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Tag: Pixar

DIAGONALI E SERPENTINE CINEFILE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

28 ANNI DOPO

Chissà se il maiuscolo esito del terzo (e non ultimo) capitolo della “saga della rabbia” va attribuito più a Danny Boyle o ad Alex Garland. Il secondo è maggiormente indiziato per la sua clamorosa crescita dimostrata negli anni (unico vero autore di fantapolitica di questi tempi) ma al primo – forse – si deve la cosa più importante: la costruzione di un’estetica, Sì, perché – vezzi postmodernisti a parte – ciò che colpisce fortissimo di 28 anni dopo è il formidabile “look” ibrido che mescola visivamente folk horror, body art, prog rock, glam, con un occhio a The Wicker Man e uno alla serie I sopravvissuti (1975-77). Oltre al godimento stilistico si aggiunge anche una visione primitivista del gruppo dei “rabidi” con un’interessante evoluzione (o involuzione) interna. Sinceramente una sorpresa.

ELIO

Dopo questo gioiellino è diventata un po’ più chiara la strategia Pixar. Non ci sono solo prototipi e sequel, ma anche una division paragonabile ai B movies degli studios anni Quaranta. Dopo Luca e soprattutto il bellissimo Red, tocca a Elio. Un racconto a rotta di collo nella tradizione della fantascienza, tra Incontri ravvicinati, Explorers, Star Trek (e in particolare L’ira di Khan), Ultimatum alla Terra e tanti altri titoli, in grado anche di suggerire un discorso politico anti-bellicista e formativo (sulla libertà dei figli di non essere come i genitori li progettano). Dietro a tutto ci sono menti acuminate come Adrian Molina, Domee Shi, Madeline Sharafian, Julia Cho, autori di seconde generazioni, invisi a Trump e che speriamo la Pixar continui a coltivare fregandosene della crociata contro il politicamente corretto.

TUTTO L’AMORE CHE SERVE

Non sappiamo se Laure Calamy possa essere considerata una vera e propria star. In questo caso, ci troveremmo di fronte a un classico star vehicle, pur travestito da melodramma con venature sociali. Visto nell’ottica hollywoodiana, il ruolo di una mamma che deve capire faticosamente come lasciar andare per la sua strada il figlio adulto con problemi di disabilità mentale, sospesa tra desiderio di un futuro personale e sacrificio materno, permette un tour-de-force attoriale nel quale si esaltano tutte le doti che le conosciamo: umanità, ironia, generosità, erotismo, sensibilità. Non un capolavoro, ma mica devono puntare tutti ad esserlo.

TRE AMICHE

Il modello rohmeriano (e anche quello di Marivaux) rimane potente nel cinema francese – ma non solo (si pensi ad Haugerud in Norvegia). Mouret sa come si fa, e tanto basta a separarlo da altri velleitari. Le tre amiche del titolo negoziano con la vita e con il sentimento amoroso ognuna a modo proprio, relazionandosi l’una all’altra e misurando per diagnosi differenziale l’aspirazione alla felicità. In più, c’è un’altra misura, che è la mortalità, qui persino direttamente messa in scena, con una strategia narrativa che ricorda l’obliato Il fantasma innamorato (1990) di Anthony Minghella. Un cinema che si autoimpone la marginalità, la quotidianità, la precisione minimalista e che come tale va apprezzato (senza farne a tutti i costi un testo filosofico).

IL MAESTRO E MARGHERITA

Mettiamo le mani avanti. Massimo rispetto per Mikhail Lockshin, che ha preso un classico e lo ha cocciutamente portato sullo schermo mostrando come un romanzo libertario e anti-stalinista possa ancora oggi – o soprattutto oggi – spaventare la metamorfosi del regime operata da Putin. Detto questo, il bric-à-brac intellettualistico tra realtà e finzione, romanzesco e onirico, letterario e teatrale, somiglia pericolosamente al peggio dell’auto-riflessività post-post-moderna (leggi: Joe Wright, il nadir del cinema contemporaneo). Snervante e fintamente poetica, la nuova versione di Bulgakov fa rimpiangere il Maestro di Tognazzi e di Petrovic, già di suo piuttosto impotente.

LE ONDE DEL DESTINO

Ancora un von Trier d’annata che torna nelle sale, in un’operazione intelligente e ben strutturata. Opus magnum dell’autore danese, almeno per quanto riguarda la sua affermazione internazionale, Le onde del destino era appena al di qua dei momenti più esagerati della poetica trieriana, ma già abbastanza prepotente da affermarsi con forza in un panorama europeo segnato dal realismo sociologico. Un mélo smaccato, un Sirk nordico con misticismi assortiti, una vicenda di sacrificio “dogmatico” e osceno al limite della santità febbricitante, un tableau vivant in capitoli introdotti da altri tableaux vivants. Tutto però ruota intorno a una figura stilistica essenziale, i primi piani di Emily Watson, indimenticabile mentre viene inquadrata da una macchina da presa che oscilla come su un peschereccio. Certo, il sadismo sessuale verso Bess e verso il femminile trent’anni dopo suona un po’ sinistro.