Autore: Roy Menarini
TRA LO STREAMING E LA SPERIMENTAZIONE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
STRAPPARE LUNGO I BORDI

La serie Netflix di Zerocalcare ha suscitato reazioni piuttosto esagitate da una parte e dall’altra. Conviene capire di che cosa si tratta: una divulgazione del mondo narrativo del fumettista per i milioni di spettatori che non lo conoscono. Gli altri rimarranno della loro idea, pro (i più) o contro (i meno). L’animazione, realizzata con un team nutrito, è minimale ma non ovvia. Nulla di indimenticabile, eppure coerente con il testo. Così come nel disegno stampato, Zerocalcare è fortissimo nella comicità: non solo per gli argomenti e l’ironia ma per i tempi e la costruzione testuale delle gag – cosa di cui poco si parla. Qui la macchina umoristica funziona a pieno regime, aiutata dalla forma breve del singolo episodio. Quando si va verso il serio e il commovente le cose si inceppano (ultimo episodio). Comunque esperimento riuscito.
THE MORNING SHOW 2

“Ammazza che chiavica” direbbe l’amico Filippo Mazzarella. Prodotta da Apple TV+ con tutta evidenza solo per sfruttare alla buona il successo della prima stagione (che aveva un arco narrativo da “limited series”), la seconda gioca le carte migliori sulla dimensione industriale della televisione, tra analisi dello streaming, arrivo del Covid nelle news, preoccupazioni redazionali e paradossi del politically correct. Tutto il resto, invece, è devastante: la parte italiana con l’incolpevole (anzi ottima) Valeria Golino, le strampalate evoluzioni dei personaggi, le sotto-trame (il fratello della protagonista), in un caos narrativo ingovernabile che tra l’altro mostra anche una certa discontinuità formale e stilistica di episodio in episodio. Epic fail ma interessante per una meta-riflessione sui problemi della serialità contemporanea.
MAID

Cominciamo a contare fin da ora i premi che questa serie Netflix otterrà. E non c’è nulla di male. C’è aria da Nomandland + materiale di Loach sbarcato nella provincia americana: il mix – pur derivativo – funziona piuttosto bene grazie a una tenuta narrativa molto robusta (pur potendo forse stringere di un paio di episodi senza che nessuno ne soffrisse), e a una protagonista (Margaret Qualley) di enorme efficacia. Espressivamente limitata (la mimica facciale ha una gamma ridottissima, pur empatica), fenomenale a sfruttare come baricentro il corpo magrissimo e la bambina sempre in braccio, Qualley sostiene l’intero equilibrio del racconto – un po’ come il suo personaggio che cammina sul filo della sopravvivenza cadendo e aggrappandosi senza mai finire nel burrone. Temi nobili (abusi domestici, homeless, burocrazia della povertà, ecc), molto mainstream (canzoni indie messe a casaccio), personaggi secondari curatissimi (i maschi egoisti, la mamma beat), sostanzialmente centrato, anche culturalmente.
ATLANTIDE

Resterà in varie sale dopo l’evento di tre giorni il film di Yuri Ancarani, distribuito dai sempre più spericolati tipi di I Wonder. Detto che la Laguna sta diventando un luogo poetico proliferante (da We Are Who We Are a Welcome Venice), stavolta la dimensione contemplativa e osservazionale prevale su un pur interessante lato narrativo – un “veloce e furioso” sui barchini come se Justin Lin fosse sostituito da Lisandro Alonso. Tutto poi giunge all’ultima mezzora dove Venezia viene raccontata come se fosse la scena lisergica di 2001 di Kubrick, con una competenza tecnico-formale in grado di suscitare poi tutta la liquida ipnosi che la macro-sequenza possiede. Cinema sperimentale, certo, però in questa fase di strani spasmi dell’immaginario, di radicale frammentazione del linguaggio (e del prodotto, distribuzione sui vari canali compresa), Atlantide si siede in un posto tutto suo. Balzo in avanti anche della filmografia dell’artista, sempre intrigante ma non sempre altrettanto audace.
SAMP

Arriva al cinema, dopo un anno e passa dalle sue prime presentazioni ai festival, la nuova fatica di RezzaMastrella. I due – con Rezza ovviamente mattatore – sono gli unici che tuttora riescono a trasformare un’opera che ha la goliardia estetica di un cortometraggio studentesco in un giro completo nel mondo dell’assurdo per tornare a casa base. Dopo cinque minuti ti chiedi come si possa arrivare a vederne settantacinque, poi scopri che il percorso di surreali sparatorie, road movie di provincia pugliese, erotismi disperati e ridicoli, giochi sul suono e sulla voce, anarchici commenti sulla società in cui viviamo e intuizioni esilaranti, ti conquista. Bravi i distributori (Reading Bloom con Barz and Hippo) a portare questo film in giro, pur in poche sale, non di rado facendo tour con gli autori. Certo è meglio se già si conosce il mondo survoltato rezziano, anche a teatro, ma un bentornato su grande schermo ci sta tutto.
PINO

Da qualche tempo su MUBI, e mostrato anche in qualche sala nelle scorse settimane, c’è questo bel documentario di Walter Fasano (noto come uno dei montatori più creativi del cinema d’autore italiano). Pino sarebbe Pino Pascali, poliedrico genio pugliese dell’arte contemporanea degli anni Sessanta – prima di morire giovanissimo nel ’68. La sua creatività fatta di forme monumentali ma anche strutture essenziali, con citazioni di fumetto, cinema, moda e pratiche materiche di ogni tipo, viene rielaborata da Fasano ben oltre il doc celebrativo. Il montaggio fotografico dei lavori formidabili di Pascali, le tre voci fuori campo che ne tracciano poeticamente il campo, il lavoro sul bianco e nero e sulla contemporaneizzazione di quell’epoca – allontanando il rischio del nostalgismo per i favolosi anni d’oro – mostrano un’idea di cinema all’altezza del soggetto.
ARTI, MUSICHE E PASSIONI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
LA PERSONA PEGGIORE DEL MONDO

Certo che il sistema dei premi ai festival è veramente mercuriale e imprevedibile. Consegnare a Cannes una Palma per miglior attrice alla pur simpatica e sottile Renate Reinsve per questo dramedy norvegese lascia a dir poco sorpresi. Joachim Trier è un autore singolare, che mi ricorda il pilota di Formula Uno Coulthard, capace di essere incredibilmente rapido in alcuni momenti e poi rovinare tutto con scelte discutibili e ingenue. Tutta la filmografia di Trier è fatta così (anche il migliore dei suoi titoli, Thelma del 2017). In questo caso, dopo una prima ora brillante ed esilarante su una trentenne incasinata e incompiuta, cugina alla lontana da Fleabag, con osservazioni acutissime sulla cultura contemporanea, la storia va ad addormentarsi in un melodramma da malattia poco riuscito e soprattutto affatto risolto.
ULTIMA NOTTE A SOHO

Film cinefilo per eccellenza di queste settimane, il vorticoso vintage horror di Edgar Wright conferma qualche miopia del nostro sguardo su di lui. Come se rifuggisse il “grande cinema” e volesse sgonfiare le costruzioni da lui stesso architettate attraverso il primato del divertissement, Wright disarma gli analisti. In verità la sua è una pratica cinematografica coerentissima, dove di volta in volta si ricorre alla parodia o ai generi per nascondere operazioni sottilissime. Come questa, dove l’amore per il passato, con tutto il concerto di citazioni viventi et similia, viene messo al rogo (letteralmente): un conto sono i prodotti culturali da rievocare, un conto è la storia sociale (da non falsificare). Gli omaggi ad Argento, Fulci, Lynch, Russell sono i più impliciti (e potenti) e il film sembra una versione più pop e meno morbosa di Neon Demon.
NON CADRÀ PIÙ LA NEVE

Si trova sulla piattaforma IWonderfull il nuovo film di Małgorzata Szumowska e Michał Englert: è la storia di Zenia, uomo misterioso proveniente dalle radiazioni di Chernobyl che fa il massaggiatore-ipnotista per persone alto-borghesi in Polonia. Annoiate da tutto e apatiche, vedono nell’arrivo dell’uomo una novità salvifica. E lui si trasforma in un guru dentro un meccanismo a metà tra Teorema di Pasolini, il realismo magico del cinema est-europeo e Edward mani di forbice. La cosa migliore, come in altre prove di Szumowska, è lo humour fulminante, qui accostato a una strana anempatia “calda” nei confronti di un protagonista ermetico che – pur dominando la materia corporea con le mani – sembra la vera vittima, l’outsider destinato all’invisibilità. Peccato per i vezzi del “cinema da festival” (forti simbolismi, ralenti, oggettive irreali, movimenti di macchina “significanti” ecc).
MOMENTS LIKE THIS NEVER LAST

Uscito su MUBI a novembre, il documentario di Cheryl Dunn è dedicato all’artista newyorkese Dash Snow. Probabilmente non molto noto a queste latitudini, Dash – morto giovane – è stato artista, fotografo, graffitaro, creatore di contenuti grafici e pittorici, provocatore e sperimentatore urbano. New York è stato il suo terreno di conquista e di espressione, lui che veniva da un’agiata famiglia borghese – ma le mele notoriamente possono cadere molto lontane dall’albero. Il doc è un po’ bifronte: da una parte affascina per come evoca tutto il contesto di un underground per una volta non “Seventies” ma recente, legato allo spirito isterico del post-11 settembre. Dall’altra non sempre coglie l’occasione per un affresco completo e possente, depotenziando found footage e altri materiali in nome del dramma personale. In ogni caso vale un giro nel rollercoaster di Dash.
3/19

Come altri autori, anzi inventori, del nuovo cinema italiano degli anni Ottanta/Novanta, Silvio Soldini è diventato un autore apolide. L’habitat di pubblico metropolitano e critica desiderosa di novità nazionali che lo seguiva si è sbriciolato. E in quest’epoca di distribuzione frenetica, un film come questo – dominato dalla sensibilità di una delle nostre attrici più intense, Kasja Smutniak – rischia di diventare carta da parati. Il tema della lenta erosione della solidarietà sociale ai danni dell’ambiente altoborghese di provenienza è un topos da Europa ’51 in poi. Oggi suona risaputo, come del resto la Milano metallica pur rappresentata con raffinatezza. Funziona di più come mélo trattenuto, sebbene la morte solitaria del povero diavolo (big bang psicologico simile a Tre piani) avrebbe meritato più “politica”.
THE VELVET UNDERGROUND

L’amore per la storia del rock di Todd Haynes è ben nota e ha ispirato almeno due gran bei film tra i suoi, Velvet Goldmine e Io non sono qui (Glam e Dylan, e il rischio di fare pasticci era altissimo). Questo è un documentario che si trova su Apple TV+, dopo una recente e fugacissima apparizione in sala. Haynes non è certo tipo da teste parlanti, interviste con luce smarmellata e pedagogia d’accatto. Infatti cerca l’impresa più impervia: fare un doc che somiglia alla musica dei Velvet, stridente e profondo, fastidioso e geniale. Da una parte ci sono split screen, found footage, documenti rari, testimonianze e voci over talvolta stranianti; dall’altra una ricostruzione meticolosa del mito (compresi Warhol e Nico). Evviva, anche se non la consiglio come visione da domenica pomeriggio sul divano. Massimo rispetto. Peccato rischi di annegare nell’oceano streaming.
COMMEDIE, TRAGEDIE E APOCALISSI IN CERCA DI SGUARDO
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
FINCH

Apple TV+ punta sul one man show (in tuti i sensi) di Tom Hanks, quasi ultimo uomo rimasto sulla Terra a causa delle eruzioni solari. Come un vampiro, se sta alla luce frigge. Vive con un cagnolino (cui il regista Miguel Sapochnick dedica un milione di inquadrature) e crea un simpatico robot che somiglia a quelli malinconici di Tales from the Loop. Girano sfuggendo a tempeste e minacce, ma le radiazioni hanno colpito duro il corpo dello scienziato sopravvissuto. Favola luminosa, con una star isolata e morente (quanto George Clooney in Midnight Sky: ossessione da piattaforma?) e una storia tutto sommato non banale: lasciare il mondo a un animale e un essere artificiale dopo varie lezioni di umanesimo. Produce non a caso Zemeckis: c’è aria di Cast Away.
ANTIGONE

