusivamente al maschile che racconta la persecuzione e la vita carceraria di un omosessuale dal dopoguerra a fine anni Sessanta. Spedito direttamente dal campo di concentramento alla cella (in democrazia puoi tornare a essere ebreo ma non gay), Hans non può fare a meno di desiderare, e rifiuta la deprivazione sessuale. Incontrerà amanti e amici, uno in particolare che gli farà trovare la libertà dietro le sbarre. Ecco la differenza tra i film “civili” che fanno il compitino e i film che se ne fregano di illustrare tutto, preferendo spiegarsi con il cinema (inizio e finale in tal senso sono da proiettare nelle scuole di regia).

YOU PEOPLE

Il materiale c’era tutto: una commedia Netflix in epoca di segregazione reciproca tra gruppi sociali e culturali, una storia d’amore alle prese con quest’America impazzita e rancorosa, una satira delle due borghesie (ebraica e black) vittime degli stereotipi e del reciproco hate, un sacco di facce che si è felici di ritrovare (da Julia Louis-Dreyfus a Eddie Murphy, da Nia Long a David Duchovny, con un cammeo persino di Elliott Gould). Purtroppo una regia/montaggio da studenti del college e un terzo atto irricevibile sprecano il meglio. E Jonah Hill dovrebbe capire che ormai a 40 anni la recitazione nerd non funziona più.

AUTORI TRA STRADE, LINEE E CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’INNOCENTE

Il miglior film di Louis Garrel da regista non somiglia in nulla (giustamente) a quelli del papà. Il modello è il cinema borghese romantico, ironico e con venature di poliziesco di una certa tendenza francese anni ’70 (un mix consapevole di Sautet, Zidi, Lautner e altri). Se lui è simpatico ma gli romperesti il muso, trionfano piuttosto Anouk Grinberg e Noémie Berlant, esilaranti e passionali. Una prova di maturità in leggerezza, segno di intelligenza.

AUDITION

Rivedere Audition oggi non toglie “peso” all’esperienza, anzi. Cresce la politicità del racconto di Takashi Miike, mentre la violenza occupa un gradino meno essenziale rispetto al discorso che era necessario fare negli anni Novanta (ah, quanto ci mancano, cinematograficamente parlando). Più in generale, pur non essendo il titolo più importante di una filmografia caotica e dalle gerarchie imprendibili, c’è un motivo se dopo un quarto di secolo ci si dà la pena di ridistribuirlo.

STRADE PERDUTE

Si temeva che sul grande schermo il restauro 4K potesse smarrire la densità dei neri, ma per fortuna – visto che Lynch ha supervisionato il lavoro – continua ad essere il buio più materico e bello mai visto nel cinema contemporaneo. Oggi, in epoca bacchettona, arriva alle viscere soprattutto come opera sensuale, con Patricia Arquette vero perturbante erotico irriducibile, vero fantasma del desiderio nella totentanz freudiana che maestro David apparecchia per noi.

COPENHAGEN COWBOY

A Lynch deve molto anche Nicolas Winding Refn (anzi, NWR) con la sua sinuosissima serie Nerflix girata in Danimarca. Non estrema, osata e delirante come Too Old to Die Young, che era una specie di Scorpio Rising di ore e ore, Copenhagen Cowboy ne mantiene comunque l’idea di base: la serialità streaming può anche essere arte contemporanea in vitro, video-installazione in coma narrativo, tra Bruce Lee e la Marvel, tra Damien Hirst e il fashion film, tra le carezze techno di Cliff Martinez e il grugnito horror dei maiali affamati di carne umana. Fuck yeah.

KIMI

A pagamento su piattaforma arriva la penultima fatica di Soderbergh, nuova variazione claustrofobica sul rapporto tra uomo, capitale, architettura sociale e dispositivi di controllo. Leggermente meno ispirato del solito (a cominciare dal tema virale non sfruttato alle consuete altezze), rimane in ogni caso un sontuoso esempio di cinema da camera, di pressione psicologico-stilistica in spazi ristretti, un meta-film su Soderbergh autore solitario, al limite, confinato.

TRIESTE É BELLA DI NOTTE

Conquistato sul campo, il rispetto di cui gode Andrea Segre con i suoi documentari viene confermato da questa indagine sull’immigrazione della rotta balcanica. Utile, perché l’opinione pubblica si concentra sul Mediterraneo, e qui emergono storie atroci e ingiustizie ulceranti. Interessante la questione dei regolamenti, affrontata con precisione: i migranti accusati di illegalità sono respinti il più delle volte infrangendo la legge da parte dello Stato italiano.

LA LIGNE

Ossessionata dai segni sociali, dai confini e dai perimetri, Ursula Meier mette in scena una livida e sarcastica storia di tensione madre/figlia. Comincia con una magistrale scena di lite domestica, prosegue come ritratto di una giovane donna dal cazzotto facile e dal carattere spinoso, evolve come un mélo surreale, finisce ottenendo lacrime musicali. Vista la materia, avremmo sognato un minor auto-controllo registico su tutta la materia isterica, ma avercene di autrici così lucide.

DESIDERI MALINCONICI E GROVIGLI NELLO STOMACO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

UN BEL MATTINO

Come sarebbe stato questo struggente racconto senza Léa Seydoux? Inutile chiederselo, per fortuna lei c’è e illumina un personaggio femminile forte e al tempo fragile con ascendenze più da Téchiné che da Rohmer. Hansen-Løve a soli 40 anni ha già una filmografia ricchissima, chapeau. Dopo gli arzigogoli teorici di L’isola di Bergman, qui ritrova naturalezza, precisione e strazio, pescando nuovamente dal lato autobiografico da cui partì. E riscopre un Melvil Poupaud corpo cinefilo.

GODLAND

Quello di Hlynur Pálmason è uno dei pochi “film panici” di questi tempi. Mentre viaggi con i protagonisti nella natura più inospitale, dura e possente, ti chiedi a ogni istante come abbiano fatto a girarlo (pellicola, formato quadrato, sembra quasi di respirare la natura). Quando l’impervia missione si arresta, la storia di comunità e lacerazione convince meno, ma l’attraversamento in purezza merita generosità. Da vedere rigorosamente in originale (tutto ruota intorno al confronto linguistico tra islandese e danese).

