Autore: Roy Menarini
CINEMA E CORPI TRA SPORT E SET
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE SMASHING MACHINE
Quando le cose vanno storte. Benny Safdie in solitaria aveva forse in mente una decostruzione critica di The Rock: non rovesciando l’icona ma anzi espandendone la mostruosità fisica. E minandone la sicurezza. Intorno, un freak show pre-MMA che non può non ricordare The Wrestler, ma senza finzioni. Il risultato è sconcertante: oltre a ellissi e reticenze di trama poco chiare (a cominciare dal problematico rapporto sentimentale, inspiegabile e inspiegato), la “macchina” risulta priva di una direzione – sia essa estetica (la grana di messa in scena non è un partito preso interessante; il rapporto con la musica dimostrativo e anodino) sia essa simbolica (dovremmo capire qualcosa della società, della nazione, del corpo umano, dell’amore?). Stendiamo un velo pietoso sul finale col vero Mark Kerr mentre va a fare la spesa al supermercato: in che momento è parsa una buona idea?
IL MAESTRO
Toh, Il sorpasso di Risi è ancora lì che influenza il cinema italiano. Scorre sotto (meglio) in Le città di pianura e scorre sotto (peggio) in questa seconda prova in patria di Andrea Di Stefano. La storia del guascone ex tennista che (s)travolge di chiacchiere e balle la giovane promessa del tennis si trasforma in un road movie provinciale e litorale. Favino, di conseguenza, deve restare a metà tra caricatura da “mostro” (vedi i polsini sempre addosso e l’aria da Tennembaum) e malinconia da Tognazzi. Senza riuscirsi troppo: i registri performativi oscillano troppo tra il mattatore e il depresso, e lo slittamento tra i due non convince. Così come Di Stefano, pur pieno di buone intenzioni, riempie di personaggi inutili un terzo atto che nega le promesse dei primi due. E poi basta con le metafore tennistiche: cattiva letteratura.
BOBÒ
Un altro corpo, a suo modo comico e inclassificabile. Chiunque conosca il teatro di Pippo Delbono conosce Vincenzo Cannavacciuolo, in arte Bobò. Trovato in un istituto psichiatrico, accolto da Delbono e sprigionato nel suo istrionismo artistico dall’attore e regista, Bobò è diventato un simbolo. La morte di Bobò ha segnato una profonda crisi per Delbono. Ne parla – in maniera fragile, nuda, persino irrisolta – nell’ultimo spettacolo Il risveglio. E ne riparla qui, in questo canto malinconico tra documentario e performance, dove si alternano immagini di repertorio, monologhi, erranze e una voce narrante poetica, quella dell’autore. Ci ricorda quanto il Delbono cineasta non somigli a nessun altro. E quanto scarsa sia ancora la relazione tra cinema e teatro italiano nel contemporaneo.

DREAMS
Ci dobbiamo pentire di aver concesso il beneficio del dubbio a Michel Franco? A giudicare da Dreams, sì. Con una lettura triviale, si potrebbe pensare che in questa storia erotica tra una ricca filantropa e un toy boy immigrato irregolare si finisca col risultato che, alla prima ingiustizia, quest’ultimo diventa il classico messicano patriarcale e stupratore, Ma, anche volendo credere che Franco non sia così autolesionista, è difficile capire in che modo dovremmo prendere il terzo confronto (in tre film) tra la virulenza del proletariato sfruttato e il cinismo del Capitale. Con l’aggiunta di dialoghi esplicativi tra messicani precari, qualora non avessimo ancora compreso il tema di fondo.
I CENTO PASSI
Torna in sala, 25 anni dopo l’uscita, il celebre biopic di Peppino Impastato diretto da Marco Tullio Giordana. All’epoca ci parve molto retorico, probabilmente sottovalutandone l’impatto emotivo e culturale. Rivisto (negli anni e ora), rivendica il suo ruolo di capofila di una stagione del cinema d’impegno civile, e conferma Giordana come un cineasta che ha dato il meglio di sé mettendo – prima di molti altri – le mani ben dentro la storia nera della nazione. Qualche anno più tardi, Moretti, Sorrentino e Garrone hanno rovesciato nel grottesco e nel visionario il discorso sul Potere ma non per questo l’impronta dei Cento passi si è sbiadita.

DI MOSTRI, CREATURE E DELITTI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. Questa volta ci addentriamo in alcune produzioni molto oscure dello streaming di queste settimane.

FRANKENSTEIN
Il problema dei film su Frankensitein non sta nella loro numerosità (o non del tutto), e neppure nella difficoltà ad evitare l’effetto-parodia di Mel Brooks (spartiacque decisivo). Il vero limite è che le metafore innescate dal “mostro” sono ormai ovvie e risapute; trasformarle in qualcos’altro si dimostra sempre complicatissimo. Del Toro imposta un racconto attuale, dove Victor è un privilegiato che sfrutta le guerre e la carne da cannone per i suoi fini morbosi, come fosse un Musk ante litteram. Poi però la suggestione si inceppa, e la “presa di parola” della Creatura, con il punto di vista narrativo, rinuncia al politico per il patetico, cancellando involontariamente il ritratto del “fascio-scienziato”. Si salva una certa inventiva gore. Molto meno il barocco di Del Toro, depotenziato dall’estetica streaming.
IL MOSTRO
Mostri più reali, quelli (al plurale?) di Firenze. Stefano Sollima decostruisce tutte le attese (e ottiene musi lunghi più che applausi) “mostrificando” l’Italia intera. Si stava meglio nella buona vecchia nazione pre-social media e pre-populismo? Per nulla: un Paese violento, guardone, arcaico, sessuofobo, misogino, dove i comportamenti dentro quattro mura o in piazza erano solo l’anticamera di una storia orribile e maniacale. Nessun attore famoso, un “presepe” visivo che viene insanguinato ad arte, un puzzle che si compone piano piano, di punto di vista in punto di vista (in attesa di una prossima stagione). Forse con Sollima e Mezzapesa stiamo trovando il modo di reinventare a modo nostro il genere true crime.

MONSTER – LA STORIA DI ED GEIN
Complementare la scelta di Ian Brennan (e del “brand” Ryan Murphy) su un mostro altrettanto letale. Qui il serial killer archetipico viene raccontato dall’interno, senza che ci sia il minimo dubbio sulla sua identità. La morbosità anatomica giunge a livelli forse inediti per Netflix, mentre lo spettatore oscilla tra (molti) dubbi etici e ammirazione per l’affresco da incubo. Sebbene non convincano né le tesi di Ed Gein come prodotto dell’America oscurantista, né quella di Ed Gein come icona pop per un pubblico affamato di orrori (una specie di meta-discorso sullo spettatore del true crime), entrambe sono intriganti. E quel dopo-guerra USA sottratto alla caramellosa rappresentazione nostalgica per farne uscire l’anima nera, diffusissima, non è poi così frequente da vedere.
GOOD BOY
No, non è la soggettiva di un cane; è il punto di vista di un cane (attraverso un misto di semi-soggettive e oggettive, primi piani e steadicam a precedere o seguire). In ogni caso, una scelta inedita per l’horror, sempre in cerca di approcci sorprendenti al dispositivo, come la POV-mania di qualche tempo fa o la soggettiva dello spettro in Presence. Interessante, in questo film distribuito direttamente in streaming, la sfida di farci negoziare tra ciò che sappiamo dei cani e ciò che crediamo di sapere dell’animalità. Anche perché il finale, oltre a colpire, chiede di riprocessare tutto ciò che abbiamo visto. Non solo per spiegazione narrativa ma proprio perché smonta la presunzione specista del nostro sguardo.
TASK
Sarà forse esagerato fare politique des auteurs su Brad Ingelsby, ma con Omicidio a Easttown e questo Task (da lui ideati), più la sceneggiatura dell’altrettanto recente The Lost Bus, si intravede una linea ben precisa: lavoro sui generi che non rinuncia a una profonda descrizione di piccole comunità e nuclei famigliari. Qui, complice un Mark Ruffalo splendidamente appesantito e affaticato, il dato noir (omicidi che hanno stravolto i sopravvissuti, motociclisti criminali, faide e vendette) si stempera nell’umanesimo che già aleggiava nella serie con Kate Winslet – anche se qui forse manca un personaggio del suo carisma. Tanto basta, comunque, a confermare tuttora HBO come habitat naturale delle mini-serie di prestigio fatte bene.

PADRI, MITI, RICORDI

DRACULA
Prendere troppo sul serio Luc Besson è esercizio piuttosto sterile. Rimane uno dei cineasti europei di genere di maggior talento, ma non si offre a raffinate letture metaforiche. Ecco perché il suo Dracula è puro piacere testuale a patto di non andare in cerca del mélo coppoliano o di chissà quali allegorie sulla morte del Continente. Anzi, la spavalderia gigiona con cui rimescola il mito, con tanto di “ghoulies” in Transilvania, cannoneggiamenti del vampiro, battaglie ejzensteiniane, erotismi soft da serie B sono altrettante stellette cinefile. E c’è un bel viaggio nel fantastico europeo, con un occhio a Jean Rollin e uno a Riccardo Freda.
PREDATOR: BADLANDS
Comprendiamo benissimo chi si ribella al ridimensionamento buonista del predatore e alla “disneyzzazione” della violenza, con tanto di esserino occhiuto come mascotte. Ma la verità è che questa riconfigurazione di narrativa industriale (la negoziazione tra la Fox e le esigenze della Casa Madre) seduce l’analista, più che deluderlo. Inoltre l’integrazione con l’universo di Alien (la serie, in questo caso) è più convincente di prima. E così, il prosieguo della revisione ideata da Dan Trachtenberg con Prey funziona, con questo fantasy tra creature aliene e esseri sintetici (non c’è un umano nemmeno a cercarlo col cannocchiale) che rovescia la Pandora di Cameron in un pianeta eguale e contrario fatto di una Natura assassina e armata.
INCEPTION
Torna in sala dopo 15 anni il cubo di Rubik ideato da Christopher Nolan per trasformare l’inconscio in un videogame a più livelli. Queste re-release di opere recenti servono anche a misurare la loro temperatura rispetto alla storia del cinema contemporaneo. Fu vera gloria? Probabilmente sì, anzi Inception sembra invecchiare meglio del previsto, anche perché nel frattempo non si sono trovati né cineasti altrettanto ambiziosi (dentro ai blockbuster, almeno), né un cinema altrettanto palingenetico, in grado di riflettere sulle proprie potenzialità fantastiche. E chi se ne importa degli arzigogoli in sceneggiatura o dei presunti “buchi” logici. Interessa di più il gesto: tra Escher e 007, Freud e Philip K. Dick, il congegno nolaniano vale una revisione su grande schermo.

VIALE DEL TRAMONTO
Dopo 75 anni (tre quarti di secolo), il capolavoro di Billy Wilder resta intatto, incontaminato, puro come un diamante. Anche se puro non è, anzi è uno dei più grandi film sull’impurità: quella del rapporto tra uno sceneggiatore e una diva segnata dalla morte (della carriera e non solo), quella del circo di anime perdute di Hollywood intorno a Norma Desmond, quella di un cinema che ha perduto l’innocenza già a fine anni Quaranta, quella di un’immagine dei media di massa che ha soppiantato quella del “mito muto”. Sembrava impossibile persino da immaginare l’idea stessa di un noir sarcastico. O di un melodramma senza lacrime. O di un horror senza soprannaturale. Ma Wilder c’è riuscito. E infatti siamo ancora qui a parlarne, approfittando di questo restauro 4K.
TONI, MIO PADRE
Ogni documentario che rifiuta il pilota automatico del prodottino standard (immagini d’archivio + interviste con teste parlanti) è un buon documentario. Lo è sicuramente quello di Anna Negri, dolorosissimo autoritratto con padre dove la regista misura la sua esistenza (artistica e non solo) a partire dalla biografia del genitore. Le riprese dei dialoghi tra i due, spesso drammatici, e l’utilizzo di home movies e immagini di cronaca, restituiscono tutti i sacrifici – giustificabili o meno, tocca allo spettatore deciderlo – di una vita da rivoluzionario. Restare in bilico tra osservazione di un eroe sconfitto, vicino alla morte, e riflessione famigliare era un bel rischio, tutto sommato superato in nome di un “Toni’s movie” vulnerabile quanto sincero.
ANEMONE
Daniel Day-Lewis apparecchia l’esordio al lungometraggio del figlio Ronan (interpreta, scrive e produce), con più di un sospetto di nepotismo. Il grande ritorno davanti alla macchina da presa, infatti, si infrange su una scrittura enfatica e indulgente e su una regia acerba, che scambia virtuosismi scolastici per visionarietà. Certo, Day-Lewis e Sean Bean in un dramma da camera sono due assicurazioni sulla vita per salvare il salvabile ma ci sono squilibri psicologici stupefacenti (gli abusi denunciati a inizio racconto scompaiono in nome di un altro trauma) e simbolismi irricevibili (i sogni mistici e la grandine purificatrice). Infine, non aiuta la nostra simpatia il fatto che si parli di un controrivoluzionario dei colonialisti britannici in Irlanda.

PONTI DI CINEMA TRA STORIA E IMMAGINE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

CINQUE SECONDI
Bel terreno di elaborazione critica. I problemi sono evidenti: un arco narrativo intuibile dai primi minuti; un ritratto di gioventù che sembra ideato da Corrado Augias se avesse vent’anni più di quelli che ha; un boomerismo insistente. Ma poi (un po’ come la barca della figlia) tutto viene rovesciato: un dolore lancinante di autenticità sorprendente, come sempre in Virzì e Bruni; un giudizio morale che diventa sempre più complicato; un lavoro sulla composizione del quadro e degli spazi cinematografici che seppellisce un buon 90% dei registi italiani attuali; un’ironia intelligente, che prima intride e poi stride apposta; Mastandrea e Bruni Tedeschi mostruosi. Quindi che si fa? Si prende o si lascia? Si prende.
THE MASTERMIND
Tra alti e bassi distributivi, e forse grazie alla fama di Josh O’Connor, arriva anche in Italia la nuova fatica di Kelly Reichardt, regista di straordinaria, complicata finezza. The Mastermind (tempestivo dopo il furto al Louvre) parla di un ladro atipico da museo, una sorta di malinconico drop out che si trova a malpartito con la vita stessa, oltre che con la società. Come sempre nel cinema di Reichardt si galleggia straniti e poi si affonda pian piano. Il paesaggio e la società americani non pretendono subito il loro status simbolico ma soffocano lentamente i personaggi. Quelli secondari, poi, spalancano vite consumate che somigliano un po’ a O’Hara e un po’ a Carver. E la Hollywood anni Settanta se ne sta seduta a guardare, sorniona, evocata nel modo giusto, senza cinefilia facile.