Il titolo parla chiaro: è proprio l’ennesima trasposizione in versione moderna della tragedia di Sofocle. La vicenda riguarda stavolta una famiglia di rifugiati, con il Potere che ammazza e imprigiona e la giovane donna che pone un problema di leggi umane mettendo il proprio corpo a disposizione della disobbedienza civile. Inutile e ingeneroso elencare i precedenti di adattamenti ben più aggressivi e potenti (da Brecht ad Anouilh senza dimenticare modestamente la nostra Liliana Cavani con I cannibali). Certo stupisce che la forza dell’exemplum sia un po’ dispersa in un atteggiamento da cinema medio d’essai internazionale, pur sostenuto dalla sincerità di Sophie Deraspe e da Nahéma Ricci – che ha qualche tratto di Giovanna D’Arco più che di Antigone.
DAYS

Qualche anno fa si parlava di CCC, acronimo di Cinema Contemplativo Contemporaneo. Poi la cosa si perse, forse a causa della costellazione infinita di stili, forme e narrazioni della nostra epoca del cinema digitale. Questo per dire che Tsai Ming-liang resta fedele al suo approccio CCC, e ci immerge acquosamente nella piscina tersa del suo sguardo. Rimane poco spiegabile come le inquadrature infinite, le attività umane riprese a distanza, gli incontri rari e complicati sono in lui eccezionali e in altri registi insostenibilmente pomposi. Comunque Days è struggente e magnifico: quando i due protagonisti si incontrano non importa neanche più che cinema sia, perché il corpo pretende e impone una flagranza che fa dimenticare tutto il resto.
A WHITE WHITE DAY – SEGRETI NELLA NEBBIA

“Non vado pazzo per il cinema di Hlynur Palmason” è una frase che farebbe ridere chiunque fuori di qui. Anche perché con questo ha fatto solo due film. Eppure, un autore islandese che ambienta una storia dark in un paesino islandese passando metà del tempo a farci vedere quanto è bianca, piatta e orizzontale l’Islanda mi insospettisce. La vicenda del vedovo che scopre a posteriori i tradimenti della moglie morta è ormai un cliché – sia chiaro, noi amiamo i cliché purché dietro la macchina da presa ci sia qualcuno che pollackianamente se ne nutre e li risputa splendidi e commoventi. C’è una bella rissa in pochi metri quadri, il che ci dice che Palmason sa il fatto suo, ma che deve probabilmente seguire quel festival-style che non (ci) lascia respiro.
MR. CORMAN