AFTERSUN

Periodo di film scritti sull’esperienza, quasi tattili, che ti aggrovigliano lo stomaco. Fulminante esordio di Charlotte Wells, impregnato di dolore, raccontato con un minimalismo carico di malinconia e tensione difficilissimo da ottenere. Squarcio di una vacanza tra figlia pre-adolescente e padre separato dove si dice tutto tra le righe, lasciando che il momentaneo spieghi l’universale, in una terra di nessuno turistica ma dolorosa. Mettersi di traverso perché “troppo pompato” è robetta da social. Guardatelo.

THE PALE BLUE EYE

Scott Cooper si conferma il regista che poteva ma non troppo. Una filmografia carica di quasi-grandi film (Hostiles, Il fuoco della vendetta) e di terribili scivolate (Black Mass, Antlers) sfocia in questo streaming-prestige Netflix con Christian Bale e un cast di glorie sullo sfondo. Storia gothic western, con Edgar Allan Poe come personaggio (la cosa peggiore), non si può dire che sia trascurato o che ignori lo stile. Eppure rimane congelato tra le nevi che ingoiano il paesaggio.

MA NUIT

Altro film esperienziale e impalpabile. Antoinette Boulat racconta una generazione in una passeggiata notturna, con un lutto sullo sfondo (quanti lutti nei personaggi di oggi). Non sono diciottenni da Nouvelle Vague (che erano anzi più grandicelli) ma giovani melanconici in cerca di un presente che sfugge e di senso, dentro una topografia che li guarda con una qualche indifferenza. Dal confronto nasce voglia di esistere, e fare filosofia spicciola in fondo è un modo per amare la vita.

NEZOUH

Il cinema originato dalla tragica guerra in Sira (buco nero dell’umanità nel secondo decennio del secolo) comincia a slittare dal dato documentario, urgente, a quello metaforico, esistenziale. Il buco nel soffitto che si crea dopo un bombardamento squarcia un tetto di dinamiche sociali, e comunitarie, soffocanti. Troppo realismo magico, certo, ma anche un contenitore di rilievi sulle contraddizioni della ribellione (i civili come scudi umani designati, la dimensione patriarcale come unico orizzonte) non banali.

LE VELE SCARLATTE

Il più semplice dei film di Pietro Marcello, e non è detto che sia per forza un bene. Adattando con una certa libertà l’omonimo romanzo di Aleksandr Grin, l’autore conferma la voglia di fuggire dal contemporaneo, che emergeva qua e là in Martin Eden (dove lo schiacciamento del ‘900 era un anacronismo era voluto per salutare il secolo perduto). Quell’urgenza romanzesca sembra, però, attutita e ovattata, e la produzione francese rischia di imprigionarlo in un accademismo medio che è il contrario esatto della sua poetica.

CLOSE

I bambini si guardano: è proprio da uno sguardo tra ragazzini troppo indagatorio che nasce la tragedia della definizione di sé. Dhont è un tipo di autore che non lascia nulla sullo sfondo. La sua delicatezza di tocco e la naturalezza ottenuta dai giovanissimi protagonisti sono doti certe, confermate. Peccato per una narrazione così piana, e soluzioni drammaturgiche così ovvie. La presenza dolente di Émilie Dequenne (ex-Rosetta) intenerisce.

I MIGLIORI FILM DEL 2022

Come ogni anno, ecco la classifica dei migliori film dei dodici mesi passati. Si tratta di una top 20, con dieci “posti caldi” utili per misurare la bontà artistica di ciascuna annata. I titoli presi in considerazione hanno avuto distribuzione ufficiale in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2022, in sala e su piattaforma, purché inediti. Non entrano in classifica film visti ai festival non distribuiti. Dunque la datazione di alcuni dei film, anche quando è precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.

I MIGLIORI DEL 2022

Dieci posti caldi sparsi (dopo, oltre, a lato dei venti migliori): Alcarràs, Bardo, Blonde, Californie, Fairytale, Forever Young, La timidezza delle chiome, Triangle of Sadness, Saint Omer, Tromperie

20) Men

19) La fiera delle illusioni

18) Tori e Lokita / Tredici vite (ex aequo)

17) Vortex

16) Memoria

15) La notte del 12

14) Avatar – La via dell’acqua

13) Bones and All

12) Esterno notte

11) Apollo 10 ½

10) Top Gun – Maverick

9) Pinocchio di Guillermo Del Toro

8) Crimes of the Future

7) Un eroe

6) Spencer

5) Quel giorno tu sarai

4) Licorice Pizza

3) The Fabelmans

2) Nope

1) Gli orsi non esistono

Schegge di cinema (tra i film non in classifica):

Lo sguardo malinconico di Carrie-Ann Moss in Matrix Resurrections, i topolini di The House, l’acqua di Piccolo corpo, l’eclisse di Occhiali neri, quando Morricone canticchia in Ennio, il primo episodio di Il male non esiste, il panda rosso di Red, la pressione temporale di Full Time, il décor di Flee, il sole in Sundown, l’inseguimento su ghiaccio di Granchio nero, le installazioni di Finale a sorpresa, i deltoidi di Alexander Skarsgård in The Northman, gli sfondi di Il naso, le camminate di Nostalgia, la prima cena di Fresh, gli occhi di Dakota Johnson in Cha Cha Real Smooth, ogni singola espressione di Adam Sandler in Hustle, la sessualizzazione del pubblico in Elvis, quando i dinosauri sbattono in curva in Jurassic World – Il dominio, i titoli di testa di Minions 2, Pasolini che c’è senza esserci in Il signore delle formiche, Dépardieu in Maigret, le piaghe in Dante, Pinocchio nel Pinocchio di Zemeckis, Virginie Efra ovunque, il bagel in Everything Everywhere All at Once, il primo piano-sequenza di Athena, il rispetto del corpo in La vita è una danza, il flash-back sulla Prima Guerra mondiale di Amsterdam, i fuochi arancioni nel bianco e nero di Emancipation, Ficarra e Picone in La stranezza, gli infrarossi di la pantera delle nevi, la prima sera all’Airbnb di Barbarian, le ossa spaccate di Spaccaossa, l’uccellino di Perfetta illusione, le barbe di Le otto montagne, tutte le Ucraine viste al cinema quest’anno….e mille altri baluginii.

IL GIRARROSTO DEI FILM DI FINE 2022

Con la consueta brevità, ma con un orizzonte amplissimo (che copre quasi tutto dicembre), andiamo a recensire a zigzag moltissimi titoli di fine anno – ricordando che per i titoli più celebrati (come i film di Cameron e Spielberg) trovate approfondimenti specifici in video e in audio su questo stesso sito.