SPRINGSTEEN
Un mezzo disastro. Purtroppo mentre James Mangold ha trovato la chiave-Dylan (conflitto folk/rock come diapason per capire una certa modernità americana), Scott Cooper non ha trovato la chiave-Boss (conflitto rock/folk – rovesciato – che non dice niente né di Bruce né dell’America). Le paturnie creative dell’artista sono raccontate come tristemente ordinarie (autore tormentato con la testa tra le mani), così come rozzi appaiono il dramma famigliare e l’immaturità sentimentale. Inoltre Cooper non sembra saper filmare la musica, finendo con lo spezzettarla e renderla inautentica (confrontare, anche in questo caso, i live di Mangold). Sembra un film sotto dettatura, e sarebbe triste scoprirlo.
IL SENTIERO AZZURRO
Sorprendente opera nomadica del regista brasiliano Gabriel Mascaro, che racconta una distopia del presente, immaginando la deportazione forzata degli anziani una volta raggiunta una certa età. Una di loro, Tereza, non ci sta e fugge in Amazzonia, intraprendendo un viaggio senza centro e senza destinazione certa. Mascaro si distingue dai registi che avrebbero scelto di girare un rassicurante feel good movie scolastico grazie a uno stile possente, nitidissimo, dove natura e animalità la fanno da padrone, insieme a un cromatismo non di facciata. Orso d’Argento alla Berlinale 2025.

IL PIANETA SELVAGGIO
Non so se definirlo addirittura un cult movie, ma certamente l’apologo di animazione ideato da Topor e firmato da René Laloux nel 1973 ha fatto un pezzetto di storia di questo genere. Sebbene plateale nella sua ansia allegorica (la lotta tra due popolazioni fantastiche in un mondo di padroni e di sopraffatti), la storia del Pianeta selvaggio è appassionante e lirica. Ma il vero tesoro, ancora oggi intatto, è il disegno (a mano) che fonde surrealismo, età dell’oro del fumetto d’autore moderno, e il tratto “psichiatrico” dell’artista Laloux in regia. Man mano che l’opera procede, la dimensione visionaria e ipnotica prevale, lasciando lo spettatore “lucidamente a bocca aperta”, se si può dire così.
SIAMO IN UN FILM DI ALBERTO SORDI?
Chi ha l’età per ricordare l’indimenticabile Storia di un italiano su Rai Uno di e con Sordi (1979-1986) ne ritroverà qualche traccia in questa carrellata critica sulla filmografia dell’attore. Grazie alla consueta cura cinefila (e storiografica) di Della Casa e Taricano, il doc è a dir poco godibile, sia per l’antologia di pezzo sordiani, anche meno noti, sia per le riflessioni a margine (pur non originalissime). Molta attenzione è riservata alla fase aurorale della carriera, ma a contare di più è la galassia delle sequenze sordiane, una playlist che si stacca dai singoli film e diventa un’altra cosa, capace di tracciare il vero ponte sullo stretto tra le isole del cinema italiano del dopoguerra.

CONTENITORI DI STORIE E VISIONI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TRE CIOTOLE
Alle prime inquadrature dai contorni artisticamente bruciacchiati e ai primi colori autunnali color-corretti il cinefilo potrebbe dare in escandescenze. Il buon vecchio cinema medio-autoriale (come lo chiamavamo una volta) è ancora qui, imperterrito, nascosto dietro la macchina da presa della spagnola Isabel Coixet ma pur sempre italianissimo. Poi subentra il rispetto: per Michela Murgia, per chi ha cercato di trasformare il suo libro in qualcosa di diversissimo, e per gli attori (specie Alba Rohrwacher) che ci hanno creduto, salvando il salvabile, prosciugando una scrittura filmica salottiera e sentimentalista attraverso interpretazioni vibranti. Ma basterebbe la scena del piccione per capire tutto, anche se vorremmo non aver capito.
AMATA
Vedi sopra. Bisogna dire che Elisa Amoruso è una regista versatile e internazionale: per dire, ha diretto episodi di una delle migliori serie noir inglesi recenti (Dept. Q) e lavorato a tanti documentari e lunghi di finzione, e altre serie che ha adattato, sceneggiato, diretto (Fedeltà). Il sospetto che la critica privilegi l’autorialismo di colleghi maschi (non più coerenti di lei) c’è. Detto questo, Amata è drasticamente diviso in due, come la storia parallela: i due coniugi borghesi (Accorsi e Leone, spaesati) sono il cliché dell’alta borghesia; la ragazza-madre (al solito perfetta Tecla Insolia) funziona molto meglio. Sl tema della maternità si nuota molto in superficie.
CONFITEOR
Bonifacio Angius gode di una meritata fama critica. Sembra essere proprio come lo vedi (o lo leggi sui social), senza pose: genuino, macerato, irascibile, talentuoso. Qui arriva al suo fatidico meta-film, che ha da dire al cinema italiano cose simili di quelle che ha detto Franco Maresco, forse l’unico autore più intrattabile di lui (sullo schermo s’intende). In più, Angius denuda i dolori famigliari mettendosi in scena col figlio, mescolando le generazioni con urticante ironia. Si sta al gioco, per affetto: ci piace chi mette un dito nell’occhio delle aspettative. Non è chiara, però, la scelta di uno stile così amatoriale (il bianco e nero da corto studentesco, l’estetica iperdigitale, la recitazione pedante). L’idea è “disimparare il cinema” per rifarlo da capo? Mumble mumble.

STEVE
Monumento per Cillian Murphy. Potete metterlo in un museo e giragli intorno, tipo installazione, e avrete un’esperienza appagante. I suoi registi lo sanno, e capita talvolta che le storie cucite intorno a una personalità così originale non siano troppo elaborate. Come nel caso di Steve, uscito direttamente su Netflix. Mielants è un regista un po’ grossolano (come si può notare nel rapporto tra immagini e musica, o in montaggi paralleli a dir poco scolastici), e lascia a Murphy il compito di dare tutta la credibilità possibile al suo educatore alle prese con giovanissimi teppisti, esclusi dalla società e scartati dalle famiglie. Un tuffo nel welfare (negato) inglese, tra Adolescence e Loach, senza infamia e senza lode.
DEXTER: RESURRECTION
Accanimento terapeutico o adorabile tea party con il nostro serial killer di famiglia? La seconda. Anzi, molto meglio ora, con questo revival del Dexter Universe, rispetto alle ultime stagioni della serie originale. La verosimiglianza è stata riposta in armadio con ironia (basti pensare al risveglio “post mortem” che dà il via al sequel). L’idea del ritrovo tra psicopatici organizzato da un miliardario mortifero somiglia parecchio ai nuovi club del Potere americano (quelli legali, tra Casa Bianca e Big Tech). E la sete di giustizia sanguinosa di Dexter, anche papà devoto, fa il resto, costringendoci a tifare per lui. Basta non prenderlo – né prendersi – troppo sul serio, guardandolo. PS: Uma Thurman, però, meritava un personaggio più ricco, un po’ di rispetto per la dea, perbacco.
BLACK RABBIT
Se ci mettiamo a fare l’elenco di ciò che non funziona, non finiamo più. Tra le altre cose: forzature e inverosimiglianze nei tasselli della struttura narrativa; una certa antipatica disinvoltura nell’accumulo dei temi (criminalità, debiti, violenze di genere, traumi psicanalitici ecc.), ritmo non sempre sotto controllo. Ma se invece, come sempre preferiamo, applichiamo un più generoso sguardo “seriofilo” scopriamo una miniserie potente e oscura, che ha un bel motore narrativo definibile come “The Bear se fosse un noir con rapine, truffe e omicidi”. L’impianto del crimine che risucchia il cittadino borderline è quello di Ozark, e infatti Jason Bateman è dominus (attore, regista, produttore), e sempre da lì arriva Laura Linney in veste di regista di alcuni episodi. Jude Law gigioneggia, ma è così che lo vogliamo.
PLATONIC 2
La miglior comedy degli ultimi anni (frutto del talento della coppia Delbanco/Stoller, un po’ gli Sherman/Palladino del momento) si conferma in questa seconda stagione, pur vagamente interlocutoria. La tensione erotica tra i due vecchi amici viene definitivamente sterilizzata in nome di un “buddy/buddy” goliardico in cui il produttore e protagonista Seth Rogen batte i sentieri che gli sono più noti. Ma come al solito è Rose Byrne a stupire, spostando sempre più avanti il mix tra apparenza aristocratica e disponibilità alla deriva demenziale. Si pesca dalla screwball comedy e dalla storia della sitcom con grande consapevolezza di scrittura e annotazioni acidissime sull’America delle famiglie tradizionali e dei cuori solitari un po’ tagliati fuori dalla società.

AMORI FATALI E ORIZZONTI PERDUTI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

TOGETHER
Gli horror con le idee chiare sono meglio di quelli con le idee confuse. Ovvio. Il rischio dei primi è quello semmai di offrire letture troppo didascaliche (che era, a parere di chi scrive, il limite maggiore di The Substance). Together riesce a evitare le medesime trappole, e a seminare interpretazioni di vario tipo: è una metafora dell’amore tossico? è una commedia del ri-matrimonio bagnata nel cinema di Yuzna e Cronenberg? è un’anti-commedia che ci invita a scappare dai rapporti prima che degenerino? O è un folk horror sulla provincia boschiva Usa e le sue infinite pieghe irrazionali? Sebbene un po’ derivativo dal punto di vista iconografico ed estetico, Together scava in quella trincea ibrida tra elevated horror e mainstream horror che forse sta diventando la terza via più interessante del momento.
TESTA O CROCE?
Progetto ambizioso: un western italiano che scavalla la tradizione leoniana, recupera invece un (bel) po’ di Peckinpah e di rivoluzionari messicani, celebra la Maremma pistolera e i butteri da prateria nell’ “ovest italiano”, zigzaga tra ironia e surrealtà. Rigo de Righi e Zoppis (complice un curioso Buffalo Bill interpretato dal sardonico John C. Reilly) realizzano un UFO cinematografico, nel quale si dimena il sempre generoso Alessandro Borghi (che sarebbe stato benissimo nel cinema di Sollima o Corbucci). Unico, vero, non secondario ostacolo: si gode poco. Un film così dovrebbe stimolare un piacere continuo, lasciare il genere lobero di scatenare le sue passioni; eros e pallottole sembrarci irresistibili. Invece tutto appare accademico e stranamente ingessato, anche – purtroppo – la protagonista Nadia Tereszkiewicz, cui non si crede proprio mai.
FERDINANDO SCIANNA – IL FOTOGRAFO DELL’OMBRA
Chiunque abbia sentito parlare Scianna, se ha resistito allo stordimento affabulatorio, ne è uscito al tempo stesso rigenerato e ammirato. A oltre 80 anni, questo uomo-racconto è in grado di operare ottime riflessioni esistenziali e meta-critiche su sé stesso e sull’arte fotografica. Bene ha fatto Robert Andò, a parte la civetteria di un b/n molto ricercato, a lasciare l’amico libero di parlare senza freni, per poi lavorare al montaggio. Contribuisce alla riuscita del documentario (molto semplice) la chiave della sicilianità, che pian piano diventa una sorta di fil rouge che parte da Pirandello, attraversa Sciascia, trafigge lo stesso Scianna, tocca Dolce & Gabbana (ebbene sì), e arriva a Tornatore. Un pezzetto di arte italiana raccontato con gusto e lasciato ai posteri.

LE CITTÀ DI PIANURA
Si parla di modello-Jarmusch, o Kaurismaki, per questa provincia veneta stonata e alcolica, ruvida e malinconica. Ma il modello è ancora una volta la commedia all’italiana (se vogliamo, una commedia contemporanea post-Mazzacurati). Ci piace, di Sossai, che sappia tenere l’equilibrio tra un arco narrativo in verità organizzatissimo – è una specie di Il sorpasso senza tragedia finale – e un’apparenza svagata, strampalata, tipo “buona la prima” (grana Kodak a garanzia). E le annotazioni sparse sull’Italia, alcune esilaranti e altri disperanti, funzionano tutte, anche perché il paesaggio per una volta è interrogato dai personaggi e non dal regista che lo contempla. Attori di precisione antropologica assoluta. E se dovessimo trovargli un modello culturale ed estetico, lo scopriremmo nella musica: questo è un film post-rock (vedi colonna sonora), e specificamente il post-rock anni Novanta.
L’ISOLA DI ANDREA
Per i suoi 85 anni, l’ostinato Antonio Capuano torna all’infanzia negata. Questa volta abbandona il teatro di frontiera della periferia urbana napoletana e si concentra sui più asettici spazi borghesi di una coppia che si sta separando. A rimetterci, manco a dirlo, il figlio piccolo, diverso però da altri simili del “cinema del divorzio” e dotato di un’umanità, di una resilienza e di una fantasia che lo distinguono egregiamente dagli altri. Per il resto, l’autore segue rigorosamente una serie di incontri con i mediatori civili, creando un set di riferimento per il dramma dell’elaborazione della fine. Tutto è nitido, non scolastico. E sebbene la recitazione a volte fatichi a trovare l’equilibrio tra questa nettezza formale e la mimesi psicologica, L’isola di Andrea conferma la cocciuta intelligenza emotiva di Capuano.
THE LOST BUS
Per chi è innervosito da Paul Greengrass (con il suo stile fatto di zoomate e schiaffi continui, macchina a mano tesa a occultare il fuori campo, punti di ripresa illogici e immotivati, confusione spacciata per ritmo) The Lost Bus altro non è che la conferma della sua estetica, applicata stavolta a contenuti dimenticabili. Per gli appassionati del sotto-genere “incendi devastanti al cinema”, bisogna invece ammettere che c’è pane per i loro denti, grazie a uno sforzo scenografico imponente, a una certa suspense, e a fiamme finalmente credibili, rispetto alle orribili lingue di fuoco digitali degli ultimi tempi. Sotto sotto, pur tratto da una storia vera, si tratta di una megapuntata deluxe di un qualsiasi Chicago Fire, in cui osserviamo con simpatia il divismo ormai combusto di Matthew McConaughey e qualche timida critica sociale che non offende nessuno. E il destino da piattaforma (Apple TV+) dice molto del destino del film medio.