Inizialmente vai a indagare per capire se di mezzo c’è Michel Gondry. Poi no, ti convinci che la serie è interamente e integralmente frutto delle idee di Joseph Gordon-Levitt. Tra solitudine, bromance, commedia isterica e siparietti surreali e cartonati (appunto), Mr Corman (Apple TV+) funziona molto bene anche grazie all’isolamento stilistico e tematico dei singoli episodi e a un cast in palla (Debra Winger oltre qualsiasi aggettivo). Una serie senza habitat mediale, forse senza un pubblico (infatti non è stata rinnovata), eppure più corrosiva di altre – anche grazie a una torsione a metà, dove entra il Covid-19 a piè pari nella storia e funge da intensificatore della parte più paranoica del racconto. Vale una visita.
Il personaggio opaco: “FRANCE”
Quasi nemmeno notato dal pubblico italiano, se non con qualche piccola nicchia cinefila d’essai, France è uno dei film dell’anno. Bruno Dumont ha avuto il merito di mettere in scena la crisi dell’estetica contemporanea nell’epoca dei media digitali, lavorando in una zona sottilissima tra verosimiglianza, mise en abyme e dramma borghese sperimentale.
Come facciamo solitamente nella rubrica dedicata alle singole sequenze, proviamo a capire se una di queste possa essere considerata parte-per-il-tutto, talmente indicativa da dirci qualcosa dell’intera operazione. Nella terza parte del film (attenzione agli spoiler), France torna in televisione dopo aver attraversato un periodo di crisi. Come ha sempre fatto, si reca in una zona di guerra e porta la troupe fin dentro il conflitto – confidando nella sua fortuna, nel casco e nel giubbotto anti-proiettile.
France rischia, in guerra? In parte sì, perché le fischiano le pallottole intorno. In parte no, perché appena finito il servizio si riposa nei resort, non troppo lontani dalla battaglia – di cui ascoltiamo i botti – ma non troppo vicino a un pericolo reale. Eppure, quasi attraversata da scosse di euforia e di impulsività (sintomi depressivi, in verità), troviamo France che prova l’inquadratura e dà vita a un assurdo balletto mentre intorno a lei esplosioni, spari, nuvole di fumo e gente in fuga sembrano inseguiti dalla morte.
Perché France fa le smorfie, ridacchia, saltella e gesticola in modo grottesco? Che cosa c’entra con la France in crisi di poco prima, con la sua malinconia, i suoi pianti, le sue insoddisfazioni e i suoi occhi gonfi? Perché sta agendo in modo sconsiderato? Poco dopo, la giornalista riprende il suo atteggiamento professionale e spavaldo, e comincia a girare quella specie di guerrilla television da canale generalista – contraddizione in termini – grazie alla quale conquista i suoi telespettatori.
Dumont, attraverso quella sequenza, ci spiega che non abbiamo capito nulla. O che potremmo non aver capito nulla. In un film nel quale, per quanto France pianga in primo piano e venga attraversata da emozioni insopprimibili, lo spettatore non può piangere né identificarsi, anche un possibile arco di trasformazione del personaggio di viene negato. France era dunque una stronza fin dall’inizio e nulla la può davvero trasformare? Oppure ci troviamo di fronte a un carattere liminare, con tratti bipolari, segnato da euforie e disforie continue, le cui traversie in fondo contano meno della mediatizzazione estrema in cui ella vive ormai come in una bolla?
France è un personaggio opaco, che chiama lo spettatore a decifrare l’indecifrabile; un personaggio che mette in scena, in modo sempre raddoppiato e recitante, una crisi personale che la macchina da presa non può davvero penetrare né chiarire, nell’impero del falso mediale dove ogni aspetto esistenziale è filosoficamente contraddittorio per l’habitat in cui si trova. France è sé stessa e sempre altro da sé (come la nazione che rappresenta per nomen, di cui osserviamo tutto: colonialismo, cronaca nera, politica, protesta, informazione, guerra, migrazione).
Curiosamente, nell’epoca in cui il concetto di autenticità (ovviamente anch’essa come costrutto e processo comunicativo) è decisivo per le celebrità, France è al tempo stesso esposta e impenetrabile, sentimentale e anempatica, caritatevole e cinica, sostanzialmente vera e falsa in ogni momento della sua vita – come non sapremo mai se nella clinica svizzera dove si rifugia ci sia davvero anche Angela Merkel: gliela indica una signora allegra fino all’isteria, deliziata di trovarsi tra i VIP in quello che sembra un albergo di lusso, fino a che arriva una minacciosa infermiera che la porta via con modi spicci: una paziente mitomane o una vittima che dice la verità?
Tutto France è pieno di botole, di gag tese e stranianti, di avvenimenti non annunciati o di ellissi stridenti, di personaggi secondari di cui è complicato comprendere la stabilità emotiva e mentale, di rotture della continuità, di linguaggi e di schermi che si installano l’uno nell’altro, di disarmonie che i media – ormai funzioni psichiche a tutti gli effetti – occultano ma moltiplicano.
E forse alla fine in questo mondo isterico e poco leggibile, eppure piatto o uniforme, rischiamo di riconoscerci.
VOYAGE NEL CINEMA INTERNAZIONALE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
LA PADRINA
La storia dell’interprete per la polizia che si reinventa boss della droga travestita da araba è di quelle a serio rischio stereotipo etnico, ma in Francia osano spesso attraverso la commedia (tipo Non sposate le mie figlie! o Due sotto il burqa). Poi ovviamente tutto gira intorno a Isabelle Huppert: il che significa che il carisma e l’autorevolezza della star sono di per sé una “promessa” di serietà politica anche quando si ride (risultato culturale interessante). Ma si ride? Insomma. La vena malinconica pian piano prevale (saggiamente), e se ci fosse stato un autore più ribaldo, chessò come Pierre Salvadori, magari si godeva di più.
ALLONS ENFANTS
Allons enfants di Giovanni Aloi è un film osservazionale e iperteso, come se idealmente D’Anolfi e Parenti si fossero messi a girare in chiave Bigelow. Progetto molto forte, anche se i pattugliamenti, le preoccupazioni, il batticuore e l’implosione continua (almeno fino al finale) non sempre appaiono potenti quanto Aloi pensa che siano. Molto più appassionante analizzarlo formalmente: forme di regia, di costruzione dello spazio, di rappresentazione urbana, di ricognizione del dettaglio sono decisamente maiuscole. E lo spettatore-critico abbandona la storia e si mette ad analizzare in sala.
BAC NORD
Terzo film francese della giornata e anti-film rispetto a quello di Aloi. Qui la sorveglianza e il pattugliamento diventano epici, action, e il gruppo di poliziotti non si troverebbero male nel cinema di Fuqua (o almeno del Fuqua ancora brillante di qualche tempo fa). Jimenez è uno che sa il fatto suo, e la sua Marsiglia brutale, blindata e carpenteriana aspetta solo di esplodere, come regolarmente fa nella seconda parte del racconto. BAC Nord in Francia ha rispolverato dibattiti d’antan: accusato di essere fascistoide (sbirri duri ma buoni vs. spacciatori magrebini armati fino ai denti), ha spopolato al botteghino. C’è già aria di Zemmour?
VENOM: LA FURIA DI CARNAGE
“Meglio il primo”: gli spettatori liquidano la questione e circa 15 minuti dopo aver visto il sequel stanno perdendone i pezzi nella memoria. Per metà film ti chiedi come sia possibile vedere un blockbuster Marvel (sia pure Sony) dove tutto ruota intorno a un tizio che sente una voce in testa e ci litiga. Poi c’è una sfida tra simbionti in cui l’unica cosa divertente è vedere che facce fa Woody Harrelson mentre si autocita in Natural Born Killers. Poi alla fine, vedendo che è durato solo novanta minuti, che non hanno poi speso tanto, che la sua rancida ironia regressiva ti ha sfiorato, che il sempre più intontito Tom Hardy lo ha pure scritto, che – insomma – la cosa in sé è veramente svaccata e guadagna pure un sacco di soldi, ti viene da simpatizzare e preferirlo a micidiali, pompose stupidaggini block-disneyer come Black Widow.
LOVELY BOY
Nascita e conferma di un autore? Tematicamente ci siamo: il primo Ultras era una cocente descrizione dall’interno dei tifosi napoletani (con destino fin troppo segnato, ma tant’è), questo parla della comunità trap con simili intenzioni antropo-narrative. Purtroppo interviene uno strano moralismo, un’assenza di quel rispetto che là paradossalmente (dove si fa di ben peggio) si annusava, con derive caricaturali. La parabola rapstar-tossicodipendenza (più comunità di recupero spartana) viene in parte riscattata da controllo formale e ottimi attori (il cinema italiano è strapieno di caratteristi che mezzo mondo si sogna). Comunque Lettieri è un talento, che per ora scodella film su Netflix e Sky. Nuocerà? O è il futuro della nuova autorialità streaming nazionale? Chi vivrà vedrà.
TUTTE LE TIPOLOGIE DEL CINEMA ITALIANO
Oggi la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film italiani di diversa origine, diverso tono, diversa identità produttiva.
THE ITALIAN BANKER
Il cinema di Alessandro Rossetto tematizza crisi e cisti del nord-est, ma con un approccio diverso da Andrea Segre (li chiamo i post-mazzacuratiani anche se somigliano il giusto). Rossetto di solito è più politico, sfiora il reportage narrativo, ed è per questo che trovarlo alle prese con un impianto teatrale e un bianco e nero (rivedibile) sorprende. Ma i problemi sono gli stessi: avidità umana, spoliazione del territorio e dei legami famigliari, banche e imprese che slittano verso l’illegalità senza battere ciglio. Funziona, con un po’ di pazienza e aggiungendo la gratitudine per aver cercato quelle “formalizzazioni” che il cinema italiano fatica a trovare, prigioniero ancora dopo decenni del fantasma della realtà.
SULLA GIOSTRA
Giorgia Cecere fa pochi film (uno ogni 5-6 anni, come regista) ma li medita. Qui utilizza alcuni confronti simbolici evidenti, talvolta troppo: metropoli e provincia, modernità e tradizione, movimento e stasi, sradicamento e territorio, donne di diversa età (la proprietaria e la governante). Come sempre, però, contano le forme e i dettagli. Il processo di costruzione dell’autenticità è molto minuzioso, le attrici (Sardo, certo, ma anche e forse soprattutto Gerini) danno il meglio, e per una volta gli ambienti domestici “parlano” – visto che spesso nel cinema italiano si ignora come riprendere un appartamento e infondergli vita vissuta.
IL MATERIALE EMOTIVO
Il film è tremendo e irredimibile in tutti i suoi aspetti: spiace per il soggetto mai girato di Scola, ma la cura Castellitto/Mazzantini è una mazzata che guarda ingenuamente a Visconti e al realismo (magico) francese faticando ad arrivare all’ora e mezza con snervanti tentativi di prendere tempo. Detto questo, il problema è un altro: si tratta di un film che non ha un pubblico, non ci sono letteralmente gli spettatori – nemmeno potenziali – perché questa produzione vedesse la luce. Spero che le vendite estere, grazie a Bérenice Béjo, mi smentiscano, altrimenti è un altro capitolo di quel cinema che si ripaga in modo auto-referenziale attraverso i finanziamenti e non in sala.
LUCUS A LUCENDO – A PROPOSITO DI CARLO LEVI
Nuove frontiere del documentario, tra indagine antropologica, naturalismo, cinema di poesia, critica letteraria e critica d’arte. Il film di Lancellotti e Masi segue il viaggio di Stefano Levi Della Torre nei luoghi della vita pubblica di Carlo Levi. Cristo si è fermato a Eboli diviene il territorio da esplorare, tra presente e passato, per una sorta di crito-film esteso e affascinante. Alla fine, è il Novecento e il rapporto tra artista e società ad essere messo in scena, scosso dai tremendi rivolgimenti della Storia del secolo scorso. Tradotto: è didattica cinematografica esplorativa senza avere l’aspetto della lezione.
SERIE ALLA DERIVA E DERIVE COLLETTIVE
NINE PERFECT STRANGERS
David E. Kelley e Nicole Kidman al loro peggio. Se le prove precedenti del duo (Big Little Lies o The Undoing) riscattavano il kitsch di base con un sincero amoraccio per il divismo al tramonto e per le storie improbabili, questa volta non c’è nessun appiglio. Nove sconosciuti in una lussuosa SPA dove di misterioso c’è solo l’esperienza psicotropa che li costringe a fare i conti con se stessi: il motore narrativo più spento degli ultimi anni. Sarà l’algoritmo? Più probabilmente una confusione narrativa figlia di qualche vagheggiata allegoria sul Covid e l’isolamento tra gli umani. Dio ce ne scampi.
SPECIALINO MUBI
PURPLE SEA
Il concetto di “difficile da guardare” assume nuovi significati. Un’artista siriana, Amel Alzakout, cattura con una GoPro attaccata al polso la fuga per mare dalla Siria e il rovesciamento della sua barca. Un’ora e dieci di suoni terrificanti (le urla dei disperati, molti dei quali in procinto di morire; l’acqua ovattata) e di parole fuori campo dette a posteriori. I colori sono due, l’arancione dei giubbotti di salvataggio e il blu del mare, indifferente e assassino. Strumenti estetici sarebbero fuori luogo (può essere “bello” questo film?) ma l’esperienza politica e artistica va oltre i confini conosciuti. Da confrontare con la finzione – ma altrettanto fisica – di Europa di Haider Rashid.
MALMKROG
Formidabile processo cinematografico verbocentrico e volutamente logorroico del sempre più teorico Cristi Puiu. Ambientato nella Transilvania di inizio XX secolo, presso il maniero innevato di un aristocratico, mette a confronto figure simboliche e ragionamenti sul continente prima che le due guerre mondiali lo sconvolgano. Sopra c’è una superficie di discorsi artistici, letterari e politici incessanti e sotto una violenza di classe e una nevrosi sociale incontenibili. Una macchina intellettuale e densissima di tre ore.
I WAS AT HOME, BUT
La cineasta tedesca Angela Schanelec non piace a tutti. Questo film, poi, presentato a Berlino 2019, è stato ferocemente odiato dai più – non esclusa una nicchia cinefila. Eppure, la sua protagonista persa a se stessa e al mondo, che si dona al film, allo spettatore e agli interlocutori con la privazione assoluta di ogni diaframma o schema sociale, è a suo modo commovente e senza pelle. Gli animali affiancano gli umani, per lo più predano o guardando fuori da una finestra, impossibilitati ad essere curiosi (come invece fanno nel cinema di Frammartino). Poco descrivibile e perciò urticante.