BARDO

Maltrattato e quasi appestato al grido di “basta con i deliri d’autore permessi da Netflix”, Alejandro González Iñárritu – il grande “irritante” della cinefilia – esplode un colpo magniloquente, autoreferenziale e indulgente. Ma lo fa con talento, riflettendosi come Storia del Messico ambulante (non è mai stato molto umile), intrecciando visioni su visioni – e molte sono azzeccate – con particolare predilezione per la “disproporzione” dei corpi e delle epifanie. Siamo sicuri che questo limbo sia tanto peggio di quello di Sokurov?

FAIRYTALE

Tanto di cappello a questo dialogo tra anime in pena dei dittatori del Novecento (ma c’è anche Churchill, che forse dovrebbe svettare di più rispetto alle altre cariatidi assassine), gestito come una specie di sublimazione di Gustave Doré e dei fotomontaggi di Striscia la notizia (absit iniuria, del resto è Sokurov che ci fa vedere Hitler al cesso e Stalin che piscia all’orinatoio). Scherzo intellettuale riuscito, al limite della beffa; ma i capolavori del suo cinema passato sono sideralmente lontani, e sarebbe un peccato paragonarlo a quelli.

EMANCIPATION

Strano racconto post-Ferrovia sotterranea (romanzo che ha cambiato parecchie cose dentro la letteratura nera), dove l’azione di Antone Fuqua si mescola a una ricerca estetica in stile Barry Jenkins e con la rappresentazione ferina della violenza cui siamo abituati ai tempi di BLM. Will Smith che parla in creolo sfiora la parodia, ma il bianco e nero con fiammate coloristiche di Robert Richardson merita quasi un film a parte. I titoli di Apple TV+ continuano a circolare poco e a non creare dibattito.

SAINT OMER

Via imprevedibile al cinema processuale. L’imputata è al tempo stesso vittima e carnefice di un delitto indicibile, che diventa dicibile grazie al linguaggio e alla liturgia della giustizia (e della macchina da presa). Chi ascolta indaga, prima su di lei e poi su se stessa. E alla fine il respiro che esce dal confronto tra le due donne è eminentemente tragico. Per una volta la citazione della Medea pasoliniana – che compare a un certo punto – è collocata con tutto il suo senso.

LE PUPILLE

E il Pasolini (quello degli episodi in particolare) è presente anche nel delicato e riuscito mediometraggio di Alice Rohrwacher. Si rischia lo snobismo a dire che la regista sembra in stato di grazia soprattutto con i formati corti? Certamente colpisce trovare il marchio Disney+ su questo lavoro a metà tra modernismo, sacralità laica e arte povera. Le orfanelle in triste festa raccontano un cinema che merita di esistere e che somiglia a pochi altri.

LE OTTO MONTAGNE

Difficile collocare questa trasposizione di straordinaria omologia: i pregi e i difetti del romanzo di Paolo Cognetti sono i medesimi del film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Curiosamente, proprio lo sguardo sulla montagna oscilla tra potente autenticità e suggestioni da discount (le canzoni “indie” sullo sfondo). Salvano il tutto Borghi e Marinelli con un’amicizia maschile e mascolina che commuove, senza ambiguità né tossicità.

EO

Ci si sente un po’ isolati a non amare affatto il percorso dell’asinello di Skolimowski. Dopo Gunda e Cow, però, la riflessione sullo sguardo animale subisce qui un arretramento netto, con oggettive e soggettive (per di più con animali che cambiano visibilmente di scena in scena) nelle quali la lezione bressoniana è dispersa senza essere sostituita. E lo sfondo dell’Europa nazionalista, smembrata, sembra più una suggestione (caoticamente scritta) che un discorso importante.

ERNEST E CELESTINE – L’AVVENTURA DELLE 7 NOTE

Non c’è più Pennac in scrittura, ma il mondo creato da Gabriel Vincent – seconda trasposizione in dieci anni – non perde in sensibilità e levità. L’orso e la topina sono alle prese con un villaggio (una heimat) piombato nell’oscurantismo e nel divieto di fare musica. Conflitti famigliari, sociali e politici fanno capolino senza troppi eufemismi, risolti con coraggio, determinazione, delicatezza. Lo sguardo sul popolo non è buonista, e allarga comunque il cuore.

STRANGE WORLD

Ormai impossibile analizzare l’animazione Disney (non Pixar, s’intende) con la lente della continuità. Dal primo grande successo dell’era streaming (Encanto) a questo flop privo di senso e di senno. Non che di per sé sia mal diretto, mal scritto, mal animato: è proprio che si sentono le unghie sugli specchi, per non parlare di una cultura inclusiva gestita in modo così maldestro da risultare omofoba. Urge fare un sospiro e decidere a che pubblico si parla (sala o salotto)?

IL GATTO CON GLI STIVALI 2

Ben pochi sentivano il bisogno del ritorno di Gatto undici anni dopo. Nel finale si capisce che probabilmente è solo la scusa per rilanciare lo Shrek Universe prendendola larga. Eppure alla fine gli stivali cadono in piedi: se l’animazione zoppica, la riuscitissima storia (molto chiaroscurale, con il tema della paura di morire ben al centro) ci ricorda come la Dreamworks sia maestra di racconti filosofici arrischiati (leggersi l’analisi di Kung Fu Panda fatta da Zizek).

IL GRANDE GIORNO

Aldo, Giovanni e Giacomo hanno un pubblico e una critica così indulgenti che vengono analizzati come Ionesco. Da un po’ effettivamente sembrano usciti dalla crisi, e stavolta – grazie a una sceneggiatura affilata, amara, tragicomica – indovinano approccio ed equilibri (anche rispetto agli altri personaggi). Peccato per una regia che non sta al passo del testo, come spesso è accaduto a Venier. Ma, se lo spettatore non rovina il matrimonio guardando alla bomboniera sbeccata, funziona.

NATALE A TUTTI I COSTI

Un gradino sotto, pur senza infamia, c’è lo sbarco di Christian De Sica su Netflix. Nessun cinepanettone: si tratta dell’ennesimo remake italiano di commedia europea (francese), con buon spirito di adattamento. Anche qui (per fortuna) non mancano commenti acidi e rappresentazioni veritiere del cinismo filiale e delle famigliole di provincia. Tutto peraltro molto semplice, domestico, risolto in 80 minuti o poco più. Al cinema avrebbe probabilmente fatto il suo.

