Visioni Riflessioni Passioni

FORME DEL CINEMA E CINEMA DELLE FORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T WORRY DARLING

Che il film rischi di essere ricordato più per le beghe sul set che per la sua intelligenza diventa una probabilità sempre più concreta. Olivia Wilde recupera da una parte il femminismo degli anni ’70 (La fabbrica delle mogli), dall’altra la sbornia dickiana degli anni ’90 (anche il Dick non ufficiale di The Truman Show o Pleasantville), e costruisce un meccanismo svelato fin dal trailer, con una spiegazione talmente insufficiente da far pensare all’assenza di una lettura attenta dello script. Al netto dei dubbi narrativi, è proprio la pochezza dell’apologo a sconcertare: si può essere nitidi fino al didascalico ma scommettere su un cinema audace e inquietante (Men per esempio), mentre qui lo zelo appare puerile e nemmeno la maestosa fotografia di Matthew Libatique riscatta il volo a planare.

ATHENA

Chi ha seguito la brillante carriera nel videoclip di Romain Gavras ne conosce il percorso nettamente autoriale, politico in un senso completamente diverso da quello che identifica il cinema del papà Costa. Anche con Athena (come in numerosi video musicali), Gavras costruisce lo scontro sociale come un’arena, formalizza il “film da banlieue” scartando il nefasto binomio “realismo contenutistico = pauperismo estetico”, e parte con un piano-sequenza ben più che virtuosistico – 11 minuti quasi epocali. Peccato che dopo tali premesse, la sfiducia nella scrittura e l’adesione al piano stilistico diventino cupe gabbie che sembrano smentire il partito preso: a che cosa ci serve il mélo famigliare se non esistono i personaggi? Siamo in un campo visuale nuovo o abbiamo bisogno del buon vecchio soggetto novecentesco? Amaro in bocca per l’occasione persa, ma guai a bocciarlo per i motivi sbagliati. Non è exploitation del subalterno.

TI MANGIO IL CUORE

Come sopra. Dobbiamo ancora rimproverare registi che stilizzano, che estetizzano, che lavorano sull’immagine? Questo dominio del realismo nell’attribuzione culturale del gusto in Italia è preoccupante. Mezzapesa ha fatto benissimo a innervare una storia vecchia come il mondo di un bianco e nero brillante (non tutti i bianco e nero lo sono, anche se pochi lo captano), di una concezione assai matura della messa in scena e dello spazio dell’inquadratura, e lavorando su una star musicale come Elodie senza ignorarne le caratteristiche che ne fanno un’icona pop aggiornata al contemporaneo. Certo, il tema non stupisce nessuno e la brutalità elisabettiana delle vendette incrociate ha avuto ampia cittadinanza nella recente serialità, eppure funziona. E se fosse semplicemente un buon film di genere?

I FIGLI DEGLI ALTRI

Un certo, recente, ingolfamento distributivo ha permesso anche al pubblico italiano di familiarizzare con Virginie Efira (tranne purtroppo Benedetta di Verhoeven, ancora inedito). Rebecca Zlotowski sapeva chiaramente quanto il film si giocasse sulla direzione degli attori. Efira e Roschdy Zem danno vita a due personaggi che necessitano di farsi corpo e carne della scrittura, per rendere possibile l’oscillazione tra melodramma trattenuto, woman movie, commedia romantica e cinema medio-autoriale su cui si fonda la riuscita. Efira, in particolare, è grande perché si presenta sempre con una trasparenza espressiva quasi profilmica, come se ne vedessimo in diretta la mattinata sul set: il volto si gonfia e si sgonfia, il corpo muta a seconda di come si sente, le espressioni passano dal giovanile allo sfiorito (e viceversa) in pochi minuti, la femminilità (e sessualità) vastissima che esprime gratifica e sorprende, superando i singoli titoli in cui compare, buoni (Tutti gli uomini di Victoria, Sybil, La doppia vita di Madeleine Collins) o meno buoni (Un amore all’altezza, 7 uomini a mollo).

LA NOTTE DEL 12

Ammetto di non aver mai dato troppo peso a Dominik Moll, specie dopo che l’ultimo – arzigogolato – Only the Animals non me lo aveva reso più simpatico rispetto ai poster anti-borghesi di Harry, un amico vero o Due volte lei – Lemming girati a inizio secolo. E invece con La notte del 12 realizza il suo miglior film: un’indagine senza uscita, tragica e faticosa, che nel corso del tempo, oltre alla frustrazione, fa emergere un intero sistema di rapporti sociali e di genere nella Francia contemporanea. Non lontano da Roubaix di Desplechin ma meno diviso in due, diverso dal somigliante Dürenmatt di La promessa, trova una compattezza eccezionale nel ritrarre una provincia nera, perduta, e un sistema di investigazione (soprattutto maschile) fatto di attese, giudizi errati, tenacia e scoppi di rabbia. E in fondo è una bella scommessa narrativa quella di fare un film compiuto e coerente dedicato a ciò che rimane infelicemente irrisolto nel mondo della giustizia e nella vita.

L’IMMENSITÀ

Rintanato per alcuni anni, Emanuele Crialese aveva fatto perdere le sue tracce. Eppure era considerato una promessa del cinema italiano, quello in grado di avere forza e distribuzione internazionale. Una certa tendenza al megafono stilistico (Respiro, Terraferma) aveva fatto storcere più di un naso, ma gli si perdonava l’indulgenza in cambio di immagini potentissime e di una politicità tutt’altro che superficiale (Nuovomondo è una delle relazioni più esplicite in assoluto sul rapporto tra migrazione in America e soluzione eugenetica del nuovo continente che cresce). In quel controllo fisico e medico a Ellis Island c’era già forse tutto della vicenda autobiografica dell’autore, che dopo 10 anni di silenzio ce la racconta meno indirettamente qui, con esiti che mostrano solo spettri e macchie ingrigite del talento che ammiravamo. C’è tutto il cinema-nostalgia italiano di questi anni, un frullatore di Virzì/Comencini/Giordana/Luchetti con alcune (poche) destrutturazioni interessanti e una scarsa valorizzazione di Penélope Cruz.

5 GIORNI AL MEMORIAL

Si torna a New Orleans, visto che il disastro dell’inondazione è diventato nel tempo uno dei più interessanti moltiplicatori di racconti americani, sia in letteratura (Zeitoun di Dave Eggers, per esempio), sia nella serialità (Treme). Questa volta è il turno di una delle “storie vere” più sconcertanti di quei folli giorni, ovvero la morte – forse per eutanasia coatta – di decine di pazienti in un ospedale ormai privo di cibo, acqua, energia. La serie ideata da Carlton Cuse e John Ridley per ABC e distribuita da Apple TV+ comincia benissimo e costruisce una suspense indagatoria innegabile, con lo sguardo dall’interno della clinica (pur ricorrendo a uno stile da televisione generalista a dir poco anti-storico). Poi prevale la scelta di raccontare un’indagine esterna che dovrebbe farci riprocessare le nostre convinzioni e lasciarci libertà di giudizio su un caso senza colpevoli. Ma un conto è coltivare dubbi e ambiguità, un conto è gestire una reticenza narrativa manipolatoria che lascia con un pugno di mosche in mano.