OCCHI SFOCATI e luoghi (in)ospitali
Si apre oggi la prima puntata della nuova sezione “In poche righe”, dedicata a brevissime riflessioni su film e serie in uscita.
WELCOME VENICE
Il miglior film di Andrea Segre libera il suo cinema spesso in bilico (talvolta perfetto, talvolta zoppo) tra sguardo e racconto. La Giudecca e i granchi costituiscono una solida iconografia, tra verismo e iper-realismo, che contiene in modo commovente lo scontro fratricida tra tradizioni e new economy (che altrimenti sarebbe stato rischiosamente legnoso). L’accento veneto diventa quasi un folk rap e gli attori sono in stato di grazia (speriamo che ai David se ne ricordino).
MALIGNANT
Il ritorno di James Wan all’horror dal sapore “indie” ha già diviso i critici: crudo e rozzo b-movie eccitante, sanguinoso, zampillante; o prodotto di scarto, diretto male e recitato da cani? La lettura cinefila attira verso il primo parere, ma durante la visione si sbatte il muso più volte contro il muro di realtà della seconda evidenza . Se lo avesse diretto Darren Lynn Bousman non mi sarei stupito. E non è un complimento.
IL CIECO CHE NON VOLEVA VEDERE TITANIC
Situazione ribaltata. Successone di pubblico e critica mainstream e accuse di immoralità dello sguardo da parte della cinefilia radicale. Come mostrare la soggettività di un tetraplegico cieco interpretato da un attore in quelle stesse condizioni? Bastano le sfocature e l’uso intenso del fuori campo verbale? Certo, il film “carino” è dietro l’angolo, ma concederei un po’ di generosità a questo mélo intinto di culto per i film, oltre che al suo protagonista di lepida ironia finlandese.
LA DIRETTRICE
Ormai le serie TV sono macchine di scrittura e macchine di rielaborazione frenetica della realtà sociale. In questo godibile caso, i temi del maschilismo e gerontocrazia delle università americane sono confrontati agli ingenui estremismi degli studenti. Curioso lo sguardo neutro ma non neutrale delle autrici. Non si sa bene per chi tifare in quel Dipartimento tra docenti e allievi, e alla fine si ha la sensazione che noi spettatori siamo reagenti: a seconda delle nostre empatie capiremo i nostri limiti.
EROI RIDICOLI AI CONFINI DEL MITO in bruno bozzetto
Continuiamo la ri-pubblicazione di miei saggi e articoli ormai fuori catalogo. Oggi tocca a un testo che scrissi per Giannalberto Bendazzi e Raffaele De Berti (che ringrazio), La fabbrica dell’animazione. Bruno Bozzetto nell’industria culturale italiana, Milano, Il Castoro, 2003. Il titolo è quello che vedete qui sopra e il sottotitolo West & Soda e Vip mio fratello superuomo tra generi e parodia.
Nella folta produzione di Bruno Bozzetto, i primi due lungometraggi costituiscono senza dubbio – insieme alla serie del Sig. Rossi – il lato più conosciuto e condiviso della sua opera. La distribuzione nelle sale di prima visione, il recupero costante nella matinées per le scuole, l’interesse della televisione hanno infatti investito le pellicole di luce particolare, forse a scapito delle creazioni più rapide e, per durata, effimere.
Tuttavia, chi pensa che il discorso critico sui due film sia esaurito, incorre in un errore. West & Soda e Vip mio fratello superuomo rappresentano infatti un cinema d’animazione spiccatamente innovativo, specie per il fatto di costruire la propria originalità attraverso complessi rapporti intertestuali con gli altri modelli di animazione (da Walt Disney al Carosello) e grazie al ricorso ad una sistematica sollecitazione dell’enciclopedia spettatoriale per via dell’elemento parodistico.
Ma andiamo con ordine. West & Soda reca come data di uscita il 1965. Il film – vale la pena ricordarlo brevemente – racconta di Clementina, giovane proprietaria di una casetta nella prateria piena di animali e di un piccolo appezzamento di terreno tutto verde, e delle sue disavventure con il latifondista che vuole espropriarla dei suoi possedimenti. Dapprima, il cosiddetto “Cattivissimo” cerca di convincerla con le buone, offrendole di sposarla e di farla vivere agiatamente. La donna, cui ripugna la prepotenza dell’uomo, rifiuta. Intervengono allora gli sgherri del proprietario terriero, Ursus e Slim, temuti da tutto il paesino del west dalle poche anime. Le minacce e le distruzioni si susseguono fino all’arrivo di Johnny, pistolero dai ricordi ossessivi e intenzionato a praticare la non violenza. Visto che Clementina se ne innamora, il Cattivissimo escogita un piano secondo grazie al quale Johnny viene apparentemente sedotto dalla sciantosa del saloon. Clementina, gelosa, lo manda via da casa propria ma continua a rifiutare il ricco ammiratore: i due bravi le incendiano la fattoria, scatenando questa volta la vendetta di Johnny che, ripresi i “ferri del mestiere”, fa fuori i nemici uno dopo l’altro.
Anche solo scorrendo la trama, ci si può rendere conto di come Bozzetto percorra i loci communes del western e ne faccia lo scheletro narrativo tipologico nel quale innestare la dimensione comica e il lavoro di ripensamento infantile dell’epica del selvaggio Ovest. Tuttavia, il dialogo con le forme del western assume più aspetti, alcuni di stampo macrostrutturale (per dirla alla Genette, di “archigenere”[i]), altri meglio individuabili nelle occorrenze contemporanee al genere di riferimento. Già Renato Candia, all’interno del suo ricco saggio su Bruno Bozzetto[ii], procede all’analisi di West & Soda facendo riferimento a questi due aspetti. Riassumendo, egli sostiene che è necessario impostare il confronto con il cinema western senza dimenticare che si tratta di un’opera d’animazione, la quale procede perciò a un differente livello di «rivistazione del genere: l’evidenza dichiarata della figurazione fittizia costringe ad una riconsiderazione complessiva degli effetti simbolici che ognuno degli elementi messi in scena è capace di offrire»[iii]. Inoltre, Candia suddivide lo studio interpretativo di West & Soda in due categorie: 1) le componenti narrative e 2) le componenti storiche. Nel primo caso, trovano cittadinanza le invarianti di genere: la figura dell’eroe, lo spazio («esso non rinvia ad un ruolo nella storia che si narra bensì a tutti i ruoli possibili che lo spazio, nella tradizione del cinema western, ha ricoperto»[iv]), le opposizioni ideologiche; nel secondo caso, quello su cui maggiormente ci soffermeremo, Candia segnala giustamente come il prosciugamento delle azioni narrative corrisponda alla tendenza del western crepuscolare di quegli anni (ad esempio, l’arrivo e la partenza dell’eroe messianico), mentre i tormenti psicologici del protagonista rimandino ironicamente al cosiddetto western psicanalitico di Anthony Mann, George Stevens e Fred Zinnemann, senza dimenticare il western all’italiana.
Fermo restando l’alto valore analitico del saggio di Candia, che di fatto esaurisce buona parte delle riflessioni possibili sulla “lettera” intertestuale del film, bisogna a mio parere spostare, sia pure di poco, l’ottica con cui definiamo quest’opera. Come si diceva, vi è un atto comunicativo iniziale nei confronti del pubblico, utile a inaugurare un racconto che, fuor di dubbio, sarà di lì in poi una “parodia del western”. In questo senso, valgono come tali gli elementi di citazione – anche quelli diluiti e allusivi, come il nome Clementina da My Darling Clementine -, o il ricorso alle costanti del paesaggio. In fondo, la parodia del western è una delle pratiche più antiche del comico: oltre a film come Go West (Io…e la vacca, 1925) di Buster Keaton o Gianni e Pinotto tra i cowboys (Ride’em Cowboys, 1942) di Arthur Lubin, l’animazione stessa ha più volte affrontato l’argomento (si pensi a The Cactus Kid, 1930, cortometraggio Disney o a The Lone Stranger and Porky, 1939, della Warner Bros.). D’altra parte, seguendo questo schema, non possiamo dimenticare la data di uscita del film: 1965. Certo, come già spiegato, siamo in un’epoca di ripensamento forte del genere western anche in ambito americano[v], di psicologizzazione dell’eroe e al contempo di essenzializzazione dei gesti narrativi, quasi una riduzione “alle funzioni” degli avvenimenti. Questa seconda strada è intrapresa dal western all’italiana, che però – in più – aggiunge un delicato rapporto intertestuale con le fonti classiche e immerge il west falsificatorio e locale in una tradizione culturale di stampo goldoniano, con riferimenti alla commedia dell’arte, alla satira, al carnevalesco, e alle tradizioni funebri del sud Italia.
La letteratura critica sull’argomento è piuttosto scarsa, tuttavia è sufficiente per notare come Bruno Bozzetto – diciamo così – si “appoggi” all’aurorale lavoro di derivazione ironica del western da parte di Sergio Leone per costruire il suo West & Soda. In poche parole, la mia impressione è che il film di Bozzetto non sarebbe stato lo stesso se girato nel 1960 o 1963; sia chiaro, non significa che in quel caso l’opera dovesse sortire un risultato peggiore o migliore, ma solo che la componente stratificata e intertestuale di Per un pugno di dollari (1964) appare decisiva. Come sempre, bisogna guardare attentamente allo sviluppo delle correnti storiche: per il western italiano, la vicenda è particolarmente intricata. Fin dall’inizio degli anni Sessanta, infatti, si fa strada tra i vari filoni del cinema farsesco, forse in sostituzione del film-rivista, la parodia del western americano; film come I magnifici tre (1961) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello e Walter Chiari, Due contro tutti (1962) di Alberto De Martino con Walter Chiari e Raimondo Vianello, Gli eroi del west (1963) di Steno con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello utilizzano il paesaggio ormai inconfondibile del west come una quinta televisiva, dando vita a un chiaro apparentamento con il varietà televisivo e il Carosello[vi].
In tutti questi film lo spazio è fortemente centripeto, lo scenario quasi di cartapesta, il west un luogo come un altro dove paracadutare i comici per godere dell’effetto di “incongruità” tra la dimensione epica del contesto e il ridicolo del soggetto. Solo nel 1964, però, interviene Sergio Leone, e non per primo nell’ambito europeo. Tuttavia, è certo il regista romano a ipostatizzare per sempre la forma dello spaghetti-western, sulla quale esistono molte interpretazioni. Chi scrive, ad esempio, è convinto che, sebbene attraversato da evidenti connotati ironici, i film di Leone affermino rispetto allo spettatore comune un primato dell’epica sul farsesco. Come a dire: il pubblico che ha decretato l’enorme successo di questi film lo ha “consumato”, se non come un western classico, come un western innovativo ma altrettanto eroico, con tanto di identificazione nei confronti di Clint Eastwood e di partecipazione ben più tradizionale che postmoderna alle vicende narrate. Appartiene invece alla storia interpretativa e critica dei film l’individuazione dell’anti-eroismo dei personaggi, della privazioni dei miti fondanti del classico americano, della dilatazione drammaturgica o della poetica degli straccioni e del carnevale. Comunque sia, Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966) costituiscono un modello fondamentale. Ecco, dunque, giungere sulla scena Bozzetto, il cui West & Soda propone alcuni elementi leoniani e altri chiaramente parodistici. L’incipit del film, ad esempio, con la carrellata su uno scenario fatto di scheletri, rovi e il cowboy seduto sulla carcassa di un cavalo rimanda alla macabra poetica funeraria del western nostrano. In un saggio sul western all’italiana, del resto, Franco Ferrini inserisce tra le voci di un’ideale enciclopedia del western italiano anche il “cimitero”: «‘Voi che passate su questa collina isolata, fermatevi e pregate, non piangete per noi che abbiamo raggiunto così presto la nostra ultima dimora, la coperta per sudario, la sella per cuscino, gli stivali ancora ai piedi’, così i versi del cantastorie per i morti di Boot Hill (= colina degli stivali, con allusione alla banalità quasi quotidiana nel west della morte violenta), il famoso cimitero non lontano dal non meno famoso O.K. Corral. La morte violenta è nel west moneta corrente. Si ricordi la didascalia che apre Per qualche dollaro in più: “là dove la vita non aveva nessun valore, la morte aveva il suo prezzo…’. Essa infatti non risparmia nessuno, né uomini né animali».
Bozzetto, quindi, individua – probabilmente per poligenesi creativa – l’aspetto funerario quale possibile elemento di iperbole per un genere western giunto ormai a livello di “inorganicità”; in seguito imposta, sulle base di questa stessa “reductio” alle funzioni, un racconto comico dalle forti connotazioni parodistiche che prende a bersaglio, almeno per noi destinatari di oggi, anche il cinema di Leone, ed apre la strada a molte parodie leoniane che sanciscono di fatto l’auctoritas che la Trilogia del Dollaro costituiva nel circolo del consumo popolare e della ricezione. Film come Per un pugno nell’occhio (1964) di Michele Lupo con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, I gemelli del Texas (1964) di Steno con Walter Chiari e Raimondo Vianello, I 2 sergenti del generale Custer (1965) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Ringo e Gringo contro tutti (1966) di Bruno Corbucci con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca, Per qualche dollaro in meno! (1966) di Mario Mattoli con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca, I due figli di Ringo (1966) di Giorgio Simonelli e Il bello, il brutto, il cretino (1967) di Gianni Grimaldi, entrambi con Franco e Ciccio testimoniano dell’avvenuta canonizzazione dei film di Leone, che risultano perciò ironici ma non parodistici.
West & Soda si colloca dunque a questo punto dell’affollato crocicchio del western italiano, fra innovazione leoniana, cascami del film-rivista, parodia di prima e seconda fase, e ulteriori imitazioni (il resto dello spaghetti-western, politicizzato o meno, che qui ci interessa meno). E comunque, il film si ritaglia uno spazio assolutamente autonomo, che partecipa, chissà quanto consapevolmente, alla rilettura leoniana ma anticipa già gli elementi della parodia successiva, forse costituendone a sua volta un modello. Il cinema italiano degli anni Sessanta è una specie di grande “circo intertestuale”, dove anche i generi dialogano tra di loro, e fanno trasmigrare non solo le maestranze (come nel caso peplum > western), ma anche forme simboliche e strategie comunicative.