RISCRITTURE E RE-IMMAGINAZIONI

ALIEN – PIANETA TERRA
C’era molta attesa per la prima serie dedicata alla saga di Alien, in versione prestige, specie perché come showrunner e dominus assoluto è stato scelto Noah Hawley, che di prestige se ne intende, vedi Fargo e Legion. E proprio alla complessità di quest’ultima guarda Hawley, con una storia spiazzante che, se da una parte paga il giusto tributo alle scene di caccia predatoria che tutti desideriamo, dall’altra costruisce una pensosa architettura su esseri artificiali, specie aliene, multinazionali spietate, in stato di guerra e turbocapitalismo permanenti. Sinuoso, violento, ricco (anche di budget), è il primo tassello di una narrazione futura molto promettente. I bambini nel corpo di adulti sintetici sono inquietanti, riuscendo a dire qualcosa di noi e del nostro infantilismo guerrafondaio.
LA FIDANZATA
Lo diciamo troppo spesso? Sì, lo diciamo troppo spesso. Ma guilty pleasure è una categoria talmente precisa (con il non secondario vantaggio di farti sentire meno in colpa) da permetterci di ignorare i rischi di retorica. Come avrete capito, La fidanzata è una sciocchezza immane, che però funziona come un pistone inarrestabile, perché riesce a intensificare gli stereotipi più oppositivi (l’amore tra il bel riccone e la povera arrampicatrice; una mamma con il complesso di Giocasta e un figlio che ne sfrutta l’affetto; la love story piccante e il crime che si fronteggiano) fino a scatenare una centrifuga di panni colorati da guardare con spasso. Lode a Robin Wright, che da regista lascia a sé stessa attrice un ruolo di rara odiosità.
IL PADRE DELL’ANNO
Un film a dir poco famigliare. Non solo perché tratta di padri e di figli, di relazioni e di invecchiamento, di paradossi anagrafici e di equilibri affettivi, ma anche perché la regista Hallie Meyers-Shyer è figlia di due volpi della commedia americana come Nancy Meyers e Charles Shyer. Inevitabile pensare a un rispecchiamento poetico e produttivo, in cerca – a ben pensarci – di un cinema che non c’è più. Con tutta la simpatia che questo contesto evoca, va però detto che siamo lontanissimi non dico da James L. Brooks (sarebbe un confronto ingeneroso) ma anche da certi umanesimi lievi e coinvolgenti proposti dal cinema di mamma e papà (penso in particolare a gioielli come È complicato, 2009, di Meyers, o Alfie, 2004, di Shyer). Qui è tutto degno e lieve, sia chiaro. Ma la dinamica padre/figlia appare rinunciataria, la figura della ex moglie troppo strumentale, il lavoro sul corpo attoriale di Michael Keaton più pigro di quel che sembra.

ALPHA
Julia Ducornau si conferma regista di pregio anche se con un film interlocutorio. Molto più “ingestibile” peri i gusti del pubblico di Coralie Fargeat, Ducornau ci offre uno dei più potenti e allegorici film sull’AIDS che si siano visti. Con una struttura temporale spiazzante (visto che si intreccia su un sistema che già di per sé confonde la realtà narrativa con le visioni oniriche della protagonista), Alpha mira alla gola a trascina con sé tutti i personaggi – a cominciare dallo zio tossico interpretato con inquietante, nervosa magrezza da Tahar Rahim. In più, inventa un’iconografia virale che prosciuga il body horror liquido e lo rende a sorpresa pietroso. Purtroppo, Ducornau perde il controllo sull’intero progetto poetico nell’ultima parte, dopo la scoperta del “mistero”: la spiegazione delle metafore e la moltiplicazione dei finali indebolisce e persino rischia di negare quanto visto fin lì. Ma che autrice, diamine.
ALL OF YOU
Certo, non è sbagliato chiedere al grande schermo di riprendersi lo scettro della rom com. Ma se il risultato è il velleitario Material Love, difficile poi lamentarsi con le piattaforme che le fanno con lo stampino. Talvolta, poi, funzionano. Tipo questo All of You di Apple, che valorizza due attori capacissimi e apprezzati da pochi (Brett Goldstein, anche co-sceneggiatore, e Imogen Poots) con un piccolo gancio fantascientifico (il software per l’anima gemella) che aggiorna la stessa domanda sentimentale: esiste la persona perfetta per noi? Con sprazzi di amarezza inedita e dialoghi brillanti, il gioco è fatto. Non è metafora di nulla: è solo un autore, William Bridges, che sa il fatto suo senza strafare.

LA PHOTO RETROUVÉE
Il vincitore del bellissimo festival Archivio Aperto 2025 viene dalla Francia e dall’idea straordinaria del regista Pierre Primetens. Non disponendo di immagini della sua infanzia e della sua famiglia, se non una foto della mamma il giorno del suo matrimonio, Primetens interroga la propria memoria attraverso un enorme archivio di home movies e immagini amatoriali di altri. Fa sì, cioè, che i ricordi si alimentino con il carburante dell’altrui “cinema privato”. Arrivando a delineare un quadro doloroso e struggente di una famiglia complicata e di un padre problematico. Un film sui traumi giocato con la tenerezza e il rispetto verso un deposito di memorie audiovisive. Offrendo alla madre un ruolo da protagonista che almeno al cinema merita di fronte alla “cancellazione” che ha subito.
TUTTO WOODY ALLEN
Bella iniziativa congiunta di Minerva Pictures, Filmclub Distribuzione e Rarovideo Channel, che hanno scelto di riportare in sala nove dei suoi film meno classici in occasione del compleanno dei 90 anni (in effetti si intitola Woody 90). Il tutto mentre esce anche in Italia il suo primo romanzo. Partita con il ventennale di Match Point (a proposito: potenza drammaturgica intatta), la rassegna promette molto bene, anche perché illustra proprio il Woody contemporaneo che è stato tante volte sbertucciato dai cinefili. Varranno una seconda visione almeno il piccolo e irresistibile Accordi e disaccordi, il verbosamente esilarante Pallottole su Broadway, la mortuaria parodia bergmaniana del favoloso Harry a pezzi, oltre che il sottovalutato e velenoso Celebrity, assai attuale.

SFONDI STORICI E VITE IMMAGINATE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DUSE
Pietro Marcello in cerca. Obiettivo: un cinema di largo respiro che mantenga rigore e integrità di ciò che ha concepito in passato. Di questo cineasta spontaneo e colto, selvatico e raffinato insieme, abbiamo bisogno. Ha di fatto fondato un’estetica, unica anche in seno alle tante contraddizioni del “cinema del reale”. Con Martin Eden ha ideato un grande film camminando sulle uova del cinema d’essai, senza romperle: un autoritratto ingenuo ma disperatamente vero (Jack London c’est moi), che stava col Marcello precedente e annunciava un nuovo Marcello. Con Duse purtroppo è involuzione. Tanta, tanta polvere che pesa su un ritratto biopico prevedibile, recitato a smorfie grandattoriali, un po’ martoniano e un po’ goliniano, nella terra di nessuno (e poi basta D’Annunzio, per favore!).
SOTTO LE NUVOLE
Anche Gianfranco Rosi ha segnato la stagione d’oro del “cinema del reale”, arrivando a un Leone d’Oro (Sacro GRA) che pareva l’annuncio di una rivoluzione compresa anche dal pubblico generalista. Poi tutto si è un po’ accartocciato, e lo stesso Rosi – pur nuovamente premiatissimo con Fuocoammare – sembra aver faticato a trovare progetti forti e limpidi. Sotto le nuvole torna alla pratica pre-esistente, con un’osservazione molto elegante (bianco e nero in senso nobilitante e ritrattistico) di una Parthenope della gente comune, tra tracce, monumenti, istituzioni, e coloro che li abitano in carne e ossa. Questa città-catalogo (di forme, di soggetti) sembra però ferma alle idee di dieci o quindici anni fa. E con Napoli è complicato proporsi come disvelatori, senza il coraggio del barocco esasperato sorrentiniano o l’energia del realismo dal basso.
LA TOMBA DELLE LUCCIOLE
Grande successo per la riedizione di uno dei più lancinanti e strazianti film d’animazione di sempre. Sarà la sua eterna attualità, sarà che il periodo per la cultura del cartoon nipponico in sala è fertile, fatto sta che il capolavoro di Takahata risuona famigliare come non mai. Complice il recente dibattito spietato e scioccante sulla bontà della bomba atomica (ma non dimentichiamo la questione mai sopita dello sterminio a tappeto della popolazione civile nemica), La tomba delle lucciole rimane un oggetto terribile e senza compromessi. Non bastassero la dignità narrativa e la potenza sentimentale che sprigiona, l’opera dello Studio Ghibli è anche un trionfo iconografico notturno e spiritato. Imperdibile.

LA VALLE DEI SORRISI
Spudoratamente (ma piacevolmente) ispirato al personaggio di Santo Wayne della serie The Leftovers, il ragazzo che abbraccia e toglie il dolore è comunque un personaggio innovativo nell’horror italiano. Strippoli cresce ancora e costruisce un racconto di genere dalle molte ascendenze e dalle molte metafore (sociali, politiche e meta-cinematografiche). Quel che conta è però soprattutto che vi sia cittadinanza per questo immaginario nel cinema italiano, anche con attori importanti e budget adeguati. Sorprendente dal punto di vista iconografico, La valle dei sorrisi dice di un autore pronto a diventare il leader di punta di un movimento “italian folk horror”. Qualcuno lo seguirà?
THE LIFE OF CHUCK
Continua a sgretolarsi la leggenda secondo cui gli adattamenti da Stephen King non funzionano. Anche Mike Flanagan (adattatore horror di eccezione con le serie su Netflix) mette il suo mattoncino, valorizzando un racconto breve attraverso una storia tripartita, in senso anti-cronologico. Sicuramente originale, specie nell’atto iniziale (dove lo spiazzamento è più inquietante), il film purtroppo perde via via tutti gli umori complessi e ambigui per puntare su un sentimentalismo esasperato (complice anche una disastrosa colonna sonora dalla funzione pavloviana). E alla fine l’ibridismo hollywoodiano che ne garantisce l’interesse rappresenta anche il primo motivo di frustrazione, con accenti irrazionalistici e individualistici talvolta sospetti. Definiamolo un divertente pareggio con un gol per parte.
HONEY, DON’T!
Seconda parte di una “trilogia lesbo-noir” di cui Drive-Away Dolls è stato la prima pietra. Quel film fu snobbato senza capirne – paradossalmente – la leggerezza. Una specie di “garage days re-revisited” di Ethan Coen, deliziosamente a metà tra B-Movie e acid cinema. Stavolta è il contrario, sembra leggero (in sala si ride finché si capisce che c’è poco da ridere) ed è invece un ritratto malinconico – se non disperato – della provincia MAGA americana (esplicitamente citata in una gag da applausi). Sostanzialmente, se si eliminasse il trattamento sarcastico di Coen, ogni momento narrativo del film sarebbe drammatico e serissimo. Margaret Qualley domina, come private eye post-noir dalla battuta pronta e dalla vulnerabilità nascosta dietro una facciata da Mickey Spillane.

SULLA MELODIA DELLE IMMAGINI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE CONJURING – IL RITO FINALE
Questa volta la discrepanza tra successo (clamoroso) di pubblico e riuscita del film è acutissima. Avendo compreso che uno dei tratti vincenti della saga è rappresentato dal concetto di “familiarità” dei Warren, e che la wunderkammer del soprannaturale in casa loro è una perfetta metafora dell’irrazionale che “abita” in America, tutto ciò è stato didascalicamente esibito in questo quarto episodio (esclusi spin off). Col risultato di una torsione conservatrice, se non reazionaria, che James Wan aveva tenuto sapientemente a bada – e Michael Chaves no. Interpretazioni a parte, a non funzionare è proprio l’orrore: a parte un’interessante scena di rifrazioni (la prova d’abito della futura sposa), le idee visive e i tropi dell’orrore sono soporiferi. Basti pensare che il culmine della tensione è uno specchio che ruota su se stesso.
MATERIAL LOVE
In cerca del Sacro Graal di una rom com che abbia al contempo aspetti autoriali (Celine Song si sente tale) e la leggerezza del racconto per il grande pubblico, si rischia di perdere le proporzioni. Raramente si è vista una scrittura così magmatica e indecisa su quale direzione prendere. I temi si contraddicono di continuo, dal cinismo lubitschiano si passa alla rivendicazione woke, dall’inserimento forzato di aspetti sociali drammatici si slitta a questioni professionali, dall’idea di affermazione a quella di sacrificio. Alla fine, una commedia del ri-matrimonio che probabilmente scontenta molti, oltre che un’occasione sprecata per far interagire brillantemente Dakota Johnson (in versione anti-sfumature di grigio) e Pedro Pascal, punito da una sotto-trama “chirurgica” a dir poco sconcertante.
DOWNTON ABBEY – IL GRAN FINALE
Non bisogna burlarsi del senso di rassicurazione e protezione generata da questo terzo e ultimo capitolo della coda cinematografica nata dalla saga televisiva. Anzi, c’è da sorprendersi di quanto Julian Fellowes sia riuscito a mantenere riconoscibili sia l’universo di Downton sia le sua costanti simboliche (proprietari/servitori, progresso/tradizione, famiglia/disgregazione, ecc.). Il capitolo conclusivo, pur lasciandosi andare a qualche fan service di troppo, soddisfa tutti gli appassionati mettendo al centro il dominio dell’economia sul mondo moderno, e le logiche del capitalismo come boomerang per un’alta società di strutture gerarchiche ingessate. Attori in splendida forma, dialoghi (al solito) incessanti e densissimi, risate e pianti in sala. Difficile chiedere di più.