GLASS ONION

Come il primo, ma peggio: tutta l’inutile arguzia dell’operazione di Rian Johnson si riconosce per metonimia in Daniel Craig. Un attore che cerca di essere lepido, spiritoso, dotato di una cialtronaggine geniale, un autismo creativo, una mente sopraffina dentro un tipo maldestro. Recitazione auto-indulgente, primi piani di smorfie, personaggio opaco. Il resto è un costoso divertissement dove il lettore di gialli farà al massimo una scoperta, restando due ore e mezza ad aspettarne altre che non arrivano.

WHITNEY

Forse il peggior film del 2022 (se la memoria non ha operato provvidenziali censure). Immaginate tutto quello che detestate dei biopic quando non funzionano, moltiplicate per dieci, aggiungete il cast meno riuscito del secolo, condite con una sceneggiatura cui mancano otto o nove stesure, ed ecco Whitney. L’idea che una vita così talentuosa e controversa diventi una serie di highlights stile DAZN, con annessa geremiade contro i vizi, fa arrabbiare. Molto.

SPIRITED

A sentir ancora parlare di Scrooge si mette mano alla pistola. E non è che Spirited (filmone di Natale di Apple TV+) riesca a vincere gli sbadigli preventivi. Ma è anche un musical scritto da due tipi di nome Pasek & Paul, strapremiati a Broadway, compositori per Hollywood e parolieri delle canzoni di La La Land. E infatti questo lato del fim denota cura e qualità, con il rispetto che si deve al concetto più professionale di intrattenimento. Prima di tornare al torpore.

PERFETTA ILLUSIONE

Corsicato torna al cinema: già di per sé una buona notizia. Se poi il regista napoletano si sente libero di volteggiare nel noir, nell’erotico, nel dramma, fottendosene di generi e forme della produzione italiana contemporanea, è ancora meglio. Certo non tutto fila liscio, e la storia cade e si rialza varie volte, con forte richiesta di sospensione dell’incredulità. Eppure si respira una gran voglia di cinema, e la cornice (teorica) dell’uccellino illuso è un colpo di genio.

CHIARA

Apparso come un miracoletto votivo per poco in sala, il terzo ritratto storico femminile di Susanna Nicchiarelli è quanto di più rosselliniano si possa immaginare. Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano (occhio a questi due attori di grande ricettività e tenerezza) offrono a Santa Chiara e San Francesco una dimensione di trasparenza flagrante. Il femminismo di Chiara è una fonte pura, semplice, non un comizio. La chiave pop serve a poco, ma non stona. Altro cinema-UFO, in Italia.

FILUMENA MARTURANO

Continuano le nuove versioni RAI (ora Raiplay) delle opere di De Filippo affidate a registi di oggi. Filumena è un testo più “largo” e meno composito di Cupiello e degli altri mirabilmente reinvetati da Edoardo de Angelis (televisione sperimentale travestita da teatro pubblico). Quindi Francesco Amato ha gioco più semplice, anche se poi si fa presto a rovinare tutto. E Amato non rovina nulla, aiutato da due fuoriclasse come Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo.

IL CORSETTO DELL’IMPERATRICE

I tempi sono cambiati, e la Sissi di Romy Schneider non può più esistere se non nei salotti dei nostri nonni. La Sissi di Vicky Krieps è inquieta, manipolatrice, sensuale, ingorda, annoiata, sociopatica e vagamente odiosa. Nel solco di Maria Antonietta, anche lei scombina i piani del cinema in costume, pur compiendo lo sberleffo con snervante insistenza. La protagonista, eccezionale, merita un presente radioso. Il film un po’ meno.

VIZIO DI FAMIGLIA

Se non c’è più Chabrol, bisognerà pure tenere accesso il caminetto del chabrolismo. Ci pensa Sebastien Marnier a imbastire una storia dove si gioca con le nostre attese “solari” nei confronti di Laure Calamy, poi si finisce in un tritacarne altoborghese, poi si scoprono altarini proletari, e alla fine si fa un falò di tutto e di tutti. Peccato per alcune svolte claudicanti e una costruzione drammaturgica non sopraffina, che non precludono però di assaporare un po’ di buon fiele.

NANNY

Noi accademici dovremmo amare gli horror accademici. Questo poi è scritto e diretto da un’antropologa, Nikyatu Jusu, di cui pensiamo il meglio possibile. Ma ci sarà poi molto da inventare su una “servant” senegalese a servizio presso una ricca famiglia WASP? Ovviamente, visto che si fa sul serio, si evitano jump e viscere, col rischio che rimangano solo pericoli ancestrali e sogni irrazionali. Il Peele-ismo, come fu per il Tarantinismo, è un’altra forma di exploitation, sia pure piena di messaggi condivisibili.

IL MODERNO E L’ARCAICO NEL CINEMA DELLE ESPERIENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TORI E LOKITA

Sempre i soliti Dardenne? Mica tanto. La trasformazione da autori del “survival estremo” nel capitalismo europeo contemporaneo a osservatori entomologici dell’esclusione umana si è compiuta. Bressoniano fino al midollo, l’ultimo lavoro è un meccanismo di spazi concentrazionari, separazione tra sé e società, espulsione e annientamento dell’ospite, il tutto filtrato da uno struggente rapporto fraterno senza ius sanguinis. Davvero un peccato la sufficienza con cui è stato accolto.

MONICA

Andrea Pallaoro rimane un enigma. Cineasta chiaramente orientato al “film da festival”, compone ritratti femminili glaciali e intensi di cui si può dire solo bene. Eppure, anche qui, con due straordinarie protagoniste, la perfezione formale e la struttura da mélo inscatolato in un frigorifero in 4:3, tutto rimane impeccabilmente dentro i binari che ci si aspetta dalle prime inquadrature. Fin dove si potrebbe spingere, se volesse?

DIABOLIK – GINKO ALL’ATTACCO!

Siamo tornati in breve tempo alla goliardia di Coliandro. Tanto il primo episodio aveva lodevolmente cercato la via di un cinema lounge e a strisce orizzontali, tra cocktail culture ed extravaganza noir, quanto questo la butta in caciara. Se si punta sul racconto d’avventura, mancando sensualità e sangue, si va a finire in una terra di nessuno dove le astrazioni postmoderne diventano zavorra. E il budget ridotto si sente tutto (come l’assenza di Marinelli).