Tornando più direttamente al testo di West & Soda notiamo come, a differenza di parodie più tarde (per esempio Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks, 1974), mancano apparentemente gag di stampo metalinguistico, per solito una costante della parodia. In Brooks, infatti, si fa spesso riferimento a nomi storpiati di attori (“Hedley Lamarr”) o a capovolgimenti sintattico-semantici, ma gli esempi potrebbero essere numerosi: sfondamenti del set, macchine da presa che colpiscono vetrate, voci fuori campo incongruenti, più in generale: umoristici attacchi alle convenzioni narrative e stilistiche dei codici cinematografici e svelamenti della natura di costrutto del testo filmico.
In West & Soda, sebbene non manchino quasi tutte le categorie di retorica del comico elencate da Dan Harries[vii] come markers del lavoro parodistico (per es.: il cavallo che sgomma come un’automobile è un anacronismo in funzione farsesca), si delega l’aspetto metatestuale alle allusioni intermediali. Ad esempio, durante la sparatoria finale, Ursus dà vita a un assurdo show di danza e violino del tutto inappropriato; nel frattempo, passa il venditore di bibite strillando le proprie offerte come allo stadio (sul rapporto tra sparatoria e sport ha poi detto l’ultima parola Sam Raimi con l’intelligente The Quick and the Dead, 1995, Pronti a morire); alla fine, una voce fuori campo, rifiutandosi di chiudere il film, confessa il proprio ruolo di narratore inaffidabile e chiede al protagonista da dove fosse saltata fuori la pepita che gli era sfuggita di tasca a metà del film: la risposta di Johnny è «sciocchezze, l’avevo trovata in un detersivo». Inoltre, il rapporto con Walt Disney, Tex Avery e Chuck Jones (segnatamente Wile E. Coyote), persino Jacovitti e il suo Cocco Bill rappresentano un’ulteriore forma di interdiscorsività sul quale non ho qui competenza per intervenire, ma che risulta evidente anche al profano.
In poche parole, gli aspetti di parodia delle convenzioni enunciative e lo straniamento metalinguistico vengono da Bozzetto lasciate al confronto intermediale con la televisione, lo sport e la pubblicità, come del resto ben chiarito dal commento musicale (di Giampiero Boneschi) e dall’uso del suono.
Proprio questo aspetto sembra illuminare la successiva parodia di Bruno Bozzetto: Vip mio fratello superuomo (1968).
La storia narra della famiglia dei VIP, supereroi nati da schiatta mitologica. I discendenti sono Supervip e Minivip, il primo atletico, indistruttibile e tutto d’un pezzo, il secondo assai diverso dai nobili progenitori: basso di statura, sgraziato, e soprattutto pavido. Depresso e in cura dallo psicanalista, Minivip si trova coinvolto in una disavventura da 007: finito per sbaglio su un’isola deserta, deve sventare i piani di Happy Betty, feroce tiranna affarista, che desidera trasformare il cervello di ogni uomo del mondo per convincerlo artatamente ad acquistare i suoi prodotti. In un rocambolesco susseguirsi di vicissitudini, che coinvolgono anche l’aitante fratello, la bella Lisa, e la “cavia” Nervustrella, il bene e l’amore trionfano.
Anche questa volta, utilizziamo l’ottima fonte critica di Renato Candia per evidenziare alcuni elementi macroscopici. Secondo Candia, infatti, Vip mio fratello superuomo intrattiene forme di dialogismo specifico con la serie di 007, di cui conserva equivalenze narrative e testuali per poi operare trasformazioni di segno comico. Secondo l’autore, il rapporto parodistico con il modello necessita di una chiarificazione; ben lungi dall’occuparsi di un singolo film come discorso (ad esempio, Balle spaziali/Guerre stellari), «la relazione che lega le vicende di Bond con quelle di Minivip si fonda invece su una serie di rinvii in prevalenza simbolici, cioè sulla possibilità di istituire aree semantiche comuni tra i singoli elementi costitutivi delle due storie: la sintesi, connaturata all’elemento simbolico qualunque sia la materia espressiva adoperata, diviene così la norma dello scarto deformante»[viii]. Se, dunque, Bozzetto sceglie di lavorare sull’intertestualità più ampia del “genere-Bond” e non fermarsi a prestiti occasionali, sembra che nuovamente siamo di fronte a un film che “respira” la cultura dell’epoca, dai superuomini di massa alle interpretazioni politiche del fumetto e dell’animazione. Appare davvero incongruo ignorare la data di uscita del film, quel 1968 che, anche solo a livello contestuale, deve certamente aver contato qualcosa per la realizzazione e la scelta dei temi del film.
Spiega esemplarmente Fausto Colombo: «Si può dire che il dato davvero sintomatico che si rileva a partire dagli anni Sessanta è una crescente distonia fra la storia dei fenomeni di consumo culturale e la vicenda del paese in termini storici, almeno come essa viene letta a partire dalla Cultura dei circuiti “alti” tradizionali. Qualche esempio: fa indubbiamente riflettere che la generazione studentesca protagonista del Sessantotto sia cresciuta consumando – accanto a una cultura scolastica che faceva perno sul liceo classico come matrice della classe dirigente futura – il fumetto nero e il cinema mitologico-seriale o quello spaghetti-western»[ix]. Per Vip mio fratello superuomo si tratta dunque di comprendere il lavoro di sintesi degli elementi culturali presenti all’epoca, e successivamente di parodia dei linguaggi sociali e mediatici. In primo luogo, come fatto per il western all’italiana, bisogna ricordare che esiste in questi anni in Italia una forte presenza di cinema spionistico, non di rado ai limiti della decostruzione farsesca: basti pensare a titoli quali Agente 077 missione Bloody Mary (1965), Agente 3S3 massacro al sole (1965), Agente 077 dall’Oriente con furore (1965), Missione speciale Lady Chaplin (1966), A 077 sfida ai killers (1966), Rapporto Fuller base Stoccolma (1967), etc. I vari Agente 077 o Agente segreto 777 puntavano alla solita “falsificazione” alla buona delle spy-story, mentre le parodie giungevano contemporaneamente al filone italiano: pensiamo alla serie James Tont con Lando Buzzanca e a quella degli 002 con Franchi e Ingrassia. Quando si cominciano, però, a girare film come O.K. Connery (1967) di Alberto De Martino, in cui il protagonista è Neil Connery, figlio di Sean, nella parte di se stesso, affiancato dalla ex-Bond girl, la bellissima Daniela Bianchi, o come Un dollaro per sette vigliacchi (1967) di Giorgio Gentili, spionistico-comico, non si capisce più nettamente la differenza tra imitatori e parodisti. E’ il segno chiaro di una deriva intertestuale che mostra un solo profilo: quello del rilancio confuso e infinito.
Del resto, già West & Soda, come abbiamo visto, partecipa bene o male di un modello bulimico dove, a parte Leone e i testi canonizzati, si fa strada un trionfo del secondo grado piuttosto raro nel nostro cinema. Non solo: i due film di Bozzetto sono anch’essi legati da un atteggiamento simile, dove elementi di neomitologia hollywoodiana e linguaggio da Carosello costituiscono materiali già in qualche modo “lavorati” e testualizzati. Si legga, per esempio, Tullio Kezich quando scrive: «In Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (…) si deve constatare che il Pistolero è un personaggio nuovo sulla scena del western ed è nato non a caso nell’era di James Bond e degli altri superuomini in voga nel momento attuale (in Italia sono tornati di moda i fumetti di Flash Gordon, negli Usa sta furoreggiando la serie Tv dedicata a Batman, e, a Broadway, c’è un musical sul personaggio di Superman: It’s a Bird, it’s a Plane… it’s Superman)»[x].
Ancora una volta, dunque, Bozzetto si staglia su uno sfondo che per il ricercatore è difficile ricostruire, ma che enfatizza – in tutta la sua evidenza – un processo di rielaborazione simbolica e di riconsiderazione dei generi audiovisivi in un dialogo sempre vivo con il destinatario. Da una parte, dunque, si fa strada una volta di più l’impressione che la parodia, anche quella animata, costituisca terreno fertilissimo per reception studies e ricostruzioni delle comunità interpretanti; dall’altra, si conferma il dato metalinguistico (altrimenti non immediato), in cui il testo, in questo caso di Bruno Bozzetto, definisce se stesso criticamente in relazione agli altri testi. Vip mio fratello superuomo lo fa in maniera ancor più esplicita che in West & Soda. Il personaggio di Minivip ha peraltro il merito di anticipare alcuni fenomeni: l’antieroe di una qualche sapore vicino alla comicità ebraica ricorda certamente Woody Allen, salvo che all’epoca di uscita del film Allen ha girato solamente Ciao Pussycat (Hi, Pussycat!, 1965) e James Bond 007 – Casino Royale (Casino Royale, 1967), altra parodia di 007 dove l’attore ha un ruolo abbastanza secondario. Significa, cioè, che non è ancora emerso al cinema internazionale – caso mai in certi brevi racconti o nei testi per altri comici – il caratteristico protagonista nevrotico e in analisi perenne che presto darà vita, anche nella filmografia del regista, a svariate parodie[xi]. Ebbene, Minivip sembra un Allen ante-litteram con un eroe in psicanalisi, come si presenta all’inizio (e come accade, ma per derivazione alleniana, nel recente Z – La formica, 1998, AntZ). Molte sequenze, del resto, fanno riferimento a una “riduzione” paradossale del ruolo dell’eroe. Già insicuro e depresso, Minivip non ha bisogno di travestirsi per il ballo in maschera della nave in cui si trova, tanto il suo costume è adatto alla carnevalesca festa. Inoltre, fra i tratti caratteristici della “nuova semiologia” bersagliata dall’ironia di Bozzetto, vi è anche il personaggio di Lisa, laureanda in antropologia con una tesi proprio sui Vip.
Tra i tanti motivi di interesse, tuttavia, uno emerge con grande forza. Il personaggio di Happy Betty, che considera la pubblicità una “scienza pura”, mostra di apprezzare le teorie sull’uomo meccanizzato (esposte attraverso finti documentari non lontani dall’animazione di Osamu Tezuka), studia la possibilità di lanciare piccoli missili destinati a infilarsi nel cranio delle persone e ridurle a cani di Pavlov pronti all’acquisto non ha perso nulla della sua originalità. Sappiamo come Vip mio fratello superuomo abbia conosciuto varie traversie che ne hanno modificato l’impianto originario e disperso la volontà dell’autore. In ogni caso, la dimensione ironica nei confronti della pubblicità è di altissimo valore. Due sequenze lo dimostrano: nella prima, Minivip scopre reclusi all’interno delle segrete del castello di Happy Betty le cavie già modificate dal missile “pubblicitario”, ridotte a cantare per tutto il giorno sigle da spot e inscenare brevi musical da Carosello. Nella seconda, invece, assistiamo alla dimostrazione del “modello fordista” secondo Happy Betty che, di fronte agli esperti convenuti sull’atollo atomico, mostra la perfetta funzionalità della sua fabbrica: le migliaia di lavoratori presenti vengono sfruttati all’osso, e si procede a determinare per loro i cicli del lavoro, del sonno e della veglia, della salute e della malattia; persino vacanze e dopolavoro vengono orchestrate meccanicamente dai mezzi automatizzati che producono i razzi per la propaganda pubblicitaria. Se l’obiettivo satirico della sequenza è chiaro – colpire contemporaneamente l’alienazione del lavoro in fabbrica, in stile marxista e chapliniano (Tempi moderni, 1936, Modern Times), e l’alleanza tra imperialismo militarista e aggressività delle merci (siamo appunto nel 1968!) -, quello parodistico porta a incandescenza le già sperimentate formule comiche intermediali. Vip mio fratello superuomo è un film che mima e ribalta di segno le strategie enunciative dei modelli pubblicitari audiovisivi, che esibisce falsi documentari scientifici e ironici filmati di propaganda, che fa irrompere i linguaggi pubblicitari nel corso della narrazione tradizionale, in poche parole che opera a un livello molto alto di confronto intertestuale e metalinguistico.
Concludendo, possiamo affermare che, al di là degli innegabili meriti sull’artisticità delle opere e sull’innovazione grafica trasportata da questi due film, West & Soda e Vip mio fratello superuomo vanno ricordati anche per la consapevolezza con la quale identificano il proprio discorso critico nei confronti della società (attraverso il ricorso a moduli dell’intermedialità parodistica) e per il ruolo essenziale che hanno ricoperto in un periodo di grande complessità all’interno del cinema italiano di genere (sfruttando perciò gli strumenti della parodia di genere).
Inoltre, la disinvoltura con la quale Bozzetto ammette svariate influenze direttamente nel testo (Walt Disney, Warner Bros., l’animazione giapponese, l’illustrazione popolare) e comunica con il disegno a lui contemporaneo (il fumetto jacovittiano e bonviano, il Carosello animato di Cavandoli, la pop art quotidiana del design domestico, per citarne solo alcuni) ne fanno un protagonista assoluto del lungometraggio animato “di secondo grado”, ben prima delle meta-fiabe in stile Shrek (2001) e Monsters & Co (Monsters Inc., 2002).
[i] Vedi Gérard Genette, Introduction à l’architexte (1979); tr. it.: Introduzione all’architesto, Pratiche, Parma, 1985 e Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Paris, 1982; tr. it.: Palinstesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997.
[ii] Renato Candia, Sul filo della matita. Il cinema di Bruno Bozzetto, Edizioni Cinit, Venezia, 1992, pp. 135-148.
[iii] Renato Candia, op. cit., p. 143.
[iv] Renato Candia, op. cit., p. 144.
[v] Vedi Cesare Secchi, Paolo Vecchi, Lampi e speroni danzanti. Temi e atmosfere nel western psicologico, Lindau, Torino, 2000; Raymond Bellour, Le western, Union Générale d’Editions, Paris, 1966; tr. it.: Il western, Feltrinelli, Milano, 1973.
[vi] Un approfondimento su questa ipotesi storiografica è contenuto nel mio La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna, 2001.
[vii] Dan Harries, Film Parody, BFI, London, 2000.
[viii] Renato Candia, op. cit., p. 153.
[ix] Colombo, F., La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano, 1998, p. 98.