HIGHEST 2 LOWEST
Se questo doveva essere uno Spike Lee di quelli confusi e interlocutori, ben venga. Perché è sempre meglio di gran parte di quel che passa il convento in sala (anche se è su Apple TV+). In questa storia di rapimenti e riscatti all’interno dell’industria musicale newyorkese, Lee trova e ritrova il suo cinema ibrido, icastico, remixato, magari “anziano” – per quel che racconta, predica, sostiene – ma sostenuto da passione, energia cinematica, voglia di scazzottarsi col contemporaneo. Il “joint” ruota intorno alle note e alle parole: in fondo è un film sul repertorio musicale americano e su ciò che significa in termini sociali per le generazioni che si susseguono. E la giustizia privata è riparativa più che vendicativa. Finale commovente.
VELLUTO BLU
Torna in sala anche questo capolavoro. Velluto blu è il film chiave dell’opera lynchana perché impostato sul confronto tra luce e buio, perversione e innocenza, forze del bene e gorghi maligni. Lumberton è una superficie, tanto che nelle sue pieghe, al microscopio, si trovano orecchie tagliate e violenze oscure. Tuttavia in Lynch non c’è mai un ribaltamento vero e proprio delle apparenze bensì una giustapposizione, una compresenza stridente dove il male non inonda mai del tutto il bene e il bene non scioglie mai del tutto il male. Le due dimensioni restano a increspare il reale. Il volto trasparente e ineffabile di Kyle MacLachlan, lo sfregio simbolico della diva Rossellini, la morbosa ferocia di Dennis Hopper, le immagini potenti e dense collocano questo film, insieme al successivo Cuore selvaggio, nel pantheon del Lynch che porta a dialogare sperimentalismo e codici hollywoodiani.
TUTTO HERZOG
Circola per l’Italia un ricco omaggio a Herzog, in occasione del Leone d’Oro alla Carriera. Inutile dire che vanno visti e rivisti a tutti i costi su grande schermo. Si aggiunge Burden of Dreams, bellissimo documentario del 1982 diretto da Les Blank e dedicato alla folle disavventura del set di Fitzcarraldo. Sebbene si presti a esempio perfetto del titanismo herzoghiano e del suo rapporto con la natura, quest’ultimo è a parere di chi scrive il meno straordinario della sua filmografia itinerante. I deliri di Aguirre, la sorda pena per gli Stroszek, gli Hauser, i Woyzeck di questo mondo (con tutte le loro differenze, s’intende) sono forse i più potenti e indimenticabili. In attesa di Ghost Elephants – presentato a Venezia – che dovrebbe arrivare presto sui nostri schermi.

CINEMA ITALIANO D’AUTUNNO
Arrivano nelle sale, direttamente dalla Mostra del Cinema di Venezia, tre titoli: Un film fatto per Bene di Franco Maresco, Elisa di Leonardo Di Costanzo, Come ti muovi, sbagli di Gianni Di Gregorio. Ne parliamo nella nuova puntata del podcast Il posto delle fragole.
CINEMA PUNK E SEGNALI POLITICI

UNA SCOMODA CIRCOSTANZA
Aronofsky riparte da un budget limitato e una storia non sua, bensì di Charlie Huston. Il riferimento è Fuori orario (c’è Griffin Dunne e piccoli particolari a confermarlo) ma di per sé non sarebbe una gran novità, visto che lo si è detto anche per Anora e per mille altri titoli. Conta di più la malinconia newyorkese che emerge se si scrostano pulp e risatacce, con un giovane uomo “no future” che non a caso finisce con una cresta sul cranio (mente gli Idles impazzano in colonna sonora). Saggetto di regia, peraltro: un’organizzazione perfetta di azione, interni vissuti, esterni metropolitani pre-11 settembre, plastica di corpi e sfondi, facce (vince Carol Kane) ed etnie. Forse è la crisi dell’America retrodatata, e Aronofsky ci dice, tra un’esasperazione e l’altra, che non ce ne eravamo accorti.
À SON IMAGE
Ritratto di una giovane donna, aspirante fotografa, nel difficile milieu della Corsica anni 70/80 attraversata da germi rivoluzionari e militanza armata indipendentista. Come si può restare fedeli a sé stesse e al tempo stesso vivere come “la donna dell’eroe”? Divisa in questo scacco – che è anche una sospensione tra la brutale lotta per la terra e la voglia di conoscere il mondo – la protagonista sembra capire solo la guerra, finendo con l’andare in mezzo al confitto nella ex Jugoslavia. De Peretti tiene tutto a distanza, i primi piani non esistono: la collettività in lotta travolge i soggetti dimenticandoli e chiedendo alla donna di assistere alla rivoluzione dal focolare. Un risultato cinematografico duro, eccellente, in cui la vita non ha senso proprio quando tutti dicono di avere una missione.
ENZO
Pensato e concepito da Laurent Cantet, poi prematuramente scomparso, e diretto con molto rispetto da Robin Campillo, Enzo è anche prodotto dai Dardenne e altre firme note. Ma, a dispetto della comunità cinefila e registica che lo sostiene, e al di là della commozione per il progetto e ciò che gli sta dietro, è un film molto piccolo. Fatto di pochi ambienti (contrastanti: un cantiere polveroso e una villa con piscina), parla a modo suo di lotta di classe, di adolescenza, di identità di genere, di guerra, senza che nessuno dei temi si accumuli in modo eccessivo o che la lezione sociologica si imponga con prepotenza. Di contro, non sarebbe nemmeno corretto amplificarne la portata, considerandolo il capolavoro che non è. L’onestà e la modestia lo contraddistinguono felicemente.
KNEECAP
Diciamolo subito: la storia del gruppo hip hop nordirlandese, politico e sfacciato, è di per sé straordinaria. L’idea di farla recitare ai membri medesimi, in una “true story” totalmente anti-documentaristica, funziona. Per capirci, siamo dalle parti di uno stile frenetico di fine secolo scorso (tipo post-Trainspotting) affiancato all’approccio pop/nerd di Rovere/Sibilia – ovviamente per un caso, dubitiamo sia imitazione volontaria. C’è poi Michael Fassbender efficace come raramente gli è capitato di recente. Gli appassionati di storia dell’isola e dei suoi “troubles” capiranno meglio il tutto. Inutile dire che, per la mescolanza di lingue (inglese e gaelico irlandese), va visto obbligatoriamente in originale.
I ROSES
Liquidata come un remake non richiesto di una commedia nera più celebre che riuscita (anche se sul Danny DeVito regista bisognerebbe tornare), la nuova trasposizione del romanzo di Warren Adler offre parecchi spunti di interesse. La sceneggiatura di McNamara ne conferma la penna di scrittore acido con punte grossier. E a intrigare c’è anche la scelta di un regista come Jay Roach, vulgar auteur capace e riconoscibile, che sa lavorare (meta)cinematograficamente su quello che la storia racconta: così come i due snob inglesi innamorati finiscono col massacrarsi travolti dal sogno capitalista americano, anche la comicità british (i dialoghi) finisce lentamente nel tritacarne del demenziale USA. La scena della cena dove gli amici cercano di imitare le loro schermaglie ma trascendono nel pecoreccio è una vetta teorica. Merita una visione meno distratta.

LONG STORY SHORT
Nuova creatura (su Netflix), molto attesa, per Raphael Bob-Waksberg di BoJack Horseman. Qui siamo decisamente più in comfort zone: una famiglia ebrea americana con mille problemi relazionali interni, faticose relazioni con le altre culture, lutti alle spalle, situazioni tragicomiche e un sacco di jewish humour. Gli episodi creano, attraverso un lento meccanismo di composizione del puzzle narrativo, un unico affresco dove le aspirazioni e le frustrazioni di ciascuno sembrano innate all’esistenza stessa. Descritto così (come effettivamente è) dovrebbe sortite un risultato straordinario. Invece l’autore sembra avere troppa fiducia che l’ennesima famiglia disfunzionale di matrice letteraria, con ascendenze alleniane (le solite battute autoironiche sull’ebraismo, una più stanca dell’altra), debba essere applaudita in quanto tale. Si guarda con rispetto, sia chiaro, ma a setacciare nel profondo rimane pochino.
IL CLUB DEI DELITTI DEL GIOVEDÌ
Già dai primi cinque minuti si capisce quanto sia devastante il third age movie di Netflix: musichetta di sottofondo da supermercato, movimenti di macchina kitsch, estetica marchio Hallmark (qualcuno ricorda?). Lungi da noi fare ageismo, anzi la produzione per il pubblico anziano è un fatto di mercato degno da tempo di essere studiato. Ma non per questo dobbiamo farci piacere un giallo eufemistico e letargico in cui precipita la povera Helen Mirren insieme a Pierce Brosnan. La cosa buffa è che c’è mezzo cast di Mobland, compresi appunto i suddetti protagonisti: là erano meravigliosamente sadici e fuori di testa; qui si adeguano a un orizzonte di consumo insincero e lezioso. Peccato per Chris Columbus, che forse cercava la trasparenza dei bei tempi.
Alla prossima!

IPOTESI-CINEMA E IMMAGINI IMPOSSIBILI

Il MAHABHARATA
Il vero Mahabharata di Peter Brook, oltre ovviamente alla versione teatrale che dà origine al tutto, è la versione televisiva di quasi sei ore andata in onda nel 1989 su Channel Four. Non di meno, il lungometraggio di tre ore – pur mancante di passaggi essenziali alla comprensione del complicatissimo piano simbolico dell’opera – è rimasto nelle “teche” della cinefilia per la sfida al set e al rapporto teatro/cinema. Riportato meritoriamente in sala da Cinemaundici e Lumière & Co, (all’epoca fu Mikado), è una versione restaurata in 8K (attenzione, però, non proiettata come tale – sarebbe impossibile al momento – ma a seconda della definizione cui sono attrezzati i singoli schermi). Tecnologia a parte, il capolavoro di Brook rimane intatto, monumentale, sublime, talvolta torturante e talvolta illuminante. Vale la maratona, oggi come ieri e come domani.
HOT MILK
Su MUBI l’arrivo di un singolo titolo da festival, in un calendario decisamente meno ricco di novità di quel che l’abbonamento dovrebbe promettere, sembra sempre qualcosa di eccezionale. Da celebrare, però, nel film scritto e diretto da Rebecca Lenkiewicz (presentato a Berlino 2025), non c’è molto. La sbilenca storia d’amore tra le impacciate Emma Mackey e Vicky Krieps è meno interessante del problema di salute (probabilmente psicosomatico) di una madre dai molti segreti. E tra confessioni, lutti nascosti, tensioni erotiche, una Almeria che somiglia alla Grecia di La figlia oscura, il mélo apparentemente negato dalla messa in scena naturalista finisce con l’uscire a sua volta claudicante.
SCONOSCIUTI PER UNA NOTTE
Difficile parlare del film di Alex Lutz senza svelare le sorprese (o forse le intuibili svolte) offerte dall’ultimo atto. Anche perché a posteriori chiariscono meglio quanto Sconosciuti per una notte sia diverso dalla piccola ondata di passeggiate notturne per la città che è arrivata nelle nostre sale dalla Francia (alla mente viene per primo Ma Nuit, 2021). Il vero modello è chiaramente Lelouch, in ricordo del quale si scacciano i timori di diventare troppo sentimentali – il che sarebbe anche paradossale per il cinema francese “dell’amore”, da troppo tempo imborghesito e anempatico. Ci sono scelte (i primi minuti con la lite, l’ellissi, l’amplesso col solo movimento delle gambe) che vanno prese come sprazzi di luce registica, non sempre sostenuti per tutta la durata del détour. Ma col finale, la “paura d’amare” torna al centro. E tanto basta.
DANGEROUS ANIMALS
Non c’è nulla di peggio di un regista maschio che vuol farsi paladino di un discorso anti-patriarcale senza averne lo spessore. A parte il fatto che Dangerous Animals non funziona nemmeno come exploitation (un barcarolo psicopatico carica vittime su un piccolo yacht turistico e le lancia in pasto agli squali per puro sadismo), quel che davvero sconcerta sono le equazioni proposte da Sean Byrne. La protagonista “badass” con famiglia tormentata alle spalle inverte i rapporti di forza solo perché possiede doti sovrumane di lotta; il delicatissimo titolo e gli sproloqui del cattivo ci informano ad nauseam che il vero predatore non è l’incolpevole squalo ma il maschio tossico; il gore (pur inefficace) insiste morbosamente sui corpi sventrati dei cadaveri senza un vero perché e con effetti perniciosi. Un disastro.
ULTIMO TURNO
Anche nel cinema d’essai si impone una tipologia di film-performance epidermica, ammantata di umanesimo ma principalmente basata su effetti ritmici, patemici, cronologici assai più superficiali di quel che appare. La giornata infernale dell’infermiera Floria (interpretata dalla fin troppo lodata Leonie Benesch) comincia con lo scoprire che sarà sola nel reparto e finisce a notte fonda tra tragici errori e inevitabili sfoghi. In mezzo una corsa a perdifiato per accudire tutti i pazienti. Alla fine una didascalia ci avverte che il sistema sanitario pubblico è al collasso ovunque. Applausi e tutti a casa. Purtroppo non c’è un solo momento che non sia un ER (o un The Pitt) di prestigio cinematico. Come “thriller del lavoro” sotto pressione funzionava meglio il solido Full Time (2021) di Éric Gravel.
EIGHT POSTCARDS FROM UTOPIA
Arriva su MUBI la formidabile (e inedita in Italia) satira di Radu Jude e Christian Ferencz-Flatz. Si tratta di un documentario che assembla materiale d’archivio tratto esclusivamente da pubblicità rumene post-rivoluzione, dopo la fine del socialismo. La visione, pur di soli 70 minuti, è durissima. Se Jude ci ha già abituati nel suo cinema a integrare nel racconto di finzione elementi archivistici, provenienti da found footage, trash-TV, social media, questa volta è solo montaggio. E la quantità di kitsch contenuta in un’ora e dieci di spot, video elettorali, schegge di fiction, filmati locali e altro ancora giunge al parossismo portando lo spettatore a una nausea mediale (e indirettamente politica) che vale più di mille discorsi progressisti preconfezionati del cinema d’essai più salottiero. Una conferma per un autore che sta riscrivendo il cinema europeo.
LA NOTTE ARRIVA SEMPRE
Distribuzione direttamente su Netflix per l’attesa trasposizione di un romanzo di Willy Vautlin (i cui romanzi “steinbeckiani” sono già stati più volte adattati), diretto da Benjamin Caron, veterano delle serie prestige e autore di un intricatissimo noir da piattaforma come Sharper (2023). Vanessa Kirby fa da mattatrice come giovane donna “white trash” che deve raccogliere un sacco di soldi tutti in una notte per evitare lo sfratto. Ha un fratello disabile e una madre che sembra uscita da Elegia americana. Siamo nei paraggi di un Loach vitaminizzato e americanizzato, con mille sottolineature ininfluenti sull’impoverimento della classe proletaria e sull’inflazione fuori controllo. Simile a quegli instant movie del dopo-Lehmann Brothers, girati tra 2008 e 2010. E altrettanto dimenticabile.

