Si intitola così il nuovo, potente volume di Michele Guerra (Raffaello Cortina Editore, 16 euro). Di che cosa si tratta? Questa parte la facciamo spiegare all’editore e al saggista: “Che cosa hanno in comune La notte di Elie Wiesel, le fotografie dell’Album Auschwitz, Notte e nebbia di Alain Resnais? La tragedia della Shoah, naturalmente. Ma per quanto scandaloso possa sembrare, non solo. Ognuna di queste opere porta all’estremo i limiti del nostro vedere e ci spiega che certe immagini funzionano solo in virtù di ciò che non si vede, immagini che se venissero analizzate soltanto per quello che mostrano non potrebbero essere comprese. Ognuna di queste opere ci chiede di cambiare il modo in cui ci poniamo rispetto al visivo, perché le loro immagini vivono della pressione del fuoricampo, fanno esperienza del vuoto. Sono quel fuoricampo e quel vuoto a interrogare oggi, dentro abitudini di lettura delle immagini sempre più automatizzate, la relazione morale e politica che lega il nostro sguardo al pensiero dell’estremo”.
Mai quarta di copertina fu più veritiera. In effetti, il ricco e articolato volume di Guerra rappresenta una summa delle letture sul rapporto tra cinema (e immagine audiovisiva, oltre che fotografica) e Shoah. Summa non nel senso che si pone come volume teorico definitivo, visto che non ne ha l’intenzione, bensì come interlocutore attento e preparato della vasta letteratura sull’argomento, messa poi a prova lungo tutto il libro, soprattutto grazie all’applicazione su singoli esempi (c’è anche una mirabile riflessione su film recenti, primo tra tutti il controverso Il figlio di Saul).
Tutto il saggio si snoda tra i poli dell’ “aver visto troppo” – in un’epoca mediale gonfia e incessante, nella quale persino la produzione sulla Shoah è diventato un genere per scuole e matinée con alunni – e dell’invisibile, elemento connaturato alla tragedia novecentesca e che non smette di essere presente. Un’assenza di immagine che non è contraddittoria rispetto al contemporaneo ma ne segna una latenza drammatica. O sorgiva, a seconda di come la si vuole osservare.
Ed è proprio lavorando su questa frattura ghiaiosa che Guerra individua gli strumenti più duttili, filosoficamente densi ma infine concreti, per guidarci in una lettura da cui – è raro dirlo per un saggio, francamente – si fa fatica a staccarsi.