[x] Tullio Kezich, “Il Pistolero innominato”, in Il mito del Far West, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1980, p. 196.
[xi] Si veda la mia analisi di Il dormiglione (The sleeper, 1973) in Roy Menarini, La strana copia, Campanotto, Udine, 2003.
Calciatori, giudici e dropout. Storie di vita e conflitti morali
L’episodio del podcast si conclude bruscamente pochi secondi prima della fine, me ne scuso (ma il concetto era espresso).
CASANOVA E IL CINEMA COME CATALOGO
Ripubblico qui una breve introduzione scritta per lo speciale Casanova di Federico Fellini n. 81, 2017.
Per chi insegna la storia e la cultura cinematografica alle giovani matricole dei corsi di studio universitari, la sfida su Fellini è sempre suggestiva. Si tocca con mano quanto i titoli del cineasta riminese siano rinomati, e quanto il suo nome appaia famigliare. Purtroppo quando parliamo di titoli, non intendiamo i film, ma proprio…i titoli. Oltre ad aver sentito nominare La dolce vita oppure 8 ½ i discenti – ovviamente con le dovute eccezioni – non conoscono nulla dei contenuti ed è molto raro che abbiano visto anche solo poche immagini dei lungometraggi di cui si parla. Si dirà: vale per molti altri mezzi espressivi, purtroppo, e per molte altri artisti. È vero, se si escludono quelli che – sia pur magari con risultati contraddittori – vengono considerati obbligatori per conoscere l’identità italiana a scuola, e qui dovremmo tornare all’annosa questione del cinema nei licei e alla necessità di tramandare la nostra eccellenza artistica del Novecento.
Tuttavia, anche solo limitandoci al nostro caso, non tutti i mali vengono per nuocere. Quando si comincia a lavorare su Federico Fellini di fronte a una platea in maggioranza ignara, ecco che in molti casi scocca la scintilla, i film cominciano a parlare direttamente e potentemente all’ascolto dello studente, l’universo felliniano conquista lentamente la curiosità e lo stupore dei ragazzi, e alcune opere opportunamente analizzate offrono inaspettati risultati didattici. Insomma, Fellini è pienamente in grado, cono o senza la mediazione di un docente, di farsi capire dalla generazione dei millennials, che sono pronti a indovinarne la sensibilità artistica e a trovargli un posto tra i grandi creatori di forme artistiche e iconografiche della nostra modernità.
In questo senso, il Casanova – indipendentemente dal posto in classifica che vogliamo trovargli nella filmografia felliniana – diventa quasi il film-catalogo del suo cinema, e soprattutto un’opera aperta che rappresenta la sfida più importante per qualsiasi professore: far comprendere come il cinema sia di per sé un’arte sintetica (che sedimenta, introduce e sfrutta tutti gli altri mezzi) e un’arte che rimette in circolo la cultura cui attinge. Non c’è aspetto – tra letteratura, scienza, meccanica, teatro, arti figurative, musica, moda, architettura, arredamento, danza, performance, cosmetica ecc. – che non attraversi Il Casanova in una vorticosa giostra di arti maggiori e arti minori in costante mélange estetico, tutte guidate dalla personalità fortissima e poliedrica di un regista demiurgo che fa i conti con le proprie ossessioni, individuandone i tratti in uno dei personaggi-archetipo dell’uomo italiano.
Se abbiamo insistito sugli studenti, è perché solo nel progetto di una nuova divulgazione felliniana presso le generazioni contemporanee possiamo immaginare come il repertorio del regista possa ancora radicarsi nel tessuto identitario nazionale. Di solito, nella pedagogia anglosassone, si definiscono useful films quelle opere che hanno contenuti spendibili per il dibattito scolastico o per l’approfondimento di temi pubblici, legati in qualche modo alla società contemporanea. Nessuno, nei paesi succitati, considererebbe Casanova come un “film utile” per parlare dell’agenda dei temi sociali (di solito: migrazione, minoranze, ecologia, ecc.). Ma se invece invertiamo il cannocchiale, ci accorgiamo che niente come il Casanova può fungere per noi italiani come uno useful film, perché mette in gioco le nostre radici letterarie e culturali, e affronta (certo, magari in modi adulti e poco adatti a un contesto di discenti più piccoli) un ventaglio istoriato di emozioni, sentimenti, decadenze e contraddizioni del tutto universali e sincere, che un bravo e sensibile docente può trasformare in straordinaria potenzialità formativa.
Insomma, se Casanova ci offre un’idea di cinema come catalogo, la proposta è quella di non guardare al film come all’opera chiusa, tormentata, visionaria, inattingibile del suo autore, bensì a un laboratorio di idee e a uno scrigno artistico dove tutti abbiamo la libertà di mettere le mani, chi trovandoci uno strumento chi un altro, facendo “esplodere” la galassia felliniana fino ai più reconditi lidi e facendolo arrivare agli spettatori apparentemente meno vicini.
ripensare “io, io, io…e gli altri” di alessandro blasetti
Quasi tutti gli storici riconoscono in questo decennio la centralità di un film come Io, io, io…e gli altri (1966), quasi un sole intorno al quale gravitano tutti gli altri piccoli satelliti, che si chiamino essi Liolà, La ragazza del bersagliere, o Simon Bolìvar (vanno esclusi Io amo, tu ami…, e “La lepre e la tartaruga”, episodio di Le quattro verità, analizzati altrove coerentemente con il progetto cinematografico, documentario o film a episodi, di cui fanno parte), tutte pellicole che ci sembra abbiano subito un trattamento in ogni caso troppo sbrigativo nel corso degli anni e che potrebbero per lo meno essere riprese in considerazione a seconda del rapporto che esse intrattengono con il cinema coevo, con i miti del film d’autore o con le contraddittorie evoluzioni della commedia all’italiana. In queste righe cercheremo dunque di procedere con una lettura, sia pure superficiale, delle molteplici influenze presenti nel cinema di Blasetti anni ’60, non dimenticando del resto l’operatività di una poetica drammaturgica e ideologica mai dispersa.
Non di meno, bisogna fare anche esercizio d’umiltà e acquisire l’autocandidatura di Io, io, io…e gli altri a film testamentario, a memoriale d’autore, a ultimo grande diario di una personalità poliedrica del nostro cinema. Accettiamolo, dunque, come centro gravitazionale, ma non dimentichiamo gli errori fatti già nella prima parte della sua carriera quando molti osservatori non comprendevano la febbrile “incoerenza” di un regista che passava dal cinema storico alla leggenda fantastica fino a giungere alla commedia paesana proto-neorealista. Sull’importanza di Io, io, io… per Blasetti non esistono dubbi, basta leggere alcune dichiarazioni del regista[i] quando afferma: “Questo sarà un film tutto composto di episodi anche brevissimi, l’uno di diverso ambiente dagli altri, purché tutti suggeriti e provocati da un tema unico; un film di annotazioni, osservazioni, riflessioni che si possano tradurre in episodi anche minuscoli”. E a certificazione dell’investimento affettivo alla base dell’opera: “Questo sarà l’ultimo film con il quale farò trepidare produzione e noleggio per la mania di cercare nuove strade o meglio nuovi sentieri alle possibilità espressive del cinema. Sarà l’ultima volta perché bisogna che io dia un’occhiata all’anagrafe, finisca con l’accorgermi degli anni che ho e del mio dovere, direi, di mettermi da parte”.
Già sperimentata la formula del film a episodi (Altri tempi, Tempi nostri in largo anticipo sul momento in cui tale struttura diventa un’abitudine della nostra industria cinematografica), superato il documentario-varietà comunque spezzettato in diversi “numeri” (Europa di notte e Io amo tu ami), sembra quasi che con Io, io, io…e gli altri Blasetti abbia voluto radicalizzare l’esperienza e costruire un film dove fosse davvero difficile individuare uno scheletro di fondo. Intuendo probabilmente la sclerotizzazione cui il cinema ad episodi andava incontro, Blasetti ha optato per un film-diario, un cinema-appunti (ma sia chiaro: di attentissima e sorvegliata composizione poetica) equidistante sia dalle rivoluzioni del linguaggio classico provenienti dalle nuove onde europee sia dalle forme di microcommedia che la seconda parte degli anni ’60 riservava numerose. Ispirato, ma solo vagamente, all’intenzione di denunciare l’egoismo umano, compreso autobiograficamente l’egoismo dell’autore, il film di Blasetti presenta una prima cornice narrativa ambientata in treno (Milano-Roma): il protagonista Sandro, giovane scrittore interpretato splendidamente da Walter Chiari, conversa con il capotreno (Nino Manfredi), un tipo ossessionato dal sesso, dopo aver fantasticato su un’inchiesta riguardante appunto il “vizio dell’io”. Da questo spunto nascono i pensieri di Sandro: si tratta il più delle volte di ricordi, ma anche di fantasticherie, di memorie che prendono una forma fittizia, e di riflessioni. Dopo alcuni avvenimenti (la morte dell’amico Peppino), Sandro è costretto a ritornare a Milano in aereo, e in seguito di nuovo a Roma in treno, dove ritrova il compagno di viaggio Manfredi ma soprattutto rivede (senza essere scorto) Silvia, grande amore abbandonato per fatuità ed egoismo.
Già Aldo Bernardini, in una recensione del 1966, ricordava la struttura felliniana del film. Audace, acefalo, il racconto blasettiano segue infatti il tenue filo dei pensieri anche se sembra in qualche modo rifiutare quell’idea di “orchestrazione” narrativa di La dolce vita, quasi essendone una versione più moralista e al contempo meno ossessionata dal capolavoro “da farsi”. È evidente la prossimità tra i due autori in certi passaggi: la diva interpretata da Silvana Mangano si chiama Silvia e riassume in sé tanto la società dello spettacolo romano quanto l’innocenza di un’occasione mancata e irrecuperabile; lo stesso Chiari (ingiustamente accusato di recitazione discontinua: ma forse oggi siamo più abituati al sottotesto malinconico della sua maschera comica, ciò che allora doveva apparire stridente), somiglia per certi versi a Guido o Marcello. Il gioco prende la forma della citazione quando il Peppino interpretato da Marcello Mastroianni finisce al cinema dove proiettano 8 ½. Il continuo ritorno di Silvia, e la sua immagine enigmatica (su uno sfondo di foto da copertina che la ritraggono come “congelata” da quello stesso attimo di realtà) denunciano semmai suggestioni antonioniane, anche se poi la presenza ossessiva dei paparazzi, le sequenze veneziane, il primo incontro al concorso di bellezza riportano nuovamente a Fellini; e non dimentichiamo che, comunque la si voglia vedere, il film è prodotto dalla Cineriz, il che corrobora l’ipotesi di una derivazione troppo diretta per essere solo un omaggio.
È qui, però, che va concentrata la nostra attenzione: non un plagio suggerito dalle nuove possibilità del cinema d’autore, bensì un coraggioso ibrido sceneggiato dai grandi della commedia all’italiana (compaiono infatti: Suso Cecchi d’Amico, Benvenuti/De Bernardi, Age/Scarpelli, etc.), interpretato da un attore comico in collaborazione con alcuni mostri di recitazione, tra cui certo Mastroianni, ma anche De Sica, e una folta schiera di “guest stars” tra cui la Lollo, Valeri/Caprioli, la Koscina, Pisu e Panelli, Urzì e Croccolo, Luttazzi e Randone, cast eterogeneo anche per un decennio abituato a mescolare. Forse il film di Blasetti rappresenta un esempio militante dell’inestricabilità di rapporti che intercorrono nel decennio sessantesco tra film d’autore e commedia, coinvolgendo persino la comicità di serie b (filone scapolistico e ombrellonistico, varietà televisivo, sottogenere stile-Franca Valeri, satira radiofonica) in un caleidoscopio infine riuscitissimo.
Si diceva della complessità narrativa del film. Pensato come un flusso di memorie, Io, io, io…e gli altri mantiene più che altro alcuni personaggi “ossessivi”, che percorrono la storia dall’inizio alla fine e fungono anche da cesure del racconto: il Precossi interpretato da De Sica (somigliante chissà perché a Mario Carotenuto) riassume tutti i vizi, più che dell’egoismo, dell’opportunismo sociale, della spregiudicatezza dopo-boom: accompagna i ciechi sulle strisce per poter attraversare più celermente, bacia la statua del santo solo dopo averla disinfettata, finge e mente di continuo; le scenette più repentine di Percossi appartengono alla tradizione dei Mostri (fors’anche esplicitamente citato) piuttosto che alla vera natura del film; negli altri casi, il racconto si distende attraverso veri e propri macroepisodi, come quello che chiude l’opera, tutto dedicato al rapporto tra Sandro e Silvia. Vi è qui la rinuncia completa alla sferzata e al graffio satirico, che sono poi le cose a maggior rischio di invecchiamento, e si fa strada l’attenzione delusa a un rapporto cominciato come tanti altri, divenuto molto importante e finito malissimo: un ritratto di donna non inferiore a quelli che autori come Pietrangeli stavano componendo negli stessi anni. Se Silvia riassume in sé il ruolo dell’amante ma anche della donna “da amare” (in questo senso divergendo da Fellini dove lo spettacolo e le sue dive sono il luogo della tentazione), la moglie (una sensualissima Lollo, cui Blasetti dedica alcuni piani davvero intensi) è paradossalmente il luogo del trionfo sensuale, il ricatto della carne, non certo la noia domestica. Il primo piano che chiude il film, su Chiari mesto e insoddisfatto, è il più amaro dei finali blasettiani almeno dai tempi di Quattro passi tra le nuvole.
Ci sono anche momenti un po’ paternalistici, come il ciclico ripresentarsi dell’immagine dei due malfermi vecchietti nel parco, o la laboriosa derisione dei dittatori, doppiati nelle loro occasioni pubbliche dalla tiritera del “gioco della cucuzza” e concluso da un fungo atomico di dubbio gusto.
Se, come alcuni accreditano, Io,io,io…e gli altri è una specie di personale redde rationem di Blasetti nei confronti del proprio travagliato passato, non è certo a questa rappresentazione diretta di Mussolini che dobbiamo far riferimento, quanto piuttosto al commento sulla società e al distacco da ogni autoindulgenza: l’egoismo è qui davvero un brutto vizio, in ciò Balsetti non cadendo mai nei pericoli della commedia sordiana o nella commedia assolutoria della seconda metà dei Sessanta. Riuscito, invece, perché macabro e spietato, il corpo centrale del film: la morte di Peppino, la vanità del “coccodrillo” giornalistico, la cerimonia funebre, l’incapacità di piangere da parte di Sandro che deve ricorrere alla fantasia di sé stesso nella bara per poter versare qualche lacrimuccia; e di seguito l’insorgenza scandalosa del desiderio sessuale, laddove la morte dovrebbe oscurare tutto il resto.