IMMAGINI DI FERRAGOSTO

WEAPONS
Opera seconda di assoluto spessore per Zach Cregger, dopo l’acerbo ma potente Barbarian. Cregger, autore dello script e co-autore anche delle sorprendenti musiche, attraverso un mosaico di punti di vista dalla lunga tradizione cinematografica compone un “horror puzzle” intrigante. Non si tratta solo di ingegno nel costruire la macchina. Weapons funziona sia nel reperire la dimensione stregonesca delle piccola comunità statunitensi sia per un – magari più facile – discorso sull’aggressività della nazione e sugli incantesimi ideologici che spingono i cittadini a odiarsi. Con Ti West, Parker Finn e pochi altri, Cregger potrebbe dare un seguito al boom di Aster, Eggers, Peele di qualche anno fa nel miglior mainstream horror.
BRING HER BACK
Discorso opposto per i fratelli Philippou. Dopo Talk to Me (grande concept, realizzazione riuscita a metà), l’opera seconda si inverte (concept debole, realizzazione raffinata). Purtroppo l’idea molto legnosa e involuta di una complicata trasmigrazione di anime attraverso un corpo vicario viene differita e annacquata da una scrittura molto incerta (basti dire che il punto di vista narrativo, centrato sulle vittime, slitta a casaccio ogni tanto, alla bisogna). L’idea di upgrade artistico è centrata sulla performance “d’essai” di Sally Hawkins (stridente più che inquietante), mentre la claustrofobia della casa in cui la maggior parte del film si svolge dovrebbe fare il resto. Alla fine un meccanismo che gira un po’ a vuoto, senza una grande idea di cinema horror alla base.
IO SONO NESSUNO 2
Trasformazione interessante, quella di Bob Odenkirk, che rischiava di essere tumulato nel personaggio di Saul Goodman e si è scavato invece una nicchia imprevedibile, quella action. Forse i meriti della “saga” della macchina da combattimento nascosta nei panni del quieto padre di famiglia media americana finiscono qui. Peccato che nel sequel diretto dall’indonesiano Timo Tjahjanto gli spunti iniziali (pur non originalissimi) vengano ripetuti con stanchezza. Siamo nei paraggi di un film con Bud Spencer (quelli senza Terence Hill) con un surplus di violenza, senza l’infantilismo gioioso del primo né la furia astratta di un John Wick. Felici di rivedere Sharon Stone, cattiva sguaiata e divertita.
UNA PALLOTTOLA SPUNTATA
Sequel che somiglia anche a un remake, per un ritorno in forze del demenziale. Visto il (comprovato) successo di questa Pallottola solo tra gli spettatori maturi e anziani, potremmo già definirlo “demenziale senile”. O “demenziano”. Tale è la preoccupazione da parte di Akiva Schaffer di rispettare gli elementi linguistici e teorici della comicità dei ZAZ che sembra quasi di assistere a un saggio comico o a un critofilm sull’ipotesto. Ben venga, in ogni caso, questo ricorso a un tipo di umorismo che nessuno sviluppa più. Liam Neeson si rivela perfetto, stolido e stupido il giusto, anche se è Pamela Anderson a trasformare la mascherata in qualcosa di esilarante e talvolta dolente,
QUEL PAZZO VENERDÌ, SEMPRE PIÙ PAZZO
Che si sentisse il bisogno di questo sequel non lo potrebbe affermare nessuno al di fuori di un executive della Disney con la calcolatrice in mano. Bisogna dire, però, che Freakier Friday cade in piedi. A dispetto dell’aria caramellata di vecchio film “straight-to-Disney Channel”, infatti, il vorticoso scambio di corpi (quattro, rispetto al capostipite, dove erano solo madre e figlia a invertirsi) mette in gioco tre età. E quella che avrebbe potuto essere (ma non è) una commedia lancinante sulla biologia in una società che rende stupidamente eufemistico l’invecchiamento, fa comunque capolino qua e là. Jamie Lee Curtis continua il tratto di carriera fatto di personaggi eccessivi e chiassosi, Lindsay Lohan prosegue il suo infinito quanto claudicante come back.
UN TIPO IMPREVEDIBILE 2
Adam Sandler alterna la carriera autoriale (con i Safdie, Buambach. Zagar) e quella comica pecoreccia, in esclusiva per Netflix. Ma siamo sicuri che le due strade corrano parallele senza mai incontrarsi? Il seguito del cult (in America) Happy Gilmore offre un esempio di commedia crepuscolare, dove alla grossolanità esibita dello humour corporeo e “basso” si affianca una vena malinconica, oltre che l’ennesimo ritratto da white trash più preciso di mille film Sundance. La rabbia – compagna di tanto cinema “di” Sandler – rimane il tema, insieme al lutto. In mezzo, mille comparse illustri e una marea di relitti umani e di corpi traumatizzati, in chiave grottesca, secondo un’iconografia mostruosa e villana degna di nota.
STICK
Rimanendo nel campo del golf e degli swing potenti, vale la pena citare il dramedy di Apple TV+ (a conferma dell’allargamento di generi che ormai la piattaforma sviluppa e vanta). Si tratta di un racconto sportivo, di coaching e pareting, perfettamente cucito su Owen Wilson (che pare non invecchiare mai d’aspetto), qui ex campione di golf decaduto e allenatore di un giovanissimo ma turbolento talento. Non stupisce trovare tra i produttori e registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (Little Miss Sunshine, Fleishman a pezzi), oltre che lo specialista del comico Dennis Dugan: le strade dell’indie on the road e quelle della comedy un po’ grezza si mescolano alla perfezione. Non manca persino uno sguardo sulle molecole di una società divisa tra tradizioni conservatrici e familiste e spinta ai valori woke. Sicuramente riuscito, a patto di non chiedere a Stick altro di quel che desidera essere.
THE BEAR 4
Difficile parlare della stagione senza parlare del finale, dove una volta di più la sostenibilità e la complessità del ristorante si specchiano apertamente nella dimensione produttiva e di scrittura della (meta)serie. Detto questo, siamo già alla seconda stagione consecutiva dedicata al tema dello scacco, dell’incertezza, del trovarsi in between tra lavoro ed esistenza. La puntualità annuale di The Bear comincia a farla sembrare una sit com di lusso. Con una differenza fondamentale. Che, al contrario di tante altre, sono proprio gli episodi eterogenei e lontani dalla cucina a funzionare: sia quello dedicato a Sydney (episodio 4), sia quello dedicato alla folle famiglia Berzatto (episodio 7) colpiscono e commuovono. Gli altri molto meno. Urge una riflessione, in attesa che Ayo Edebiri prenda sulle sue spalle la cucina e lo show.
TOO MUCH
Tornano Lena Dunham e la sua altalenante carriera. Qui gioca quasi totalmente da sola e i risultati si impennano. Too Much è una comedy isterica, imprevedibile, esilarante e strampalata, dove esplode il protagonismo di Megan Stalter. Concepita in senso contrario a serie pulitine come Emily in Paris, poggia sulla premessa del lavoro oltreoceano di una lunatica americana in Inghilterra, e della sua storia d’amore buffa e tormentata con un musicista di Londra. Libera nei toni, nelle durate, nell’ironia, nella rappresentazione delle identità, la serie scardina gli stereotipi senza lezioni, concretamente (per esempio nell’attrattività sessuale di una donna dall’aspetto non normativo né armonico). La lotta corpo a corpo tra l’aspetto scewball/romantic e quello anti-convenzionale finisce a volte fuori giri, ma funziona per la sua estraneità alla serialità algoritmica.
MOBLAND
C’è l’impronta dell’inarrestabile Guy Ritchie anche su questa godibile serie gangster di Paramount+. La storia è a dir poco basica: una famiglia di feroci criminali di origine irlandese (gli Harrigan) combatte a Londra una faida senza quartiere per il controllo del potere, in una spirale di agguati e vendette che coinvolge varie generazioni. Il propellente per il godimento di MobLand è quasi esclusivamente nelle variazioni di genere, nella brutalità delle azioni, nel cast divertente e divertito (Tom Hardy giustamente immoto e imploso lascia a Pierce Brosnan ed Helen Mirren i fuochi d’artificio recitativi). Si aggiunge una versione clamorosamente patriarcale della famiglia (quasi una tragedia elisabettiana volutamente pop e kitsch), che avrebbe bisogno di uno psicanalista ma risolve le grane freudiane con le pistole.

DIAGONALI E SERPENTINE CINEFILE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

28 ANNI DOPO
Chissà se il maiuscolo esito del terzo (e non ultimo) capitolo della “saga della rabbia” va attribuito più a Danny Boyle o ad Alex Garland. Il secondo è maggiormente indiziato per la sua clamorosa crescita dimostrata negli anni (unico vero autore di fantapolitica di questi tempi) ma al primo – forse – si deve la cosa più importante: la costruzione di un’estetica, Sì, perché – vezzi postmodernisti a parte – ciò che colpisce fortissimo di 28 anni dopo è il formidabile “look” ibrido che mescola visivamente folk horror, body art, prog rock, glam, con un occhio a The Wicker Man e uno alla serie I sopravvissuti (1975-77). Oltre al godimento stilistico si aggiunge anche una visione primitivista del gruppo dei “rabidi” con un’interessante evoluzione (o involuzione) interna. Sinceramente una sorpresa.
ELIO
Dopo questo gioiellino è diventata un po’ più chiara la strategia Pixar. Non ci sono solo prototipi e sequel, ma anche una division paragonabile ai B movies degli studios anni Quaranta. Dopo Luca e soprattutto il bellissimo Red, tocca a Elio. Un racconto a rotta di collo nella tradizione della fantascienza, tra Incontri ravvicinati, Explorers, Star Trek (e in particolare L’ira di Khan), Ultimatum alla Terra e tanti altri titoli, in grado anche di suggerire un discorso politico anti-bellicista e formativo (sulla libertà dei figli di non essere come i genitori li progettano). Dietro a tutto ci sono menti acuminate come Adrian Molina, Domee Shi, Madeline Sharafian, Julia Cho, autori di seconde generazioni, invisi a Trump e che speriamo la Pixar continui a coltivare fregandosene della crociata contro il politicamente corretto.
TUTTO L’AMORE CHE SERVE
Non sappiamo se Laure Calamy possa essere considerata una vera e propria star. In questo caso, ci troveremmo di fronte a un classico star vehicle, pur travestito da melodramma con venature sociali. Visto nell’ottica hollywoodiana, il ruolo di una mamma che deve capire faticosamente come lasciar andare per la sua strada il figlio adulto con problemi di disabilità mentale, sospesa tra desiderio di un futuro personale e sacrificio materno, permette un tour-de-force attoriale nel quale si esaltano tutte le doti che le conosciamo: umanità, ironia, generosità, erotismo, sensibilità. Non un capolavoro, ma mica devono puntare tutti ad esserlo.
TRE AMICHE
Il modello rohmeriano (e anche quello di Marivaux) rimane potente nel cinema francese – ma non solo (si pensi ad Haugerud in Norvegia). Mouret sa come si fa, e tanto basta a separarlo da altri velleitari. Le tre amiche del titolo negoziano con la vita e con il sentimento amoroso ognuna a modo proprio, relazionandosi l’una all’altra e misurando per diagnosi differenziale l’aspirazione alla felicità. In più, c’è un’altra misura, che è la mortalità, qui persino direttamente messa in scena, con una strategia narrativa che ricorda l’obliato Il fantasma innamorato (1990) di Anthony Minghella. Un cinema che si autoimpone la marginalità, la quotidianità, la precisione minimalista e che come tale va apprezzato (senza farne a tutti i costi un testo filosofico).
IL MAESTRO E MARGHERITA
Mettiamo le mani avanti. Massimo rispetto per Mikhail Lockshin, che ha preso un classico e lo ha cocciutamente portato sullo schermo mostrando come un romanzo libertario e anti-stalinista possa ancora oggi – o soprattutto oggi – spaventare la metamorfosi del regime operata da Putin. Detto questo, il bric-à-brac intellettualistico tra realtà e finzione, romanzesco e onirico, letterario e teatrale, somiglia pericolosamente al peggio dell’auto-riflessività post-post-moderna (leggi: Joe Wright, il nadir del cinema contemporaneo). Snervante e fintamente poetica, la nuova versione di Bulgakov fa rimpiangere il Maestro di Tognazzi e di Petrovic, già di suo piuttosto impotente.
LE ONDE DEL DESTINO
Ancora un von Trier d’annata che torna nelle sale, in un’operazione intelligente e ben strutturata. Opus magnum dell’autore danese, almeno per quanto riguarda la sua affermazione internazionale, Le onde del destino era appena al di qua dei momenti più esagerati della poetica trieriana, ma già abbastanza prepotente da affermarsi con forza in un panorama europeo segnato dal realismo sociologico. Un mélo smaccato, un Sirk nordico con misticismi assortiti, una vicenda di sacrificio “dogmatico” e osceno al limite della santità febbricitante, un tableau vivant in capitoli introdotti da altri tableaux vivants. Tutto però ruota intorno a una figura stilistica essenziale, i primi piani di Emily Watson, indimenticabile mentre viene inquadrata da una macchina da presa che oscilla come su un peschereccio. Certo, il sadismo sessuale verso Bess e verso il femminile trent’anni dopo suona un po’ sinistro.