IL PRODIGIO

E alla fine questo autore cileno, Sebastián Lelio, che per noi europei superficiali sembra sempre il cugino meno importante di Larraín, andrebbe considerato con maggior attenzione. Specialista in ritratti femminili, dirige una sempre più magnetica Florence Pugh, infermiera, dentro l’irrazionale di un villaggio irlandese del ‘600. Tra miracoli e scetticismo, il tema è l’indagine visiva, con una riflessione non banale sul (futuro) pre-cinema.

SPACCAOSSA

Ficarra e Picone cominciano davvero a stupire. A loro si deve molto del tono malinconicamente sottile di La stranezza, a loro si deve anche parte della scrittura di questo durissimo racconto di emarginati palermitani. Il titolo dice già molto, sia della trama sia del senso profondo dell’esordio di Vincenzo Pirrotta. Un microcosmo di vittime ferite e carnefici ammaccati che corrono come criceti dentro un’esistenza socialmente segnata. Notevole.

THE MENU/BOILING POINT/THE BEAR

Li mettiamo tutti insieme, i tre racconti sugli chef di queste settimane. Si salva solo la serie The Bear, peraltro sopravvalutatissima, ma almeno con una sua idea di legare cibo e dolore, trash food e ricerca del gusto, famiglia in lutto e culture alimentari. Invece Boiling Point maschera con il piano-sequenza la stessa tensione narrativa di una qualsiasi puntata di Masterchef (non è ironico, è proprio così). The Menu, il più sciocco, liquida una discreta intuizione sul sadismo sociale del mito culinario in nome di un grand guignol gestito con troppa indulgenza verso l’horror chic da social media.

CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA

Conoscerlo a memoria non giustifica un’eventuale assenza di fronte al nuovo restauro 4K di Warner Bros. Tutto è diventato classico, in questo capolavoro. Eppure, dentro il perfetto congegno, scorre una vena di modernismo irriducibile, con una spinta al cambiamento (artistico e sociale) molto in anticipo sui tempi. Donen e Kelly sono l’essenza stessa del musical, il resto lo portano in dote il cromatismo ipnotico del reparto foto-scenografico e soprattutto le creazioni di quattro geni: i librettisti-sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green, gli autori di canzoni Nacio Herb Brown e Arthur Freed.

REGNI, NASCONDIGLI E PRIGIONI: FASI DEL CINEMA E DELLA STORIA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BLACK PANTHER: WAKANDA FOREVER

Una buona notizia c’è: è finita l’orrenda fase 4 della Marvel, che verrà ricordata come il regno della confusione progettuale. E si chiude con un film altrettanto caotico, pur se apparentemente unificato dall’afro-estetica (che puzza di appropriazione culturale tanto quanto altri prodotti più discussi). Per il resto, la sostituzione di Boseman è pigra e prevedibile, il cattivo un Aquaman a rovescio, l’enfasi subacquea messa lì per lanciare Avatar 2 e la de-colonizzazione un washing aziendale imbarazzante (con finale reazionario). Da dimenticare in fretta, a meno di prenderla come passerella di 160 minuti per i magnifici costumi di Ruth Carter, un film nel film.

BARBARIAN

Piccolo caso horror del dopo-estate americana, arriva su Disney+ da noi un po’ in sordina. Con una certa condiscendenza, si possono apprezzare alcune cose: il roller coaster narrativo, con un gioco in contropiede sulle aspettative identitarie – decisamente riuscito nella prima parte; una qualche spudoratezza nel progetto, senza troppa paura dei rischi di ridicolo; il ritorno di facce come Justin Long (e come il personaggio riequilibra il dominio di genere). Pochino? Nella gravissima crisi dell’horror contemporaneo ci si accontenta.

ARGENTINA 1985

Il dilemma della critica di fronte a questi film si ripresenta come il sangue di San Gennaro. Chi potrebbe voler male a un vibrante racconto (su Prime Video) del processo che inchiodò i generali della dittatura argentina negli anni Ottanta? Chi siamo noi per vare le pulci a qualsiasi cosa giri Ricardo Darín? Eppure, il dritto per dritto non concede nulla a un cinema mai meno che frontale e didattico. Insomma, siamo lontani dalla reinvenzione del cinema civile di No – I giorni dell’arcobaleno.

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

Non so se, senza 1917, sarebbe tornata in auge la Prima Guerra mondiale nei film contemporanei. Certo che tornare a Remarque non è una cattiva idea, anche solo per ricordare che là dentro c’era già tutto. La trasposizione nell’epoca dello streaming (Netflix) tuttavia non giustifica gran che il ricorso al modello, mancando di qualsiasi pensiero profondo sul conflitto. Grazie al parossismo e a ottime scene di battaglia (specie negli spazi stretti della trincea) si resta comunque ammirati.

CAUSEWAY

A dimostrazione che lo streaming (Apple+ in questo caso) sta assorbendo distributivamente anche l’indie-cinema americano, ecco un classico Sundance-movie dove si parla molto e si osservano micro trasformazioni psicologiche nel rapporto tra due personaggi ai limiti della società. Detta così sembra deludente, e invece il minimalismo funziona sempre quando è acuto, sottile e critico. Jennifer Lawrence e soprattutto Brian Tyree Henry sono superlativi, ma basterebbe la scena del colloquio in carcere per volere bene al film di Lila Neugebauer.

IL PIACERE E TUTTO MIO

Non so se disperarmi perché nel 2022 c’è bisogno di un film del genere per spettatori con seri problemi di progresso sociale, o perché nel 2022 il cinema d’essai pensa che ci sia bisogno di un film del genere (anche se siamo di fronte a una specie di algoritmo per audience mature di chiara motivazione commerciale). Per fortuna c’è Emma Thompson, che è una specie di filtro per l’aria del cinefilo: tutto ciò che di ipocrita, retorico, finto coraggioso, salottiero, anti-cinematico, conservatore passa per il suo volto e il suo corpo, ne esce pulito, riscaldato, umanizzato e più stimolante. Brava lei.

PIOVE

Risposta da horror indipendente a Siccità. Dentro il mondo di Virzì non piove mai, in un paesaggio urbano assolato e spopolato, dove tutti si odiano ma sprazzi di umanità si ricostruiscono tra sconfitti dalla vita; qui piove sempre, tutti si odiano lo stesso ma almeno passano ai fatti, con una versione splatter della litigiosità da social. Strippoli continua nel suo tentativo di trovare uno spazio di sangue e una consapevolezza di genere nel cinema italiano; e ci riesce a singhiozzi. Rongione alza il livello del cast.

