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Tag: Pippo Mezzapesa

GIRO DI CINEMA TRA TERRA E CIELO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ANORA

Destrutturazione molecolare dei tre atti della commedia americana, il nuovo racconto americanologico di Sean Baker sceglie una traiettoria spiazzante e amorfa. La giuria di Cannes 2024, facendosi dire “non sarà troppo una Palma per questa commediola?” ha dato lezione di cinefilia, scoprendo la dimensione elitaria del gusto festivaliero. In verità si tratta – come ha detto Ilaria Feole e confermato da Baker – di Le notti di Cabiria meets John Hughes. E già questo basta, Ma in più abbiamo un’analisi di un sogno migratorio americano totalmente rovesciato, un’analisi dei rapporti di classe attraverso l’uso del corpo, e una disamina filosofica della distruzione della realtà illusoria (mai visto un personaggio ricondotto alla sua mediocrità quanto il protagonista). Sorprendente.

FLOW

FLOW - Un mondo da salvare 02 - Teodora Film

Che stagione per l’animazione (di tutti i tipo, si pensi solo a Invelle e Il robot selvaggio)! Il film di Gints Zilbalodis, senza dialoghi e senza esseri umani, può essere considerato un tempestivo racconto di abissalità naturale in epoca di panico climatico. E se il gattino protagonista riesce ad essere straordinariamente credibile nelle sue movenze, è invece in un’astrazione anti-mimetica che si nasconde il valore del film, a-temporale (quando è ambientato?) e universalistico (la solidarietà tra specie giunge attraverso una negoziazione tutt’altro che lineare con gli istinti). Eccezionali anche i piani-sequenza, per quanto animati, e la rappresentazione dell’acqua, che funziona sia come specchio sia come microcosmo di vita e di morte.

BERLINGUER

C’è chi ha citato il Rossellini didattico, per il nuovo lavoro di Segre. Non sapremmo se essere d’accordo (e magari con qualche dubbio storico su quel Rossellini), certo è che Berlinguer si gioca su una lotta sottilissima tra cinema e baratro del docu-drama televisivo stile RAI. Autore e sceneggiatore sono troppo intelligenti per cadere nel burrone, ma la dimensione pedagogica è talvolta così sottolineata da rischiare l’irritazione. L’altra battaglia – su come si lavora, oggi, con i materiali d’archivio nell’epoca in cui tutti lo fanno – è anch’essa al limite. Di fondo, un film sulla perdita: della sinistra, certo, ma anche di un intero sistema sociale, quasi da far sospettare che si rimpianga la separazione netta tra le classi e tra gli elettorati piuttosto che cantare la nostalgia dell’azione politica.

IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA

Per fortuna che dietro la macchina da presa c’è una regista cinefila. Altrimenti questo sarebbe stata la solita lezione morale tratta dalla cronaca, con il ditino alzato e l’inutilità assoluta del parlare ai già convinti. Avendo invece trasformato la storia del protagonista in un coming-of-age adolescenziale tenero e stratificato (con suggestioni pop tra Harry Potter e il cinema alla Stand By Me), l’autrice ha buon gioco nel moltiplicare la virulenza del comportamento bullistico e l’insopportabilità della perdita. La cosa migliore, in fondo, non è tanto la denuncia della violenza quanto lo spreco irreparabile del potenziale umano e del futuro adulto, in particolare la fine del rapporto con l’amica del cuore, vero carburante emotivo del racconto.

QUI NON È HOLLYWOOD

Dopo tante polemiche inutili e infantili, il lavoro di Mezzapesa si rivela uno dei migliori true crime di questi anni. Non solo viene superato d’un balzo il malefico sensazionalismo delle docu-serie (come quella irricevibile su Yara), ma viene costruito anche una narrazione a mosaico abbastanza inedita – pochi hanno notato che i punti di vista diversi si passano il testimone mentre il racconto avanza cronologicamente (non è Rashomon, insomma). A parte i virtuosismi sceneggiatoriali, Qui non è Hollywood funziona – a dispetto del titolo – proprio perché è un po’ americano: quanti avrebbero lodato la disamina della provincia statunitense se al posto di Avetrana ci fosse stato un paesino della Louisiana o del Texas? Ecco, la stessa cosa – sul puritanesimo, la pochezza umana, il ruolo tossico della famiglia tradizionale, la perdita di punti di riferimento sociali – viene svolta qui.