RITORNI DI IMMAGINE E IMMAGINI CHE TORNANO
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BALLERINA
Il mezzo flop di Ballerina coinvolge box office e valore del film, a dimostrazione che (al contrario di quel che si crede) l’azione – come la gag comica – è un campo difficile e teorico. L’universo John Wick ha portato il dinamismo violento a limiti parossistici, in una strana zona astratta dove il linguaggio videoludico coabita con Buster Keaton (anche qui debitamente citato). Con Len Wiseman, regista da sempre blando e privo di furia visiva, l’impressione è di un downgrade cinetico, che coinvolge tanto le coreografie quanto i corpi. E la mitologia narrativa non ha il respiro per colmare le lacune nella filosofia del movimento. Purtroppo anche Ana de Armas non trova la cifra giusta, impacciata a più livelli (era materia per Charlize Theron, probabilmente, ma intuiamo i problemi anagrafici e di statuto della star). Anche se c’è un cliffhanger, sarà difficile assistere a un sequel di questo spin off.
KARATE KID: LEGENDS
Strapazzato dalla critica, il riallineamento industriale del Karateverse ha forse come colpa principale quella di volare basso. L’estetica è di un Peter Parker in minore, del resto citato nei dialoghi, mentre la New York di quartiere oscilla tra graffitismo teen e scenario da dance squad. Alla fine, però, questo feel good movie da prima media non sembra di per sé sbagliato. I buoni e i cattivi sono sempre gli stessi di sequel in sequel, le facce nostalgiche non mancano, e il Jackie Chan incanutito muove a simpatia. La materia narrativa è pure troppa (pensiamo alla storia parallela del pizzaiolo boxeur allenato dal piccolo kung fu master), ma viene svolta in 90 minuti spicci, senza menare il can per l’aia. Un cinema estraneo a tutto tranne che a sé stesso.
L’AMORE CHE NON MUORE
Classica buccia di banana per la cinefilia: premiare la generosità, ma fino a che punto? Certo, è verissimo che Lellouche sembra possedere un grande cuore: mostra di aver divorato tonnellate di cinema francese (e non solo); di perseguire scientemente una storia di passioni, viscere, violenza ed erotismo; di guardare tanto allo stile di Beineix quanto al polar. Ma tutto sa di giustapposizione, di qualcosa cui paradossalmente mancano proprio lo sguardo e la competenza cinefila per pompare propano dentro un marchingegno confusionario. E alla fine persino Adèle Exarchopoulos non riesce a fare quello che ha fatto in Generazione Low Cost, Mandibules, Bac NORD, Passages, ovvero trasferire di film in film un’alterità assoluta e una inappartenenza dolorosa al mondo. Lellouche si fa trovare troppo “dentro” al giocattolo e alle silhouette.
VOLVERÉIS
Rovescio della medaglia del film di Lellouche. Qui la cinefilia diventa teoria del cinema, nessuna concessione allo sperdimento nel visionario, bensì una costruzione narrativa che reca con sé la bibliografia (si citano Stanley Cavell e la sua filosofia della commedia del rimatrimonio, il regista – Trueba figlio – fa interpretare il padre al vero Trueba padre, i personaggi vanno sul set di Dieci capodanni di Sorogoyen, i protagonisti fanno film e parlano di film, e così via, in pieno meta-cinema). Irritante? Non si può negare del tutto. Però qui sì che c’è competenza della grammatica affettiva, comprensione dei meccanismi narrativi, umanesimo diffuso, un “partito preso” di messinscena, seppur apparentemente dimesso. Perché alla fine, quel che conta è se la commedia sentimentale funziona e se ha una filosofia di vita. Due sì.
BALENTES
Sta circolando in tour, essendo impensabile una tenitura fissa nei cinema, il nuovo lavoro di Giovanni Columbu, come al solito a vari anni di distanza dal precedente (Surbiles, 2017). Primo film di animazione della sua filmografia – rarefatta, spartana, sospesa tra documentario etnografico e finzione -, Balentes racconta un’impresa di epica anti-fascista sarda, mescolata con la fiaba da caminetto. Grazie a un semplice rotoscopio, Columbu anima un universo orale che necessita di pochi tratti – anche se i disegni sono tantissimi, bellissimi, ed è evidente quanto tempo gli sia stato necessario per mettere insieme quest’ora e dieci di narrazione animata. L’arcaico, il religioso, il mitico e il moderno storico interagiscono: la scelta della distanza di scala rispetto alle figure che vediamo permette di osservare meglio il piano e lo spazio e di porre l’occhio come a un kinetoscopio. Coraggioso.
PREDATOR: KILLER DEI KILLER
La linea tracciata da Dan Trachtenberg (qui coadiuvato da Joshua Wessung), ovvero quella di portare il Predator in giro per la Storia, funziona per la seconda volta dopo Prey. Primo episodio animato della saga, non ha forse nel disegno (sia pure riuscito) il punto di forza, bensì in una struttura episodica che si salda nel finale e permette di spaziare fra vari generi, tra cui epico, avventuroso, esotico, storico. Tutto si gioca sul contrasto tra sproporzione delle forze in campo e capacità di colmarle grazie al coraggio e all’antichità delle grandi arti guerriere. Il target è poco più che adolescenziale; il cupo, adulto, esaltante fanta-horror alla McTiernan è ormai lontanissimo, di sequel in sequel; ma se non si vive di nostalgie, bisogna ammettere che il tassello minore del puzzle predatorio s’incastra con tutti i bordi giusti.
THE FOUR SEASONS
La comedy sembra stare meglio di altri generi, in questa fase di caotica transizione della serialità. Ispirato a un bel film di Alan Alda (che fa una comparsata mostrandosi anziano, fragile e tenero), The Four Seasons magari non riesce del tutto a trasportare nel nostro secolo gli umori sessuali e irriverenti della Hollywood fine ’70/inizio ’80 ma può contare su sguardi molto lucidi – a cominciare da quello di Tina Fey, che idea, scrive, dirige, interpreta. Non è un “one woman show” perché si gioca tutto sul collettivo, nel quale spiccano Colman Domingo e Kerri Kenney-Silver, altra comedian di razza. Funziona la malinconia di fondo, con il disinnamoramento, la mortalità e i dilemmi della mezza età al centro del discorso. Interessante anche il ribaltamento di sguardo sul cinquantenne vanesio (Steve Carell) in cerca di giovinezza: alla fine forse aveva ragione lui.
GOOD AMERICAN FAMILY
Chi pensa che ormai la categoria di guilty pleasure sia squalificata e indeterminata si deve ricredere. Good American Family ha tutte le caratteristiche del prodotto seriale con difetti spaventosi e momenti kitsch che non si riesce ad abbandonare. Qui, però, c’è qualcosa di più: un enorme caos ideologico. Concepito come un crime drama legato alla tragica storia di una bambina adottata e creduta adulta truffatrice (come nel film Orphan, peraltro citato esplicitamente), la serie – in cui hanno messo le mani anche personalità interessanti come Liz Garbus – si intorcina in modo sempre più delirante: manipola lo spettatore con una specie di Rashomon incoerente; rischia di sfruttare ignobilmente il corpo di Imogen Faith Reid (affetta da sindrome di Russell-Silver); ogni volta che ha l’occasione di volare più alto, si auto-confina in un’estetica da serie generalista inemendabile; gli attori vagano spaesati (Ellen Pompeo pronta per un Razzie), ecc. Eppure tutto questa confusione mentale e creativa non impedisce di scavare nelle contraddizioni sociali, legali e di fatto culturali americane – anzi la serie stessa e la sua scrittura diventano parte del problema. Molto affascinante.

IMPRONTE E VESTIGIA DI RACCONTI SERIALI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE LAST OF US 2
Con quale set critico dobbiamo guardare alla seconda stagione del prodotto di punta HBO? L’ossessione per l’adattamento fedele di certi passaggi del videogame sembra diventato un ostacolo più che una qualità, per una probabile incomprensione del campo d’azione potenziale tra un videogame che si nutre dell’immaginario zombi pre-esistente e una serie condannata ad essere “la miglior versione narrativa di un videogame di sempre” (siamo sicuri?). Inoltre, la scarsità delle varianti (i post-umani e le loro evoluzioni biologiche; l’erranza nell’America distrutta; la balcanizzazione delle tribù dei sopravvissuti) non pone scampo al senso di déjà vu generale, soprattutto nei confronti di The Walking Dead. Un finale di raro masochismo, poi, conferma che da questa serie c’è ormai poco da aspettarsi in futuro (indipendentemente dai suoi alti valori produttivi).
THE STUDIO
Blanda satira della Hollywood contemporanea, interessante per vari motivi. Il primo è che una serie da piattaforma (Apple) celebra sia pure sarcasticamente la grandiosità del cinema e mette al centro personaggi che parlano solo di grande schermo. Il secondo è che tra un blockbuster e Boris i problemi sembrano gli stessi. Il terzo è che anche lo stile è “cinematico” (piani-sequenza, grana da pellicola, location originali, cura maniacale in controtendenza rispetto alle altre comedy da mezzora). Tante contraddizioni curiose, insomma, e alcuni momenti esilaranti, principalmente grazie alla testa di Seth Rogen e alla presenza strepitosa di Bryan Cranston.
DYING FOR SEX
Interessante ribaltamento di eros e thanatos. Normalmente si parte dal primo per scoprire poi che il secondo è in agguato (da Freud a Hitchcock le cose stanno così, forse Cronenberg ha rovesciato il tavolo tra i primi). Qui, in una dramedy da bundle Disney+, si parte da thanatos (una diagnosi tumorale che non lascia scampo) e si costeggia la sessualità, in una ricerca del piacere troppe volte perduto, da assaporare proprio mentre il corpo svanisce. Certo non manca il coraggio a Dying for Sex, e alla protagonista Michelle Williams. Nuocciono solo alcuni vezzi da prestige TV, alcuni siparietti visionari inguardabili, e una generale corsa al weird che a volte pare dimostrativa. Ma è un esperimento riuscito, in linea con tempi in cui dobbiamo re-imparare a gestire l’idea della morte e della finitezza.
BLACK MIRROR 7
Nulla che cambi la percezione delle ultime stagioni. Black Mirror rimane preziosa perché è l’unica fantascienza non apocalittica, non millenarista, non distopica, capace di ragionare sulle trasformazioni della società in un futuro non troppo distante. Tenendo al centro elementi tecno-scientifici, ne proietta le ombre sulla nostra esistenza pesantemente mediatizzata. Al solito, ci sono episodi più riusciti di altri (il primo, il secondo e soprattutto il quinto, Eulogy) e coma sempre i finali rappresentano il più grosso problema di Charlie Brooker in sede di scrittura. Tuttavia, non avendo un Twilight Zone dei nostri tempi, accontentiamoci di ciò che gli si avvicina maggiormente.
DAREDEVIL – RINASCITA
Dopo il tentativo non disprezzabile dell’era Marvel/Netflix, Disney+ recupera l’eroe più amato di allora e gli dà un futuro, incastonandolo nella mestissima fase 5 appena conclusa. In quest’epoca di strani ibridi streaming con stile da TV generalista, Daredevil non sfigura, anche se sacrifica molto dei due nemici (Murdock e Fisk) per buona parte della stagione. Non ci fosse stato l’eccellente The Penguin (universo DC) forse avremmo apprezzato di più le riflessioni su vigilantismo, città-stato, democrazie in pericolo, leader para-trumpiani, di questa specie di Gotham marvellizzata. Probabilmente Dario Scardapane ha lavorato più sulla scrittura industriale che sulla singolarità del personaggio.
1923
Si conclude in due stagioni il prequel di Yellowstone, con alcune indicazioni narrative importanti per la connessione inter-generazionale dei personaggi. Meno perfetta e struggente di 1883, 1923 ha dalla sua un chiarissimo progetto narrativo: il feuilleton d’avventure a puntate. Chi si lamenta degli eccessi di trama o della sovrabbondanza d’azione, si ascolti il dialogo in cui si cita Edgar Rice Burroughs: più chiaro di così. L’ibridazione tra western e avventura esotica, tra cinema di genere e serial muto alla The Perils of Pauline si esprime a livello elementare, epidermico, con passione pari solo alla voglia di esplorare la fondazione americana da parte di Taylor Sheridan. Le cui serie, a quanto pare, rimangono indigeste al critico medio democratico liberal. Eppure non dovrebbero, perché è l’unica alternativa non trumpiana che racconta l’America profonda di ieri e di oggi, e che cosa vuole dire MAGA per tanti cittadini statunitensi (fuor di propaganda).

VITE (IN)FINITE E CORPI CHE PARLANO
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
FINAL DESTINATION – BLOODLINES
La saga, ferma da anni, è notoriamente inesauribile: la Morte come nemico non scompare mai (un po’ come in Bergman e Allen, ma dentro il pop horror). Non ci si inventa nulla di nuovo, ma funziona tutto benissimo, anche grazie a una sana ironia che permette di superare il senso di déjà vu e di evitare la sensazione di un ritorno spompato. Si aggiunga uno straziante addio di Tony Todd, già visibilmente malato, e per il fan del mainstream horror (in piena crisi) l’orizzonte si rischiara. La filosofia di fondo si fa ancora più potente: visto che moriremo tutti, Final Destination altro non è che un racconto antropologico sulla nostra ansia nel posporre quel momento.
THUNDERBOLTS*
Ormai in completa confusione progettuale, il MCU chiude mestamente la sua fase 5 cercando di lanciare nuovi e vecchi personaggi in un club di “new avengers” parodistici ma gagliardi, con l’occhio rivolto esclusivamente al botteghino da tenere vivo. Pur stendendo un velo pietoso sullo humour insipido e su processi di (ri)scrittura infiniti che separano la Marvel dagli accadimenti del mondo reale, i punti a favore sono pochi – tra questi il dolente incenerimento delle vittime civili, unico aspetto iconografico in grado di uscire dalla goliardia e dare un qualche significato all’etica del superpotere. Per essere una transizione, è davvero lunga. Mai disperare: la fase 6 ci dirà se si risvegliano o stramazzano.
LOVE / SEX
Approfittiamo per chiudere la trilogia di Haugerud con gli altri due titoli non ancora recensiti. Love è una struggente disamina delle forme erotiche e discorsive dell’attrazione, le cui grammatiche vanno sempre reinventate, sullo sfondo dell’architettura parlante di Oslo. Sex sembra ricordarsi, oltre che di Rohmer, anche del sottovalutato periodo del mumblecore americano. Sempre i corpi sono al centro dei fiumi di parole che si scambiano i personaggi. Definirsi e definire senza giudicare, sembra questa la lezione etica dei tre lungometraggi, che hanno nella loro quieta naturalezza la loro forza. E in fondo, questi racconti morali aprono oasi tutt’altro che apolitiche nel contesto contemporaneo.
BIRD
Che Andrea Arnold sia un’autrice con i fiocchi non lo scopriamo oggi. Pur lontano dalle vette animaliste e post-umane di Cow (ipotesi-cinema davvero radicale), Bird insiste sull’affresco degli esseri viventi in condizioni esistenzialmente liminari. L’idea è che, man mano che gli strati sociali si avvicinano alla sopravvivenza (o al comportamento) animale, ci accorgiamo più chiaramente della nostra prossimità al regno naturale. Da una parte, quindi, precisione descrittiva delle classi subalterne, dall’altra astrazione percettiva verso un’animalità del sentire e del vedere. La scrittura, però, non è altrettanto lucida e la parte finale (simile per certi versi al fiacco The Animal Kingdom) scopre il fianco a retoriche poco coerenti col resto.
PATERNAL LEAVE
Qualcuno chiami il time out sulle ambientazioni provinciali da mare d’inverno o da periferia malinconica. Anche se, per essere un piccolo film italo-tedesco, è un colpaccio avere la star del momento (Luca Marinelli), nei panni di un padre inaffidabile, raggiunto dalla figlia adolescente abbandonata da neonata e mai di fatto conosciuta. La bravura dei due attori protagonisti nel delicato confronto sembra ribellarsi alla piattezza psicologica dei caratteri e della storia, i cui temi (la consanguineità, l’omosessualità, la paternità, lo scarto generazionale, l’immaturità) provengono da un catalogo risaputo e stereotipato. Non aiutano simboli vistosi. come gli ennesimi fenicotteri. Accontentiamoci almeno della masterclass attoriale. E però: ma che cinema è, questo? A chi appartiene e chi si incarica di rappresentare?
Alla prossima volta!