UN ANNO, UNA NOTTE

Come fare cinematograficamente i conti con la strage del Bataclan? Raccontando sprazzi della vita di un paio di sopravvissuti. Ovviamente la curiosità un po’ morbosa dello spettatore è più che altro concentrata su quando arriveranno i flash-back del massacro, che ci sono e sono intelligentemente giocati sulla paura e sul fuoricampo, piuttosto che sulle atrocità. La questione della rielaborazione sentimentale e psicologica, invece, somiglia a tantissime altre, col pilota automatico del film d’autore: inquadrature strette e introspezione assicurata.

RITORNI, MALINCONIE, QUADRI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

AMSTERDAM

Flop conclamato e vittima di uno dei classici shitstorm di questi anni Amsterdam è tutt’altro che pessimo come lo si dipinge. Seguendo la sua tipica poetica dell’outsider scombinato, David O. Russell alza la posta dopo anni di silenzio: Storia, fascismo, guerre mondiali viste con l’occhio (di vetro) di un medico strampalato e di un trio molto nouvelle vague che attraversa Europa e America. Tra Kurt Vonnegut e Wes Anderson, un’installazione survoltata e compiaciuta alcuni con sprazzi di gran cinema e persino di gentilezza sentimentale.

IO SONO L’ABISSO

Altro flop conclamato ma con minor ingiustizia. Certo, Donato Carrisi non si smentisce e conferma il metodo fatto di valori tecnici raffinati (con elementi fincheriani) e costruzione narrativa stratificata (questa volta a tracce parallele che lentamente si incontrano), ma le ambizioni di discorso sul Male sono puerili. Inoltre, l’assenza di star esotiche (Jean Reno, Dustin Hoffman) o italiche (Toni Servillo) dei film precedenti sottrae fascino all’operazione.

SANTA LUCIA

Esordio di Marco Chiappetta, prodotto dai Teatri Uniti, Santa Lucia utilizza lo schema del nostos (molto caro a Napoli, vedi anche Nostalgia) per una meditazione dolorosa e piena di grazia sullo smarrimento delle radici. La cecità di un grandioso Renato Carpentieri spalanca il flusso dell’interiorità, che con le svolte narrative diviene sempre più teatro mentale. Qualche inciampo e alcune ridondanze iniziali non impediscono allo struggimento di imporsi in una luce metallica e mai folcloristicamente partenopea.

VORTEX

Su MUBI finalmente l’atteso split movie di Gaspar Noé, che si sta rivelando un autore sempre più significativo, sgomberando il campo dalla narrazione del Pierino sadico che lo circondava. Due personaggi-memoria del cinema, una maman al tramonto senile e un maestro degli orrori inchiodato da un cuore malato, si muovono in una casa-prigione. Ricordi e memorie sono ormai oggetti, la mente vacilla e le vanità umane se ne vanno col tempo, imprigionate dallo schermo scisso, che da impietoso si fa via via commosso.

PRISMA

Bessegato, ricco della fama di autore/adattatore (magnifico, peraltro) di SKAM, costruisce il suo universo personale su Prime Video, non lontano dal precedente. Ma stavolta ragazzi sono una versione teen di Van Sant, mentre Latina diventa una provincia “indie” dove la trap si mescola all’esclusione sociale, ai problemi morali e alla fluidità sessuale. Ottimo il protagonista gemellare, playlist da applausi in colonna, camera work articolatissimo, scrittura sensibile e il gioco è di nuovo fatto.

CASCO D’ORO

Torna in sala, restaurato, il capolavoro di Becker. Meno conosciuto di quanto si pensa, il racconto di sfida alla legge e di amore contrastato, di anarchia metropolitana fine ‘800 e di seduzione ambigua, colpisce ancora, forse principalmente per il fulgore stilistico. I “quadri” parigini contengono tutti sentimenti che servono, e se anche vi annoiaste, il finale vale mezza storia del cinema. Per gli amanti di Serge Reggiani, poi, è una festa attoriale.

UNA DONNA SPOSATA

E un altro restauro circola in questi giorni, per ricordare Maestro Godard. Il suo film più schematico, nel senso filosofico che dava l’autore all’uno più uno (che non fa mai due) come progetto stilistico. Le 24 ore di Charlotte sono oscillazioni, monologhi, fuori campo estremi, movimenti di macchina chirurgici, rigore puro mescolato alla casualità. Era il 1964, dopo Il disprezzo e prima di alcuni esperimenti di pop decostruito, da Pierrot alla Cinese.

ESPLORAZIONI, CONFINI, MEMORIE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

GLI ORSI NON ESISTONO

Profetico e disperato, Panahi complica e al tempo stesso distilla il suo meta-cinema. Sulla soglia metaforica di un Paese che o lo imprigiona o lo fugge, l’autore ragiona sul rapporto tra modernità e tradizione. Lo fa con rispetto, senza assolversi del tutto, facendo capire come ci siano luoghi del mondo dove l’immagine ha un peso drammatico. Tra iconoclastia e iconofilia, Panahi offre un racconto universale che è l’essenza stessa del cinema oggi.

LE BUONE STELLE – BROKER

Itinerante, il Kore’eda coreano è sicuramente più riconoscibile di quello in trasferta francese, anche se i suoi capolavori sono lontani. Per un cineasta che oscilla tra flagranza dell’intimità e potenza del racconto (due poli opposti che rappresentano tutta la sua carriera, compresi gli alti e i bassi), sorprende un po’ la sensazione di ordinarietà emessa da Broker. Che rimane un film sensibile, dove la poetica famigliare fa i conti con uno spaesamento involontario.

HALLOWEEN ENDS

I fan della saga avranno apprezzato la scelta spiazzante di concludere la trilogia (e tutta la vicenda di Michael Myers) con un episodio quasi spurio, legato citazionisticamente allo stranissimo Halloween III? Noi sì, anche se ci sono momenti talmente rozzi e confusi che ci si chiede sempre se David Gordon Green ci è o ci fa. Il discorso sul populismo puritano si estende, il discorso sul Male si complica: Carpenter è lontano ma Green cade in piedi (forse meglio di Rob Zombie).

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE

Possibilità 1: è un meta-film su di noi spettatori streaming di oggi e il titolo da solo spiega la condizione mediale di avere tutto, ovunque, in una volta sola, su ogni piattaforma. Possibilità 2: è un film sulla disgregazione della nostra esperienza e sulla schizofrenia della vita moderna, dove ci rimangono solo la fantasia sfrenata o gli psicofarmaci. Possibilità 3: è una parodia demenziale della Marvel, e persino la moralina finale (pesantissima) fa le pulci ironicamente a Disney. Nessuna funziona del tutto, ma qualcosa che merita la nostra attenzione c’è in tutte.