Le perplessità su Chiari appaiono, come sostenuto poco sopra, francamente eccessive. È possibile che l’abitudine a vedere l’attore veronese in un momento della carriera discendente e in commedie ad episodi abbia fatto la sua parte: nel 1965 Chiari era comparso infatti in Made in Italy (episodio “Ogni bel gioco” di Nanni Loy), in Thrilling (episodio “Sadik” di Polidoro) e nell’antologico Risate all’italiana. D’altra parte, sia La rimpatriata di Damiani (1963) che il Falstaff di Welles (1966, dove ricopriva il ruolo di Silence) dovevano già contribuire a rielaborarne problematicamente la figura dinoccolata e doppiesca degli anni ’50, dominati per lui da registi come Mattoli, Bianchi e Soldati. A noi oggi sembra che l’attore sia in perfetta sintonia col progetto blasettiano, figura a suo modo opaca di aspirazioni frustrate e soddisfazioni ottenute a costo di gravi sensi di colpa. In definitiva, che cosa è Io, io, io…e gli altri se non una nuova forma di commedia, una commedia sperimentale, che scorre a lato di produzioni ufficiali assai più facilmente catalogabili nei generi vigenti?
[i] Ora in Blasetti, A, Il cinema che ho vissuto ( a cura di Franco Prono), Dedalo, Bari 1982, p.242.
di cinema e di mercato
Spesso escono in libreria studi che dialogano tra di loro, a volte per osmosi di settori disciplinari e di autori (come nel caso che stiamo per illustrare), a volte per semplice coincidenza editoriale. In questo caso riconosciamo una familiarità evidente, e non solo per la compresenza di alcuni nomi, tra i libri Pubblicità e cinema (a cura di Martina Federico e Ruggero Ragonese, Carocci, 21 euro) e Fellini e la pubblicità (a cura di Vanni Codeluppi, Francoangeli, 15 euro).
Cominciamo da quest’ultimo. Si tratta di un interessante proposta di miscellanea di saggi tutti già editi, alcuni dei quali redatti da figure che troviamo anche nell’altro volume (come Ragonese). Nell’agile pubblicazione troviamo anche un brillante contributo di Paolo Fabbri, purtroppo recentemente scomparso, e già autore di studi importanti sul Fellini pubblicitario. Ovviamente non si parla solo degli spot girati dal maestro riminese ma anche del rapporto con la pubblicità dentro i suoi film (“Bevete più latte” ecc.). In generale il volume sfata il mito di un Fellini che odia la televisione (non si interrompe un’emozione) e spiega come Fellini fosse contro gli usi distorti che le televisioni facevano del linguaggio pubblicitario, e che “voleva che questo fosse pienamente rispettato, perché pensava che avesse delle grandi possibilità creative e ci ha lasciato perciò degli esempi di pubblicità che devono essere considerati attentamente anche da parte dei professionisti odierni della comunicazione”.
In Pubblicità e cinema invece i curatori invitano fin da subito a porre attenzione all’ordine dei due termini. Sostanzialmente è un libro di saggi sulla comunicazione e la pubblicità applicato ai rapporti con il grande schermo, sia che si tratti di product placement sia che si tratti di pubblicità incorporate nei film (e narrativizzate), o ancora che si tratti di prodotti mediali apparentati in qualche modo con la dimensione promozionale. In quest’ultimo caso, alcuni di essi possono avere una loro autonomia linguistica ed estetica, come i fashion film, bene indagati in ben due contributi (di Buffo e Spaziante). Gli studi di Martina Federico sui trailer sono il cavallo di battaglia della ricercatrice da tempo, e ottengono qui ulteriore sistemazione, così come il già citato Ragonese offre a più riprese solidi tentativi di sistematizzare semioticamente il rapporto pubblicità/cinema. Forse manca un capitolo a parte dedicato al rapporto tra pubblicità e spazi perimetrali alla sala e al film (dal food merchandising alla cartellonistica, dalle pubblicità in loop negli atri agli spot locali pre-proiezione), ma il testo è assai denso, completo e segna uno spartiacque su un argomento curiosamente ancora inedito.
CAPIRE LE SERIE TV IN EPOCA POSTMEDIALE
Nel titolo abbiamo artatamente fuso due volumi usciti negli scorsi mesi, entrambi molto interessanti. Si tratta di Capire le serie TV (di Nicola Dusi e Giorgio Grignaffini, uscito per Carocci, euro 21) e di Mondi in serie (di Angela Maiello, uscito per Lucio Pellegrini Editore, euro 16). Sono accomunati dal tentativo di guardare alle serie TV evitando alcune risacche della critica e della teoria contemporanea: la dimensione esclusivamente narratologica, il confronto pigro con il cinema, l’esaltazione delle forme seriali in quanto tali, lo scarso interesse verso i contesti mediali se non nella fruizione, e altri ostacoli abbastanza visibili.
Dusi e Grignaffini lavorano su vari frangenti più recenti e dinamici, tra cui i production studies, le pratiche di scrittura e costruzione, gli adattamenti e le modalità transmediali. Non fanno l’errore di riferirsi a un numero troppo ampio di prodotti, anzi ne utilizzano alcuni di prima mano (come la serie italiana Made in Italy), non per forza artisticamente rilevanti, per svolgere uno studio sui materiali, sulla sceneggiatura, sul montaggio e sui rimaneggiamenti progressivi che il testo affronta – e perché – prima di arrivare allo spettatore vorace delle piattaforme. Ma anche Fargo e Breaking Bad entrano più volte sotto il microscopio degli autori, di volta in volta per indagarne gli effetti cinematici, lo stile o l’intertestualità, particolarmente reticolare e intensificata.
A sua volta, Angela Maiello scarta i luoghi comuni sulle serie TV e si pone la domanda fondamentale: che ruolo hanno nella nostra epoca? La risposta è che sono una forma di adattamento a un ambiente ibrido e molecolare come quello che i media, in epoca “post”, ci propongono ogni giorno. Come fanno a costituirsi come esperienza solida e integrata? Attraverso degli specifici seriali, di cui si comincia a scartare la dimensione “TV” (ormai superata in nome di un’offerta streaming consumabile su diversi dispositivi), e a privilegiare piuttosto altre ragioni: lo spazio, il tempo, la relazione con i media digitali, il rapporto tra mondo rappresentato e mondo dell’autorappresentazione nei social network e così via.
Ciò che intriga nel brillante lavoro di Maiello è l’ostinazione nel collocare la serialità contemporanea nel contesto delle nostre aspettative mediali e narrative, oltre che la capacità di far dialogare due tradizioni solitamente ben separate in bibliografia, ovvero un certo approccio teorico europeo (Bacthin e Ricoeur in particolare) con la ricca letteratura anglofona media studies di questi anni (Bolter/Grusin, Jenkins, Mittell ecc.), filtrata dalla scuola Casetti/Eugeni e dagli studi postmediali più recenti.
Due ottimi volumi con cui ricominciare a parlare di serialità, di cui andrebbe salutata forse una nuova era di analisi.
I MIGLIORI FILM DEL 2020
Come ogni anno, all’inizio di quello nuovo pubblico la classifica dei migliori film dei dodici mesi passati. Si tratta di una top 20, con alcuni “posti caldi” utili per misurare la bontà artistica di ciascuna annata – questa volta ovviamente condizionata dal Covid-19. I titoli presi in considerazione hanno avuto distribuzione ufficiale in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2020, in sala (pochi) su piattaforma (tanti) e anche in Blu-ray/DVD, purché inediti. Non entrano in classifica film visti ai festival o comunque non distribuiti. Dunque la datazione di alcuni dei film, anche quando è precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.
I MIGLIORI DEL 2020
Posti caldi: Elegia americana, Little Joe, Semina il vento, Sound of Metal, The Vast of Night
20) I’m Your Woman
19) Cosa sarà
18) The Lighthouse/Vitalina Varela (ex aequo)
17) Il processo ai Chicago 7
16) Il re di Staten Island
15) Ex-aequo tutti i film di Herzog distribuiti nel 2020 (Herzog incontra Gorbaciov, Nomad, Fireball e Family Romance LLC)
14) Le sorelle Macaluso
13) Richard Jewell
12) Dragged Across Concrete
11) Wolfwalkers
10) Favolacce
9) Diamanti grezzi
8) Volevo nascondermi
7) La ragazza d’autunno
6) Soul
5) La vita nascosta – Hidden Life
4) Tenet
3) Varda by Agnès
2) L’uomo invisibile
1) Ema
Schegge di cinema (tra i film non in classifica):
Craxi che canticchia Garibaldi fu ferito in Hammamet, i titoli di testa di Jojo Rabbit, la scenata con vomito finale di Gary Oldman in Mank, tutto il viaggio in auto iniziale di Sto pensando di finirla qui, il cranio di Kristen Stewart in Underwater, il suono delle bombe in Alla mia piccola Sama, i cori ultras di Ultras, i piani-sequenza di Tyler Rake, le pantofole di Tom Hanks in Greyhound, il drone di I miserabili, gli scontri a fuoco di Da 5 Bloods, il primo bacio di Mathias & Maxime, la lentezza in Galveston, il discorso alla Sinagoga di Borat 2, i ristoranti di On the Rocks, la luce del sole in Shadows, Hugh Grant in The Gentlemen, le gocce di sangue senza gravità in Midnight Sky, il freddo in Natale in casa Cupiello, il sesso in Siberia, le case popolari di Roubaix, Andrea Roncato in Sotto il sole di Riccione, Scamarcio che imita Banfi in Magari, le birre in freezer di Tornare a vincere…e mille altri baluginii….
TORINO FILM FESTIVAL 2020 – SECONDA PARTE
Seconda e ultima incursione nel TFF 2020, interamente online su MyMovies. Ancora una volta mi sembra che i generi e le riflessioni sul cinema siano state le cose più interessanti della selezione. Il territorio più vivace, come previsto, è stato la sezione Stanze di Rol, dove si sono aggiunti titoli particolarmente sorprendenti. Il primo di questi è Funny Face di Tim Sutton, che mi aveva decisamente irritato con Dark Night, pieno di allusioni e inconcludenze, giocato sui prodromi di una strage fuori campo; questa volta la dimensione della solitudine si impone grazie a un lavoro sulla rappresentazione urbana straordinario, e a posteriori dona qualche interesse in più anche al precedente, continuando una sorta di discorso sulle scorie suburbane dell’immaginario eroistico, e diventando di fatto una lacerante riflessione su New York (il monologo in automobile sui Knicks è da antologia).
Sempre in questo spazio, una certa simpatia suscita The Oak Room di Cody Callahan, post-noir a racconti incastrati, che piace per come sfrutta un budget quasi “zero” e la riflessione sul narrativo. Siamo dalle parti del postmoderno anni Novanta (non ci saremmo affatto stupiti di trovarlo a un TFF di un quarto di secolo fa) ma ciò non vuole dire che siamo fuori tempo massimo: in fondo il recupero di quelle forme meta-testuali e meta-genere può cominciare serenamente ad essere considerato retro-gusto di qualità.
E finiamo la sezione con Philosphy of Horror, certamente il più originale: Péter Lichter e Bori Máté si ispirano al famoso testo di Noel Carroll e lo trasformano in una ricerca visuale più simile a un intervento artistico che a un video-essay, di cui comunque assume alcune posizioni critiche lavorando sulla grana di due film della saga di Nightmare. A suo modo un found footage con scarabocchi e scratch che può abitare contemporaneamente nell’archeologia nei media, nell’analisi accademica dei film o nel dadaismo amatoriale.
Sempre di genere parliamo con l’omaggio a Carlo Ausino e il ritorno di un film non rarissimo (c’è anche su YouTube, per dire) ma tosto come Torino violenta. Circondato da una disistima critica poco giustificabile, rivisto oggi si conferma un poliziottesco di rovinoso nichilismo, con un’aria rozza e quasi punk che lo scenario urbano esalta. Assolutamente godibile. E visto che al TFF abbiamo visto un po’ di tutto, non è mancato nemmeno il porno. D’autore s’intende; anzi d’autrice, visto che Un dernière fois è diretto dalla militante dell’X-Rated femminista come Olympe de G., che recupera una star dell’erotismo ora ultra 65enne, Brigitte Lahaie, e la rende protagonista di un discorso tra eros e thanatos sulla sessualità in vecchiaia. Non ho mai ben capito come si deve fruire un porno intellettuale, ma sicuramente in questo caso entrambi i termini sono esplorati fino in fondo.
Delle altre visioni massicce e un po’ trafelate voglio ricordare giusto Camp de maci di Eugen Jebeleanu, ennesima conferma del cinema rumeno (che evidentemente si autoalimenta anche grazie allo stimolo reciproco tra cineasti), dove tutto si svolge in una sala cinematografica. Il tema è l’omosessualità repressa di un poliziotto che interviene per una violenta protesta omofoba che sta avvenendo in un cinema. La sala è un pretesto? Fino a un certo punto.
Infine, anche se aspettiamo di vederlo su grande schermo (viva lo streaming ma a tutto c’è un limite), segnaliamo la presenza del restauro 4K di In the Mood for Love. La riedizione è stata realizzata dal laboratorio l’Immagine Ritrovata di Bologna e da Criterion, con la supervisione del regista cinese e della colorist Calmen Lui che già nel 2000 fece la posa del negativo originale. Come sempre per tutto quello che fa Wong, anche il restauro è durato un sacco, oltre cinque anni, e sarà distribuito in Italia da Tucker Film all’interno di un progetto più ampio dedicato a Wong Kar-wai che prevede anche i restauri di Hong Kong Express, Fallen Angels e Happy Together distribuiti sempre dalla stessa casa.
TORINO FILM FESTIVAL 2020 – PRIMA PARTE
Molto importante la selezione che TFF ha messo in piedi per la versione integralmente online del festival, una manifestazione pensata per essere almeno in parte svolta in sala e poi bloccata dal decreto che ha chiuso le sale cinematografiche. Essendo uno dei festival italiani più “esperienziali”, nei quali almeno tre generazioni di cinefili hanno racconti e ricordi legati a quei portici e a quel centro storico (ma non solo), la versione in streaming non può che suscitare dibattiti sul suo svolgimento. Ma è ovvio che l’augurio è che si tratti di una sola, irripetibile, edizione.