PARIS, TEXAS

Wim Wenders è tornato. Gli ultimi tempi già segnati dal commovente Perfect Days e dal ritorno in sala di Il cielo sopra Berlino si arricchiscono del restauro (magnifico, e ve lo dice chi non è grande appassionato di colori in 4K) di Paris, Texas. Quel che allora era parso un racconto potente segnato da qualche dispersione, e da alcuni auto-compiacimenti in salsa shepardiana, mostra 40 anni dopo una limpidezza straordinaria, una trasparenza classica che lo sospinge verso la New Hollywood molto più che verso il cinema d’autore internazionale di oggi. E anche le rappresentazioni iper-realistiche del paesaggio USA, per quanto iconograficamente note, restano spettacolari e toccanti, quanto lo è Nastassja Kinski, di rara vulnerabilità.

FORME DEL CINEMA E CINEMA DELLE FORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T WORRY DARLING

Che il film rischi di essere ricordato più per le beghe sul set che per la sua intelligenza diventa una probabilità sempre più concreta. Olivia Wilde recupera da una parte il femminismo degli anni ’70 (La fabbrica delle mogli), dall’altra la sbornia dickiana degli anni ’90 (anche il Dick non ufficiale di The Truman Show o Pleasantville), e costruisce un meccanismo svelato fin dal trailer, con una spiegazione talmente insufficiente da far pensare all’assenza di una lettura attenta dello script. Al netto dei dubbi narrativi, è proprio la pochezza dell’apologo a sconcertare: si può essere nitidi fino al didascalico ma scommettere su un cinema audace e inquietante (Men per esempio), mentre qui lo zelo appare puerile e nemmeno la maestosa fotografia di Matthew Libatique riscatta il volo a planare.

ATHENA

Chi ha seguito la brillante carriera nel videoclip di Romain Gavras ne conosce il percorso nettamente autoriale, politico in un senso completamente diverso da quello che identifica il cinema del papà Costa. Anche con Athena (come in numerosi video musicali), Gavras costruisce lo scontro sociale come un’arena, formalizza il “film da banlieue” scartando il nefasto binomio “realismo contenutistico = pauperismo estetico”, e parte con un piano-sequenza ben più che virtuosistico – 11 minuti quasi epocali. Peccato che dopo tali premesse, la sfiducia nella scrittura e l’adesione al piano stilistico diventino cupe gabbie che sembrano smentire il partito preso: a che cosa ci serve il mélo famigliare se non esistono i personaggi? Siamo in un campo visuale nuovo o abbiamo bisogno del buon vecchio soggetto novecentesco? Amaro in bocca per l’occasione persa, ma guai a bocciarlo per i motivi sbagliati. Non è exploitation del subalterno.

TI MANGIO IL CUORE

Come sopra. Dobbiamo ancora rimproverare registi che stilizzano, che estetizzano, che lavorano sull’immagine? Questo dominio del realismo nell’attribuzione culturale del gusto in Italia è preoccupante. Mezzapesa ha fatto benissimo a innervare una storia vecchia come il mondo di un bianco e nero brillante (non tutti i bianco e nero lo sono, anche se pochi lo captano), di una concezione assai matura della messa in scena e dello spazio dell’inquadratura, e lavorando su una star musicale come Elodie senza ignorarne le caratteristiche che ne fanno un’icona pop aggiornata al contemporaneo. Certo, il tema non stupisce nessuno e la brutalità elisabettiana delle vendette incrociate ha avuto ampia cittadinanza nella recente serialità, eppure funziona. E se fosse semplicemente un buon film di genere?