APPARENZE, RIVELAZIONI, VOLTI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
BLACK BAG

A parte l’ormai sorprendente evoluzione di Fassbender a corpo spionistico (vedi anche The Killer e The Agency), siamo di fronte all’ennesimo mini-congegno di Soderbergh per prendere le misure del presente americano. Tecnologia e denaro, caccia all’uomo e psicanalisi si intrecciano in un (in)gorgo paranoide che funziona a primo livello come un thriller da piattaforma (ma fatto bene) e a un secondo livello come una commedia sentimentale cinefila. L’Hitchcock rosa, il jeu de massacre verbale di Pinter, il techno-noir di De Palma si intrecciano in qualcosa di straordinariamente mentale. Qualcosa di cui non ti accorgi, perché ha quella trasparente sottigliezza che diventa all’improvviso un vetro oscurato (come accade in una scena-chiave).
I PECCATORI

E chi se lo aspettava un exploit di questo tipo da Ryan Coogler? Ottimo regista, per carità, soprattutto grazie a Creed (per chi scrive, grande gesto politico di “slittamento” di una saga bianca alla riconfigurazione black). Forse per uscire dal washing afro della Disney con gli annacquati Black Panther, Coogler radicalizza la sua visione della cultura razzista americana. Mescolando musical, horror e gangster movie con grande fluidità, immagina un blues separazionista al contrario, dove una situazione curiosamente non dissimile (mutatis mutandis) a Jimmy’s Hall di Loach innesca forti tensioni sociali ed etniche. Sontuoso, corporeo, sanguigno con lampi di ironia. La visione è forse fin troppo incompromissoria. Ma chi siamo noi per lamentarci?
C’EST PAS MOI

Carax godardeggia? Fino a un certo punto, anche perché l’autore sembra perfettamente consapevole dell’influenza di Histoire(s) du Cinéma, esplicitandola. Ma qui la riscrittura di sé stessi e la riflessione storico-critica assumono aspetti penetranti e particolari (si pensi alla terrificante favola dello sterminio raccontata dalla mamma ai suoi bimbi). Per il resto, c’è un godimento innegabile nel flusso di immagini, tra auto-remake e found footage, video-essay e rimuginante teoria dell’immagine. Il formato da mediometraggio è perfetto, sebbene l’apparente natura centrifuga scoraggi l’idea di un minutaggio chirurgico. Si vede su IWonderfull e in poche sale selezionate.
SILENT TRILOGY

Chi come il sottoscritto lo ha visto con accompagnamento live lo ha esperito nel modo giusto. Ovviamente per una distribuzione più ampia (del progetto Cinema Ritrovato al Cinema), non era possibile. In ogni caso, la trilogia di corti muti (girati durante vari anni) aiuta una volta di più – dopo Hazanavicius, Kaurismaki e altri – a rilanciare in sala di prima visione il linguaggio del cinema senza parole. Certo, tutto rischia di sembrare una celia, e non sempre in Juho Kuosmanen si percepisce una profonda conoscenza dello spirito più puro del silent cinema, ma il viaggio vale anche solo per il sentimento della curiosità.
IL QUADRO RUBATO

Dio benedica Pascal Bonitzer. Critico, teorico, sceneggiatore, regista, ossessionato dall’impurità pittorica del cinema (si legga il suo Décadrages di 40 anni fa, tuttora brillantissimo). E di pittura si parla anche in questa vicenda di un dipinto perduto che si finge di ritrovare (I girasoli di Egon Schiele, dato per disperso nel 1939). Il mistero artistico gli interessa, le figure umane che ci girano intorno di più. Bonitzer esprime una pratica cinematografica flagrante, “parole et image”, e mentre tutto scorre come brezza s’infilano temi storici possenti e sfumature umane profonde. Una specie di “studio sul personaggio” tipico della sua filmografia, che tradisce il consueto legame con l’autore per il quale ha lavorato per anni, Jacques Rivette.
“QUEER” TRA BURROUGHS E GUADAGNINO
“Queer” è un’operazione estrema rischiosa, letteraria da parte di un cineasta totalmente padrone del suo cinema mentale.
MASCHERE, CLONI, FANTASIE
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MICKEY 17

Aleggiava un’aria di flop intorno al nuovo Bong post-Parasite e, dopo molti rimandi, così è stato, anche se non catastrofico. Bisogna resistere alle opposte tentazioni di farne un gioiello sovversivo per motivi di politique des auteurs o al contrario di lapidarlo con una sassaiola di risatine. Il talento del coreano è tale che ci sono più idee iconografiche e narrative qui che in tutta la filmografia di Walter Salles, tuttavia non si può negare che il progetto cinematografico sia a dir poco appannato, la satira snervante, i temi del doppio, del capitalismo e del futuro “marxiano” ampiamente e meglio esplorati da Scott, Sonnenfeld, Verhoeven, per tacer di Kubrick. Peccato anche per gli attori fuori controllo, in primis Ruffalo con accenti vagamente (e inopinatamente) trumpiani. Lo rivaluteremo? Chissà.
LA CITTÀ PROIBITA

Con un budget sontuoso e un progetto nitido, Mainetti si conferma cineasta con i controfiocchi. Provate a mettere in mano il kung fu a qualche altro collega italiano pulp (non facciamo nomi) e avrete una pecionata da pacche sulle spalle per il divertimento de noantri. Mainetti fa il contrario del solito: parte da un contesto teverino e coatto e dimostra che può diventare epico. Fa con i generi non autoctoni ciò che Sollima fa con il polar. I grossi problemi di scrittura (la benzina nella motivazione dei personaggi è svelata solo alla fine, depotenziando il lato revenge; la mamma interpretata da Ferilli si perde per un terzo di film; le sotto-trame annacquano tutto) sono un fardello mica da poco per poter applaudire in piedi. Applaudiamo seduti, specialmente i combattimenti (e la protagonista Yaxi Liu).
DREAMS

Terzo atto di una trilogia (di cui vedremo nei prossimi mesi anche gli altri capitoli), nonché Orso d’Oro a Berlino 2025, il film del norvegese Dag Johan Haugerud ha nella sottigliezza e nell’impianto narrativo le sue qualità migliori. Come se Rohmer si fosse risvegliato in nord Europa e avesse cercato di osservarne i mutati costumi sociali e sessuali, Haugerud attribuisce la voce narrante a una teen ager profonda ma inaffidabile (in quanto innamorata: nessun innamorato riesce ad essere lucido). Intorno ci sono tre donne: la mamma malinconica, la nonna dal passato libertario, l’insegnante idealizzata. Si misura tutto sul corpo e la sua aisthesis ma ne vediamo solo delle parti, mai intime, coperte da abiti che riparano dal freddo intenso. Si parla incessantemente. E uno psicanalista alla fine dice: non è successo nulla di originale, è solo amore. Un grande racconto su quel quasi niente che ci cambia le vite da giovani.
A DIFFERENT MAN

Mentre si farnetica sul “marchio A24” perché va di moda tirare contro i presunti fighetti, noi qui a bottega continuiamo a guardare i film e gli autori. E Aaron Schimberg, al netto di qualche arroganza, si conferma dopo Chained for Life del 2019 come un regista dalle idee chiare. Spiccano le sinuose influenze (Lynch, of course, ma anche Polanski), le assonanze (con certe isterie di Beau ha paura) ma quel che conta è il tono sospeso tra commedia, b-movie sci fi e apologo sulla diversità. Quando, nella seconda parte, le maschere si invertono e il film commenta se stesso e la nostra misurazione del deforme, si dicono cose molto più serie di quanto sembra. Colonna sonora ritagliata e coltissima dell’italiano Umberto Smerilli.
L’ORTO AMERICANO

Al 55esimo film, Pupi Avati incontra il bianco e nero. E lo usa per una storia tra oscurità provinciale e orrore nebbioso, ambientata nel dopoguerra tra America ed Emilia. Per chi ama l’Avati “gotico contadino” qui ci sono ulteriori evoluzioni. Tra gli echi di Tourneur, i raccapricci anatomici, i riferimenti a Wiene, e le finestre che non ridono più (ma fanno lo stesso paura), il racconto diventa via via sempre più cupo e rapinoso. Certo, tutto passa attraverso un fulmine d’amore, e anche questo conta, nell’universo degli affetti avatiani. Alla fine, grazie alla riuscita ritrattistica antropologica del Po e alle ombre che sussurrano nel paranormale, il vero modello si staglia ben preciso: Edgar Allan Poe.
IL CASO BELLE STEINER

Tratto da un Simenon già portato sullo schermo in passato grazie a Molinaro, un giallo dei non detti su cui gravano storie extra-set che è difficile scacciare dalla mente durante la visione (Jacquot e le accuse di stupro da parte di più attrici, in un #metoo francese che mette i brividi per le violenze scoperchiate). Proprio per questo, il protagonista reticente, irritante e apparentemente mite appare insopportabilmente colpevole, anche se il film si guarda bene dall’offrire sponde facili e gioca (un po’ manipolatorio) sull’ambiguità di fondo. Un cinema del trapassato remoto, che ha l’aria di maneggiare questioni terribili per le quali si scopre inadeguato.
THE BREAKING ICE

Dal Certain Regard di Cannes, il nuovo lavoro di Anthony Chen ruota intorno a un ménage a trois abbastanza tradizionale, arricchito da un contesto paesaggistico anomalo, neve e ghiacci sul confine tra Cina e Corea del Nord. Chen è il tipo di regista che tende a sottolineare il più possibile proprio mentre dà l’impressione di fare il contrario, ovvero sfiorare sentimenti delicati e impalpabili. Una volta fatti i conti con questa apparente contraddizione, il piacere della visione si intensifica e la pur ovvia oscillazione tra i palpiti bollenti dei cuori e lo scenario raffreddato seduce e qua e là commuove.
ERESIA E SACRALITÀ DELLE IMMAGINI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
IL SEME DEL FICO SACRO

Non mentiamo: la paura di trovarsi di fronte a un tipico film-ricatto (opera mediocre ma realizzata da un autore coraggioso perseguitato dal regime e dunque impossibile da criticare) c’era. E la sensazione di schematismo emerge qua e là fino a metà racconto, poi nell’ultima ora Rasoulof scatena un cinema di rara e immaginifica potenza, spazzando via ogni dubbio. Pescando sia dal cinema della paranoia americana degli anni ’70 (sembra quasi di vedere Pakula o il Coppola di La conversazione) sia dal cinema politico di Güney o Panahi, l’autore iraniano inventa una prigione di famiglia patriarcale e un labirinto a cielo aperto che lasciano di stucco. Senza dimenticare che è anche un grande meta-film su quali scelte di set si possono fare quando si gira clandestinamente.
DICIANNOVE

Sorprendente ed elettrico esordio di Giovanni Tortorici, da cui attendersi parecchio in futuro. Storia imprevedibile di un giovane “alieno al suo tempo”, irritato dall’intera eredità del Novecento e in cerca di solidi approdi morali nell’italianistica storica. Le parole e ciò che designano, oscillando tra il Trecento e la trap, sono la materia con la quale l’autore ritrae un ragazzo fragilissimo e arrogante, aperto alla vita ma chiuso alle relazioni codificate. Parente un po’ morboso del coetaneo di Troppo azzurro, Leonardo conquista per autenticità e isteria, una specie di hikikomori siciliano in trasferta a Siena. La somiglianza dell’attore con Lou Castel è un indizio, lo scarso amore del personaggio per Pasolini una falsa pista che dice il contrario. Il coming of age è scomposto (durava tre ore e 40, Tortorici lo ha tagliato a 1 ora e 45 facendo esplodere rigeneranti ellissi e squilibri divertenti) ma lucidissimo.
FOLLEMENTE

Da una parte bisogna ammirarlo, Paolo Genovese. Da una parte non ha paura di copiare di sana pianta (da Inside Out), confermando l’insopprimibile natura bis e artigianale del nostro cinema, dall’altra riesce nuovamente a creare un prototipo di successo esportabile e vendibile come format. Tolti i panni degli analisti industriali, però, le belle notizie finiscono qui. La coppia uomo/donna obbedisce a stereotipi conservatori e ovvietà da Maria De Filippi, i meccanismi maschilisti e i bias non si contano (è sempre la donna in fondo ad adattarsi: all’uomo più vecchio, al calcio su DAZN, all’eiaculazione precoce, alla sua figlia capricciosa) mentre i personaggi mentali rappresentano un immaginario medievale – oltre che, per i maschietti, simile a una RSA. Un film brutalmente binario, per un’Italia sentimentale che osserva sé stessa avulsa dalla società e immutabile (confrontare Follemente con la coppia di Dieci capodanni per misurare il disagio).
A REAL PAIN