LA VITA É UNA DANZA

Chi si aspetta un terrificante mattone sulla danza con sacrifici e mélo famigliare sappia che non è così. Un Klapisch ad alti livelli indovina una storia di corpi e una storia di tecniche di ripresa, le fonde insieme, inventa un metodo alternativo di usare il movimento per significare, e arriva a risultati sorprendenti. Una specie di dramedy alla francese senza il feelgood alla Bélier e con parecchie cose da raccontare sulla nostra percezione di noi e dello spazio.

IL COLIBRÌ

Sandro Veronesi gode di scarso credito presso la critica letteraria più militante, ma è un ottimo scrittore post-ideologico. Archibugi e il team di sceneggiatori esperti di trasposizioni rincorrono il testo (un po’ come le equivalenze narrative che Truffaut non sopportava) e la sua struttura non-cronologica, dimostrando affanno. Il fatto che potesse andare peggio aiuta, ma non assolve del tutto. Attori ognuno sul suo spartito, col risultato di una cacofonia attoriale ingovernabile.

UNA BIRRA AL FRONTE

La carriera post-demenziale di Peter Farrelly dimostra che forse aveva ragione chi lo considerava già allora un tradizionalista travestito da petomane. Ma se Green Book aveva almeno l’idea formidabile di fingere un confronto razziale per parlare di un conflitto di classe, pur negoziandolo con un poco di zucchero, qui su Apple+ il Vietnam (attraversato da un Gump birraiolo che prende coscienza della guerra) grida vendetta.

LA PANTERA DELLE NEVI

Difficile decidere se sia un doc sopra la media o una grande occasione persa. L’osservazione del naturalista fotografo è pura attesa del monstrum con uno spirito da slow cinema di straordinaria attualità. E i movimenti degli animali ci portano in un’area da crono-fotografia in tempi di digitale. Purtroppo gli spunti cinefili (compresa una lacrima congelata, mélo glaciale) sono depotenziati e lasciati per strada. Herzog avrebbe fatto faville, ma il paragone è ingeneroso.

BRADO

Kim Rossi Stuart sulle tracce di Clint Eastwood? Sarebbe ingiusto spernacchiare. Ci vuole un verto coraggio a trapiantare in Italia un film da rodeo. Ben venga il tentativo di scavallare l’orizzonte precotto del nostro cinema. Storia di padre e figlio, di orizzonti e recinti, di animali imbizzarriti e uomini azzoppati. Però le scene più intense (una, terribile, di agonia) sono al chiuso.

LO SPETTATORE INTERESSATO

Gli Incontri del Cinema d’Essai di Mantova (che si sono tenuti dal 3 al 6 ottobre) rappresentano ogni anno il termometro più interessante del comparto “cinema di qualità”, per la capacità di attrarre esercenti da tutta Italia e distributori, per lo più indipendenti, desiderosi di trovare una loro strada (palmo a palmo) nella difficile situazione degli schermi nazionali.

Gli inviati stampa e gli studiosi (il sottoscritto compreso) vengono visti al tempo stesso con stima e con sospetto, e fioccano espressioni come “e tu? che cosa ci fai qui?”, tanto l’appuntamento è sentito come eminentemente professionale. E in effetti alcune anteprime sono interdette alla stampa, per mantenere il segreto (di Pulcinella, a dire il vero) su certi film e colloquiare principalmente in una situazione che potrebbe essere definita quasi di B2B.

Se usciamo, però, dal rispetto territoriale dei singoli ambiti, c’è qualcosa di assai più interessante da notare, e anche affascinante. Nei panni di un esercente (che spesso è anche un cinefilo), il giudizio su un film parte sicuramente da una collocazione di gusto (è bello, è brutto, è intenso, è noioso….) ma contemporaneamente assume anche una connotazione utilitaristica (piacerà al mio pubblico o no?). Lo sguardo sullo schermo è duplice: da una parte la normale adesione di uno spettatore in sala con le sue emozioni, dall’altra la vigile attenzione alle potenzialità dell’opera – non solo in generale, ma anche in rapporto a pubblici che differiscono di sala in sala, di città in città, di zona in zona, a seconda del lavoro che un cinema ha compiuto nei confronti della sua audience (anagrafica, sociale e culturale).

C’è poi un nucleo ancora più radicale di professionisti che, approfittando della simultaneità degli spettacoli (esattamente come ai festival), si muove rapidamente da una sala all’altra vedendo solo pezzi di film. In questo caso, a prevalere è il secondo atteggiamento, quello più commerciale, e l’ambizione è quella di comprendere in 20-30 minuti la forza attrattiva del titolo in questione. Ecco perché il critico o lo studioso, abituati a cominciare da una visione integrale dell’opera per poi scomporla in successive analisi, rimangono sorpresi dall’incessante viavai del pubblico davanti allo schermo, in qualsiasi momento della proiezione.

Al di là di queste note leggere e vagamente antropologiche, per chi studia il settore e lavora sui film al di fuori della filiera è comunque importante accedere ad appuntamenti come quelli di Mantova: è lì che si tocca con mano il “lavoro” del cinema, e dove il mondo astratto delle idee viene a contatto con l’industria e i professionisti (oltre che con le bistrattate associazioni di categoria, che invece stanno lavorando bene per capire analiticamente dati e comportamenti del pubblico: le soluzioni non sono facili e criticarle a ogni piè sospinto un giochino molto semplice). E, a differenza di Ciné, la concentrazione sul circuito d’essai apre ancora di più gli occhi su limiti e potenzialità sul peso del cinema d’autore distribuito oggi in Italia.

FORME DEL CINEMA E CINEMA DELLE FORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T WORRY DARLING

Che il film rischi di essere ricordato più per le beghe sul set che per la sua intelligenza diventa una probabilità sempre più concreta. Olivia Wilde recupera da una parte il femminismo degli anni ’70 (La fabbrica delle mogli), dall’altra la sbornia dickiana degli anni ’90 (anche il Dick non ufficiale di The Truman Show o Pleasantville), e costruisce un meccanismo svelato fin dal trailer, con una spiegazione talmente insufficiente da far pensare all’assenza di una lettura attenta dello script. Al netto dei dubbi narrativi, è proprio la pochezza dell’apologo a sconcertare: si può essere nitidi fino al didascalico ma scommettere su un cinema audace e inquietante (Men per esempio), mentre qui lo zelo appare puerile e nemmeno la maestosa fotografia di Matthew Libatique riscatta il volo a planare.