Intanto, però, gli accreditati e gli abbonati hanno di fronte un’offerta davvero sorprendente e piena di anteprime. Il sottoscritto ha cercato (lo ribadiremo nel secondo pezzo dal festival) di pescare le cose più intriganti a partire dai contenitori. Quindi quasi nulla del concorso – che meriterebbe tempo e concentrazione che chi scrive non possiede – e invece via libera alle sezioni collaterali, a cominciare dalle Stanze di Rol, dedicato a generi ed emozioni forti, curata da Pier Maria Bocchi. Qui si vedono cose varie e decisamente divertenti: il molto chiacchierato horror The Dark and the Wicked di Bryan Bertino (che si conferma un creatore di atmosfere malate e inquietanti ma un mediocre scrittore, specie dei terzi atti e dei finali), il prevedibile Lucky psico-thriller “stalking” di Natasha Kermani, il simpatico Fried Barry di Ryan Kruger (versione sordida e fisiologica del Fratello da un altro pianeta di John Sayles), Breeder di Jens Dahl, ritorno non irresistibile del torture porn con qualche sorpresa nella psicologia della protagonista.
Ma il genere è presente di infilata anche in altre zone del programma, come nel caso di Calibro 9 di Toni D’Angelo, che si ispira direttamente al quasi omonimo capolavoro di Fernando Di Leo e prova a testare il funzionamento del poliziesco urbano italiano nell’estetica contemporanea – con risultati alterni, e una sensazione di gioco più che di adesione profonda. E il ritorno in versione finalmente integrale di Avere vent’anni proprio di Di Leo è un piacere. Il film si conferma ancora oggi “ingestibile” e probabilmente irricevibile nel contesto ideologico di oggi. Da una parte la libertà sessuale di Gloria Guida e Lilli Carati è un correlativo oggettivo dell’UFO cinematografico di Di Leo, dall’altra il finale sensazionalistico, programmatico e sadico sinceramente non deve piacerci per forza solo per motivi di cinefilia da “kings of the B”.
Nella sezione in cui era ospitato – “Back to Life” – si vedono chicche eccezionali, come la grande sorpresa del festival per quanto mi riguarda, Il nero di Giovanni Vento. Non solo un film intriso di new american cinema e di incredibili cortocircuiti tra estetica cassavetesiana e realismo sociale italiano, ma anche un documento storico per la presenza così anticipata e sentita di attori e personaggi neri di seconda generazione. Strepitoso, se ne dovrà parlare a lungo, possibilmente non solo ai convegni sul post-colonialismo e la diversity.
La produzione italiana oscilla decisamente. Film di registi perbene come Francesco Lagi sono intimisti fino all’impalpabile (Quasi Natale), altri sono commoventi per il cuore cinematografico che ci viene buttato dentro (il ritorno viscerale di Antonio Capuano con Il buco in testa), molti documentari sono legati agli anni della contestazione (certamente 1974 1979 che per una volta dà voce alle vittime del terrorismo, ma anche a modo suo l’avvincente doc su Goffredo Fofi e la sua avventura intellettuale, ancorché inspiegabilmente girato in bianco e nero nelle parti di intervista casalinga) o di esplorazione antropologica (per i bolognesi immancabile San Donato Beach di Fabio Donatini, tra malinconia bruciata dal caldo e repertorio di musica italiana usato in felice contrappunto alle stramberie post-industriali del quartiere multi-etnico).
Poi ci sarebbe da parlare di Paul Vecchiali (salutato da applausi udibili persino online, forse un filo esagerati ma guadagnati sul campo), o di Cecilia Mangini (chi aveva potuto già vedere Due scatole dimenticate ne conosce l’emozione) ma il tempo è spirato. Altra infornata a breve.
FESTIVAL DEI POPOLI 2020
Anche lo storico appuntamento fiorentino, diretto da Alessandro Stellino e curato da un comitato di selezione di alta qualità, si è spostato online e il sottoscritto ne ha spudoratamente approfittato (come in molti altri casi di quest’anno) per poter vedere e analizzare una manifestazione che per motivi di lavoro negli ultimi anni era stato quasi impossibile visitare.
Posso subito affermare che la selezione, almeno per i campionamenti e i carotaggi che mi sono potuto permettere (il festival va fino al 22 novembre, scontando una problematica sovrapposizione con TFF), si è rivelata di ottimo valore. Anche le sezioni si sono dimostrate al tempo stesso ben identificate e duttili. Pensiamo a “Let the Music Play”, dedicata al rapporto tra musica, cultura e società, dove si sono visti film ottimi come Sisters with Transistors di Lisa Rovner, appassionato studio pieno di documenti visivi e sonori dedicato alle pioniere della scena elettronica (voce over di Laurie Anderson) o Patti in Florence di Edoardo Zucchetti con Patti Smith e il suo rapporto con Firenze, artistico, affettivo e creativo. Ma di musica parla anche uno dei migliori titoli in assoluto di questa edizione, Medium del grande scrittore e regista argentino Edgardo Cozarinsky, che pedina e racconta l’amica pianista 93enne Margherita Fernández, raccontando al tempo stesso un’amicizia, una vocazione artistica, una storia politica e un partito preso di come si rappresenta (in modo fisso e senza stacchi) una performance classica.
E c’è musica anche in L’armée rouge, cinema del reale dedicato alla scena musicale ivoriana nel mondo dei migranti di Napoli (cinema del reale “allo stato brado” – come ha scritto uno spettatore a commento – è anche Aylesbury Estate di Carlotta Berti, dove però stranamente la grama storia di alcuni inquilini di co-housing popolari di Londra e dell’impari lotta contro gli speculatori del mattone appare troppo legata alle modalità standard di scrittura e messinscena del doc sociale contemporaneo).
Ovviamente il cinema presentato ai Popoli vale come osservatorio socio-etnologico di un mondo sempre più complesso e sempre più emarginato, con una divisione netta tra storie di persone raminghe loro malgrado e storie di persone che cercano di cambiare vita o di fare scelte alternative (le meno interessanti, sinceramente). Più drammatica la situazione quando i personaggi dei film non ci sono più, come l’umanissimo Massimiliano di Il libro di Giona (di Zlatolin Donchev): un uomo che vive in un’automobile ferma a ciglio delle strade, quasi aspettando la fine, che poi arriva prima di poter vedere il (forte) film su di lui finito.
La proposta è amplissima e i titoli esplorano terre anche molto lontane tra di loro. Ben poco unisce Look than Below dello sperimentalissimo Ben Rivers, sempre più antropologo lisergico e cineasta delle forme, e film come L’occhio di vetro di Duccio Chiarini, magari un po’ semplice nel racconto ma forse molto utile per capire i rimossi – talvolta laceranti, specie in ambito famigliare – del fascismo dei repubblichini in Italia.
Oltre al cinema del reale, ci sono naturalmente altri modelli, che talvolta funzionano più adesso che vent’anni fa, come quello di Wiseman che sembrerebbe guidare le scelte di Laura Lamanda in L’ile des objets dove però sembra quasi che la regista abbia avuto una grande idea (guardare al banco degli oggetti smarriti come a una istituzione quasi narrativa che raccoglie le sbadataggini e le perdite di un’intera umanità) ma poi non si sia ritrovata un vero sviluppo in mano. E lo stesso vale per Bulletproof di Todd Chandler, che racconta le strategie difensive dei licei americani per difendersi da eventuali attacchi da parte di alunni armati: uno spaccato raggelante e sorprendente, qua e là ripetitivo.
Ovviamente c’è anche spazio per il cinema, per esempio con il ritorno di Tigrero -A Film that Was Never Made di Mika Kaurismaki, 1994. Un film su un film mai realizzato (da Sam Fuller), un doppio viaggio per location inutilizzate, un discorso memoriale su lacerti cinematografici girati e mai conclusi, e sulla memoria di una comunità semi-civilizzata quarant’anni dopo il primo progetto.
PORDENONE DOCS FEST – LE VOCI DELL’INCHIESTA 2020
E anche l’intensissimo festival di Pordenone si avvia alle sue ultime ore, dopo un’edizione in streaming con una scelta diversa dalla maggioranza degli altri, cioè offrire i film a pagamento su una piattaforma dedicata con una serie di incontri e approfondimenti gratuiti, e un rapporto privilegiato con le audience studentesche. Si tratta di una manifestazione molto cresciuta negli anni, oggi dotata di un gran numero di anteprime nazionali e di una selezione documentaria decisamente di livello.
Nell’offerta al solito molto ricca e densa dei festival novembrini che abbiamo cercato di seguire, Le voci dell’inchiesta coglie nel segno soprattutto nelle linee interne alla selezione. Pensiamo, per esempio, al tema del fascismo. Oltre alla sempre benemerita riproposizione di capisaldi come All’armi siam fascisti e Pays Barbare – in qualche modo già pienamente nella storia del documentario militante e del documentario sperimentale d’archivio – nel programma (visibile solo in chiusura e senza repliche) spicca la nuova versione digitale di Fascista (1974) di Nico Naldini, film raro e perduto.
Il tema del fascismo, però, si affaccia anche nelle novità, a cominciare dall’appassionante studio – pieno di documenti cartacei, iconografici e fotografici – All Againist All di Luuk Bowman, in cui si ricostruisce meticolosamente la parabola del fascismo olandese, tutt’altro che nota persino all’interno della storiografia nazionale (la vulgata del singolo partito fascista collaborazionista con l’occupazione nazista viene smentita dall’attività editoriale e propagandistica di molti gruppuscoli e movimenti nazionalisti e filo-mussoliniani degli anni Trenta).
E c’è spazio anche per il neo-fascismo, o per il sovranismo se si preferisce. L’ottimo La cravate di Étienne Chaillou e Mathias Théry narra senza pregiudizi la vita quotidiana di un giovane militante di provincia del Front National di Marine Le Pen. Narrato come un personaggio di finzione che riflette sulla stessa narrazione che gli autori scrivono per lui, il documentario ha il merito di spiegare il tessuto sociale frustrato e piccolo borghese del nazionalismo lepenista, e l’apparente “normalità”, talvolta anche carrierista, dei giovani candidati in cravatta delle piccole città francesi. Impressionante, però, scoprire che il protagonista ha quasi portato a termine il progetto di una strage scolastica, per poi pentirsi e “assorbire” la sua rabbia nel Front National.
Non c’è spazio per citare tanti altri titoli – dagli struggenti omaggi ai propri genitori colpiti dalle malattie di almeno due film (The Journey e Our Time Machine) ai documentari sul cinema (acuto e utile lo scavo sul documentario sexy di Mario Sesti in Mondo Sexy) – ma la percentuale di opere interessanti sul totale è decisamente rimarchevole.
Archivio aperto 2020
Pressoché impossibile riuscire a riassumere il programma torrenziale e a dir poco entusiasmante che i curatori di Home Movies – Archivio Nazionale dei film di Famiglia hanno messo in piedi quest’anno per la prima edizione integralmente online del loro “festival”: tra virgolette perché si tratta di un’esposizione allungata, di una esibizione di materiali a lento rilascio, che si possono godere con calma fino al 6 dicembre, gratuitamente su MyMovies o sul sito ufficiale. Devo dire che il sottoscritto ha optato per il contrario, due-tre sessioni potentissime e micidiali, di varie ore, in cui immergersi nel profluvio di materiali d’archivio, documentari, home movies, film sperimentali, film amatoriali, e tutto l’universo memoriale e non ufficiale che viene coinvolto da questa iniziativa.
Se ai cinefili e ricercatori più attenti il monumentale Diary di David Perlov non era sconosciuto (ma vederlo tutto insieme, ben diviso nei suoi capitoli, su un device digitale, ha un suo nuovo e conturbante perché), altre cose ci hanno profondamente sorpreso. Vitalissima, al solito, la sezione Art & Experimental Film, dove a un bellissimo Bacigalupo (Quasi una tangente, di un erotismo e di una libertà unici), si affiancano i per me meno noti lavori di Andrea Granchi, Fernando De Filippi o Gianni Castagnoli, tutti significativi per l’epoca e non solo. Discorso a parte il meta-artistico e auto-ironico Shaping Negation di Arnaldo Pomodoro, Ugo Mulas e Francesco Leonetti, una delle opere più interessanti sulla distanza critica, sia pure paradossalmente condita di profonda serietà e consapevolezza artistica, rispetto al proprio lavoro.
Per i “cine-eccentrici” spazio al bolognese Mauro Mingardi, già glorificato da un recente documentario, Un western senza cavalli diretto da Davide Rizzo e Marzia Toscano, realizzato in collaborazione proprio con Home Movies. Mingardi ha realizzato oltre quaranta film tra corti e lungometraggi, autarchico vero, facendo tutto da solo, con gli amici come attori, tra anni Sessanta e Ottanta. Bottega amatoriale strepitosa, macchina-cinema singolare e irriducibile, la filmografia 8mm e Super8 di Mingardi esplora molti generi: nella scelta proposta principalmente il noir, con lasciti evidenti da Hitchcock (e qualche anticipazione depalmiana prima di De Palma), da Clouzot, da Chabrol, dal gotico italiano, forse persino da Feuillade, sempre con ironie che talvolta restano sotto traccia per far spazio al perturbante e talvolta esplodono con anarchia.
Un po’ come i ragazzi dei sobborghi di New York, Rob Niosi e i suoi amici (Ron Bucalo e Nicola Scaramozzino) che da ragazzini usano le cineprese dei genitori per fare spoof e parodie di horror e fantascienza usando ogni tipo di trucco e di inventiva, tra Méliès e il primo Landis (ma fors’anche ricordandoci i corti di Spielberg). Nel programma Famtastic Stories vediamo alcuni di questi esperimenti (ritrovati di recente e realizzati negli anni Settanta), che in fondo anticipano anche in questo caso certe estetiche contemporanee come quelle dell’amatoriale trasportate nel mainstream, in particolare Michel Gondry.
Altre belle cose arrivano dalla sezione Recycled Cinema (un Luca Ferri “found footage” e Beatrice Baldacci con il commovente viaggio nella memoria VHS della madre in Supereroi senza superpoteri) o dalla sezione Archive Bites, nel quale abbiamo trovato un raro filmato di Gianni Rodari in visita alla Scuola dell’Infanzia Diana nel 1972 nel Comune di Reggio Emilia dove racconta e si fa raccontare con grande tenerezza favole per l’infanzia (e cos’altro, del resto?).
Il programma avrà ulteriori aggiunte tra fine novembre e inizio dicembre.