I FIGLI DEGLI ALTRI

Un certo, recente, ingolfamento distributivo ha permesso anche al pubblico italiano di familiarizzare con Virginie Efira (tranne purtroppo Benedetta di Verhoeven, ancora inedito). Rebecca Zlotowski sapeva chiaramente quanto il film si giocasse sulla direzione degli attori. Efira e Roschdy Zem danno vita a due personaggi che necessitano di farsi corpo e carne della scrittura, per rendere possibile l’oscillazione tra melodramma trattenuto, woman movie, commedia romantica e cinema medio-autoriale su cui si fonda la riuscita. Efira, in particolare, è grande perché si presenta sempre con una trasparenza espressiva quasi profilmica, come se ne vedessimo in diretta la mattinata sul set: il volto si gonfia e si sgonfia, il corpo muta a seconda di come si sente, le espressioni passano dal giovanile allo sfiorito (e viceversa) in pochi minuti, la femminilità (e sessualità) vastissima che esprime gratifica e sorprende, superando i singoli titoli in cui compare, buoni (Tutti gli uomini di Victoria, Sybil, La doppia vita di Madeleine Collins) o meno buoni (Un amore all’altezza, 7 uomini a mollo).

LA NOTTE DEL 12

Ammetto di non aver mai dato troppo peso a Dominik Moll, specie dopo che l’ultimo – arzigogolato – Only the Animals non me lo aveva reso più simpatico rispetto ai poster anti-borghesi di Harry, un amico vero o Due volte lei – Lemming girati a inizio secolo. E invece con La notte del 12 realizza il suo miglior film: un’indagine senza uscita, tragica e faticosa, che nel corso del tempo, oltre alla frustrazione, fa emergere un intero sistema di rapporti sociali e di genere nella Francia contemporanea. Non lontano da Roubaix di Desplechin ma meno diviso in due, diverso dal somigliante Dürenmatt di La promessa, trova una compattezza eccezionale nel ritrarre una provincia nera, perduta, e un sistema di investigazione (soprattutto maschile) fatto di attese, giudizi errati, tenacia e scoppi di rabbia. E in fondo è una bella scommessa narrativa quella di fare un film compiuto e coerente dedicato a ciò che rimane infelicemente irrisolto nel mondo della giustizia e nella vita.

L’IMMENSITÀ

Rintanato per alcuni anni, Emanuele Crialese aveva fatto perdere le sue tracce. Eppure era considerato una promessa del cinema italiano, quello in grado di avere forza e distribuzione internazionale. Una certa tendenza al megafono stilistico (Respiro, Terraferma) aveva fatto storcere più di un naso, ma gli si perdonava l’indulgenza in cambio di immagini potentissime e di una politicità tutt’altro che superficiale (Nuovomondo è una delle relazioni più esplicite in assoluto sul rapporto tra migrazione in America e soluzione eugenetica del nuovo continente che cresce). In quel controllo fisico e medico a Ellis Island c’era già forse tutto della vicenda autobiografica dell’autore, che dopo 10 anni di silenzio ce la racconta meno indirettamente qui, con esiti che mostrano solo spettri e macchie ingrigite del talento che ammiravamo. C’è tutto il cinema-nostalgia italiano di questi anni, un frullatore di Virzì/Comencini/Giordana/Luchetti con alcune (poche) destrutturazioni interessanti e una scarsa valorizzazione di Penélope Cruz.

5 GIORNI AL MEMORIAL

Si torna a New Orleans, visto che il disastro dell’inondazione è diventato nel tempo uno dei più interessanti moltiplicatori di racconti americani, sia in letteratura (Zeitoun di Dave Eggers, per esempio), sia nella serialità (Treme). Questa volta è il turno di una delle “storie vere” più sconcertanti di quei folli giorni, ovvero la morte – forse per eutanasia coatta – di decine di pazienti in un ospedale ormai privo di cibo, acqua, energia. La serie ideata da Carlton Cuse e John Ridley per ABC e distribuita da Apple TV+ comincia benissimo e costruisce una suspense indagatoria innegabile, con lo sguardo dall’interno della clinica (pur ricorrendo a uno stile da televisione generalista a dir poco anti-storico). Poi prevale la scelta di raccontare un’indagine esterna che dovrebbe farci riprocessare le nostre convinzioni e lasciarci libertà di giudizio su un caso senza colpevoli. Ma un conto è coltivare dubbi e ambiguità, un conto è gestire una reticenza narrativa manipolatoria che lascia con un pugno di mosche in mano.