ATHENA

Chi ha seguito la brillante carriera nel videoclip di Romain Gavras ne conosce il percorso nettamente autoriale, politico in un senso completamente diverso da quello che identifica il cinema del papà Costa. Anche con Athena (come in numerosi video musicali), Gavras costruisce lo scontro sociale come un’arena, formalizza il “film da banlieue” scartando il nefasto binomio “realismo contenutistico = pauperismo estetico”, e parte con un piano-sequenza ben più che virtuosistico – 11 minuti quasi epocali. Peccato che dopo tali premesse, la sfiducia nella scrittura e l’adesione al piano stilistico diventino cupe gabbie che sembrano smentire il partito preso: a che cosa ci serve il mélo famigliare se non esistono i personaggi? Siamo in un campo visuale nuovo o abbiamo bisogno del buon vecchio soggetto novecentesco? Amaro in bocca per l’occasione persa, ma guai a bocciarlo per i motivi sbagliati. Non è exploitation del subalterno.

TI MANGIO IL CUORE

Come sopra. Dobbiamo ancora rimproverare registi che stilizzano, che estetizzano, che lavorano sull’immagine? Questo dominio del realismo nell’attribuzione culturale del gusto in Italia è preoccupante. Mezzapesa ha fatto benissimo a innervare una storia vecchia come il mondo di un bianco e nero brillante (non tutti i bianco e nero lo sono, anche se pochi lo captano), di una concezione assai matura della messa in scena e dello spazio dell’inquadratura, e lavorando su una star musicale come Elodie senza ignorarne le caratteristiche che ne fanno un’icona pop aggiornata al contemporaneo. Certo, il tema non stupisce nessuno e la brutalità elisabettiana delle vendette incrociate ha avuto ampia cittadinanza nella recente serialità, eppure funziona. E se fosse semplicemente un buon film di genere?

I FIGLI DEGLI ALTRI

Un certo, recente, ingolfamento distributivo ha permesso anche al pubblico italiano di familiarizzare con Virginie Efira (tranne purtroppo Benedetta di Verhoeven, ancora inedito). Rebecca Zlotowski sapeva chiaramente quanto il film si giocasse sulla direzione degli attori. Efira e Roschdy Zem danno vita a due personaggi che necessitano di farsi corpo e carne della scrittura, per rendere possibile l’oscillazione tra melodramma trattenuto, woman movie, commedia romantica e cinema medio-autoriale su cui si fonda la riuscita. Efira, in particolare, è grande perché si presenta sempre con una trasparenza espressiva quasi profilmica, come se ne vedessimo in diretta la mattinata sul set: il volto si gonfia e si sgonfia, il corpo muta a seconda di come si sente, le espressioni passano dal giovanile allo sfiorito (e viceversa) in pochi minuti, la femminilità (e sessualità) vastissima che esprime gratifica e sorprende, superando i singoli titoli in cui compare, buoni (Tutti gli uomini di Victoria, Sybil, La doppia vita di Madeleine Collins) o meno buoni (Un amore all’altezza, 7 uomini a mollo).

LA NOTTE DEL 12

Ammetto di non aver mai dato troppo peso a Dominik Moll, specie dopo che l’ultimo – arzigogolato – Only the Animals non me lo aveva reso più simpatico rispetto ai poster anti-borghesi di Harry, un amico vero o Due volte lei – Lemming girati a inizio secolo. E invece con La notte del 12 realizza il suo miglior film: un’indagine senza uscita, tragica e faticosa, che nel corso del tempo, oltre alla frustrazione, fa emergere un intero sistema di rapporti sociali e di genere nella Francia contemporanea. Non lontano da Roubaix di Desplechin ma meno diviso in due, diverso dal somigliante Dürenmatt di La promessa, trova una compattezza eccezionale nel ritrarre una provincia nera, perduta, e un sistema di investigazione (soprattutto maschile) fatto di attese, giudizi errati, tenacia e scoppi di rabbia. E in fondo è una bella scommessa narrativa quella di fare un film compiuto e coerente dedicato a ciò che rimane infelicemente irrisolto nel mondo della giustizia e nella vita.

L’IMMENSITÀ

Rintanato per alcuni anni, Emanuele Crialese aveva fatto perdere le sue tracce. Eppure era considerato una promessa del cinema italiano, quello in grado di avere forza e distribuzione internazionale. Una certa tendenza al megafono stilistico (Respiro, Terraferma) aveva fatto storcere più di un naso, ma gli si perdonava l’indulgenza in cambio di immagini potentissime e di una politicità tutt’altro che superficiale (Nuovomondo è una delle relazioni più esplicite in assoluto sul rapporto tra migrazione in America e soluzione eugenetica del nuovo continente che cresce). In quel controllo fisico e medico a Ellis Island c’era già forse tutto della vicenda autobiografica dell’autore, che dopo 10 anni di silenzio ce la racconta meno indirettamente qui, con esiti che mostrano solo spettri e macchie ingrigite del talento che ammiravamo. C’è tutto il cinema-nostalgia italiano di questi anni, un frullatore di Virzì/Comencini/Giordana/Luchetti con alcune (poche) destrutturazioni interessanti e una scarsa valorizzazione di Penélope Cruz.

5 GIORNI AL MEMORIAL

Si torna a New Orleans, visto che il disastro dell’inondazione è diventato nel tempo uno dei più interessanti moltiplicatori di racconti americani, sia in letteratura (Zeitoun di Dave Eggers, per esempio), sia nella serialità (Treme). Questa volta è il turno di una delle “storie vere” più sconcertanti di quei folli giorni, ovvero la morte – forse per eutanasia coatta – di decine di pazienti in un ospedale ormai privo di cibo, acqua, energia. La serie ideata da Carlton Cuse e John Ridley per ABC e distribuita da Apple TV+ comincia benissimo e costruisce una suspense indagatoria innegabile, con lo sguardo dall’interno della clinica (pur ricorrendo a uno stile da televisione generalista a dir poco anti-storico). Poi prevale la scelta di raccontare un’indagine esterna che dovrebbe farci riprocessare le nostre convinzioni e lasciarci libertà di giudizio su un caso senza colpevoli. Ma un conto è coltivare dubbi e ambiguità, un conto è gestire una reticenza narrativa manipolatoria che lascia con un pugno di mosche in mano.