Gli americani in Europa devono misurare sé stessi a lo stato della nazione, come chiarito da Eastwood nel suo rosselliniano Ore 15:17. I due cugini ebrei statunitensi, uno più incasinato dell’altro, alle prese con la memoria della Shoah durante un viaggio in Polonia, fanno i conti con esistenze qualsiasi e con una Storia più grande di loro. Peccato che la Storia, oggi, non significhi nulla: i simboli sono svuotati, se non divorati dalle trasformazioni urbane. Restano gesti rituali, ma a volte nemmeno appoggiare un sasso davanti a una porta in uno squallido cortile viene tollerato. Con una scrittura di straordinaria sottigliezza analitica, Eisenberg offre un ritratto pessimista delle funzioni simboliche della memoria e della curabilità del dolore (quello vero, appunto).
HERETIC

Due modi di guardare a Heretic. 1. Valutazione industriale: ottima. Si tratta di un horror psicologico sagacemente a basso costo, che valorizza un solo set, un ottimo attore in contro-ruolo e la fotografia eccezionale del maestro Chung Chung-hoon. 2. Valutazione interpretativa: di che diavolo parla il film? Sembra una resa dei conti tra svalvolati religiosi (le due predicatrici dei Mormoni e lo psicopatico eretico che vuole essere Dio) con un finale ambiguissimo che offre un assist alla destra cristiana. Visto con gli umori di questi giorni, invece, potremmo leggerlo come un racconto su che cosa succede quando vivi di ideologie irrazionali e poi, ops, ti trovi alla mercé di un vero dominatore pazzo (nell’allegoria, le ragazze sarebbero l’Occidente e Hugh Grant sarebbe Trump).
L’ANGELO AZZURRO

Quando escono i classici restaurati, il rischio è sempre di rivederli, impacchettare le valigie e lasciare il cinema dicendo “vabbé, salutiamo tutti e d’ora in poi guardiamo solo questi”. Poi si razionalizza e si torna all’oggi. Però il capolavoro di Von Sternberg rimane clamoroso. Capace di farsi esempio universale di storia di autodistruzione, L’angelo azzurro rivisto adesso enfatizza la sua natura sospesa tra post-espressionismo, sperimentazione sul suono in epoca di superamento del muto, premonizione di una catastrofe sociale e storica in arrivo. Per non parlare di un lato Freaks (inteso come Browning, ovviamente) che lo sospinge nell’area del weird cult quando meno te lo aspetti. In una parola: irriducibile.
L’ORDINE DELLE IMMAGINI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
CAPTAIN AMERICA: BRAVE NEW WORLD

Non sappiamo se questo pigrissimo e poco ispirato capitoletto col nuovo Captain America sia così dimesso perché serve a imbastire una riorganizzazione Marvel o se la crisi di creatività plateale del MCU prosegua imperterrita. Certo, tra le sorprese già ospitate dal trailer e uno stile quasi da soap opera del primo pomeriggio, ogni elemento “erogeno” del cinefumetto viene raffreddato e depotenziato. Persino il Red Hulk che ruggisce sulla Casa Bianca in rovina (quale metafora più adatta all’oggi?) è un’immagine potente ma quasi nascosta tra le pieghe di un lavoro che risente dei lunghi tempi di lavorazione e di un cast svogliato. Ci vorrà ben altro per i nuovi Avengers, che per di più atterreranno in un mondo politicamente stravolto (che fatica per il cinema inseguire novità che cambiano a ogni ora).
THE GIRL WITH A NEEDLE

Mettiamo subito da parte i pregiudizi morali. Non è l’eventuale estetismo il problema del Novecento oscuro e repellente di Van Horn. Casomai è la cosa più attraente, perché un autore danese formalista, citazionista, provocatorio, estetizzante qui a bottega interessa mille volte di più di qualsiasi Walter Salles. Ma non tutto luccica. ed è un peccato non aver spinto l’intera texture sul bellissimo “horror feuilleton” della prima parte, in un’Europa post-Prima Guerra mondiale dove i reduci feeak e la povertà più nera danno vita a un mondo inaccettabile. Tutta la vicenda dell’assassina di bambini, invece, ingolfa il progetto, anche se poi il finale riapre una finestra mélo non banale. Una volta si diceva “interessante” per salvarsi in corner. Ecco: interessante.
IO SONO ANCORA QUI

La solita tassa che paghiamo al cinema d’impegno civile e al cinema da festival. Walter Salles si conferma cineasta con precisi limiti (probabilmente auto-imposti), testardamente interessato a racconti esemplari serviti con schematismi narrativi e retoriche stilistiche binarie, didascaliche e ridondanti. Chi (a parte Trump, Putin e Bolsonaro) potrebbe aver da ridire rispetto al messaggio contro le dittature che la storia di questa donna-coraggio brasiliana ci tramanda? Ma nel 2025 non è pensabile insistere su film-dossier di questa prevedibilità, dove niente ha la forza drammatica o lo “scandalo” umano della libertà che se ne va.
BROKEN RAGE

Dio protegga Takeshi Kitano. Ormai relegato nella nicchia cinefila e lontano dalle ampie distribuzioni d’essai di un tempo, l’irriducibile autore giapponese si ripresenta con un racconto di un’oretta. La prima metà è (sarebbe) uno yakuza movie, la seconda è la sua versione demenziale. Diciamo sarebbe perché – come notato anche da Marcella Leonardi – ci troviamo di fronte a due film comici, in verità. Il primo è la rarefazione glaciale delle già tipiche “gangster gag” di Kitano – che chissà come, riuscì all’epoca d’oro a mettere insieme umori di Melville e di Tati. La seconda rispetta i codici del Kitano “banzai” slapstick, con un paio di momenti ben oltre l’esilarante. Siamo fuori da ogni confine, nel mare aperto di un cinema personale che si reinventa ridendo a crepapelle.
BABYGIRL

Per carità, benissimo detestarlo o non trovarci nulla di eccezionale. Purché non si insista che si tratta di un raffinato thriller che ha smarrito la strada. Ma quale thriller. Non c’è una sola sequenza che non sia satirica, deformata, inquinata, inversa, o che vada presa alla lettera. Tutto Babygirl è una anamorfosi. Una parte è un’analisi divertita dei guai in cui ci si caccia quando si insegue un desiderio sessuale poco tollerato dalla società (anche in epoca di sessuologia woke); un’altra è un meta-film su Nicole Kidman, sul suo statuto di celebrity, sui gossip intorno al suo aspetto “chirurgico”, sulla sessualizzazione del suo ageing. Per fortuna la giuria di Venezia è stata più avanti di tanti critici, e ha capito che cosa ha fatto l’attrice, premiandola.
UNA VIAGGATRICE A SEOUL

Hong Sang-soo distribuito! Evvai. Certo non sarà facile per i meno avvezzi “abitare” questo racconto molto lieve e molto matto su una francese che non si sa perché si trova in Corea, non si sa come riesce a diventare insegnante della sua lingua per coreani agiati, non si sa in quale relazione sia con il ragazzo che la ospita, non si sa che cosa ha fatto prima e cosa farà dopo. Il tutto attraverso 3-4 macro-sequenze lunghissime a piano fisso, dove Rohmer si incontra a passeggio con Mazursky, senza nemmeno un’oncia di preoccupazione su che cosa si dovrebbe aspettare il pubblico. Adorabile.
DIVA FUTURA

Si oscilla tra la soddisfazione di vedere finalmente raccontato il porno italiano (qui e altrove) e la sensazione che ancora la chiave (ehm) non si sia trovata. L’osceno resta osceno, si può solo alludere (ma: o troppo o troppo pop-porno). L’orribile verità delle luci rosse sembra una chimera, sfuggente come un orgasmo fake davanti alla camera. La storia di Schicchi è un po’ il solito Groenlandia-movie su un tipo che si inventa un mondo spettacolare e rovescia l’Italia bacchettona, e un po’ un requiem su un Paese cattolico dove le contraddizioni sul corpo e le sue rappresentazioni sono troppo radicate. Nessuno dei due funziona, anche per una struttura narrativa sballata. Sarà per la prossima.
THE ORDER

Direttamente in piattaforma un titolo in concorso a Venezia 2024. Non cadiamo nel giochino “ci doveva stare/non doveva essere selezionato”. Diciamo solo che James Gray (di cui si è fatto il nome) è lontano anni luce. E, nella sua rude trasparenza, non eguaglia nemmeno altri “thriller con neonazisti” come Dead Bang del grande John Frankenheimer. Justin Kurzel tende sempre a evocare “cinemi” che poi regolarmente si stemperano nella convenzionalità. Forse ci sarebbe voluto un Craig Zahler per fare davvero male. Certo non aiuta un Jude Law tutto maledettismo e occhi stralunati. Alla fin fine: da piattaforma.
UNA BARCA IN GIARDINO

Che periodo fantastico per l’animazione. Capita persino che un animatore 86enne come Jean-François Laguionie giri proprio adesso il suo miglior film. Si tratta della storia di una ossessione quasi casuale, costruire una barca dentro un cortile di una casetta in provincia. Un kolossal in piccolo, un lavoro di bricolage che diventa troppo grande, fino a che – senza eccessi o piagnistei – quello spazio e lo spazio domestico/famigliare si confondono e si inclinano (o incrinano). Sguardo asciutto ma commosso sulla famiglia, una molecola di Paese e di generazioni narrata con un tratto ceruleo, lineare, bello, tipico di questo autore.
FORESTE DI SEGRETI NARRATIVI
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi
L’UOMO NEL BOSCO

Il miglior film 2024 secondo i Cahiers du Cinéma non delude le attese. Alain Guiraudie, qui nel suo lavoro di gran lunga più significativo di una filmografia intelligente e un po’ discontinua, crea una specie di bestia-film mitologica che fonde Bresson, Chabrol, Dumont e Pialat. L’osservazione cruda e spietata della provincia post-politica francese si affianca a un’ironia di fondo quieta e disperata al tempo stesso, mentre le leggi del desiderio (e del desiderio tradito dei corpi anziani) governano tutto il microcosmo. Straordinario il silenzio sul passato dei personaggi, che in verità permette a ogni spettatore di scegliere che cosa pensare di ciascuno e verso chi provare la misericordia del titolo originale.
CIAO BAMBINO

C’era curiosità per uno stimato autore di cortometraggi come Edgardo Pistone, qui al suo primo lungo. E si può dire che probabilmente abbiamo scoperto un autore. Come al solito vagamente rimproverato per la visibilità estrema dello stile (e figuriamoci, in Italia il formalismo è una parolaccia), Pistone fa stridere il cliché criminale napoletano e l’attenzione ai corpi e al romanzo di formazione, cui il bianco e nero dona un’atemporalità rigenerante. La plastica della messa in scena fa pensare al Cuarón di Roma (e non è un modello per cui sentirsi in imbarazzo). La scrittura per ora segue il comparto visivo, un giorno potrebbe completarsi in modi più imprevedibili.
LUCE

Giustamente molto stimati, Luzi e Bellino spostano per la seconda volta nel terreno del racconto di finzione il loro cinema documentario. Costruito come un tour de force sul volto di Marianna Fontana (uno dei visi più geometricamente alternativi del fisiono-rama nazionale), Luce spinge molto sulla drammaturgia dell’assenza e sull’acusma della voce di un padre che non vediamo mai. Non sempre questo asse orale e telefonico costruisce quanto promette, ed è forse la concessione più evidente a una drammaturgia vincolante. In generale, però, la flagranza sociale e la complessità veritiera dei sentimenti rappresentati sono valori da preservare in questa coppia di autori.
NIGHTBITCH

Per il ritorno di Amy Adams davanti alla macchina da presa ecco un film da piattaforma strano e ibrido, che ogni tanto sembra un quieto dramma domestico americano e ogni tanto sembra il Kornél Mundruczó di White God (Marielle Heller è del resto una regista particolare e colta). La scoperta metafora animalesca di una madre che si trova schiacciata sul suo mero ruolo biologico, e diventa mutaforma, viene punteggiata da inquietudini horror, elementi sovversivi, salutari scosse anti-famigliari. Alla fine però tutto si ricuce, e le sensazione prevalente è quella di un’occasione persa. Ma almeno, come scrive Marzia Gandolfi “sul prato rasato resta lo sguardo mastino di Amy Adams”.
SUGARCANE

Candidato all’Oscar 2025 per la categoria, il documentario di Julian Brave NoiseCat e Emily Kassie ci ricorda perché è ridicolo affermare che si parla troppo di nativi americani. Strutturato come un’indagine serrata e a tratti thriller, Sugarcane scoperchia il lato genocida di Canada e Usa verso gli indigeni, con l’aggravante della ferocia contro i bambini, nelle scuole cattoliche separatiste per nativi. Lavoro profondo e riuscito, per fortuna non indebolito da forme di reportage para-televisivo, il film colpisce duro e giunge in Italia direttamente su Disney+, dopo aver vinto premi importanti al Sundance e altrove. Ne vale la pena.
MEMORIE, PENSIERI, SVISTE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi
OH, CANADA

Un po’ storto, claudicante, geriatrico, fragile (ma di una fragilità impossibile da respingere e non fare propria), il nuovo film di Paul Schrader – concepito in un periodo buio e tratto dal grande Russell Banks – conferma la vena creativa degli ultimi quattro lungometraggi. Strutturato in maniera al tempo stesso labirintica e meditabonda, il racconto presenta il più classico caso di narratore inaffidabile. Eppure, la confessione del morituro (un Gere sepolcrale e contrario ad American Gigolo) ruota intorno a verità crudeli che nemmeno la confusione mentale e gli errori dovuti alla demenza (che vediamo rappresentati) possono scalfire. Non è frequente vedere un film sulla codardia: Schrader è riuscito a girarlo senza compromessi.
L’ABBAGLIO

Per fortuna è stato sventato il rischio di una ripetizione di quel meta-film su commedia e dramma che si incontrano – ognuno con il suo star system – che era La stranezza. Andò prende gli stessi interpreti ma saggiamente cambia completamente scenario, spostandolo alla spedizione dei Mille e in una Sicilia vagamente viscontiana e tornatoriana. Sempre con l’idea di far convivere due film in uno (stavolta particolarmente poco correlati l’uno all’altro e un po’ farraginosi), completa una riflessione ricca ed elegante sull’Italia populista e le sue radici risorgimentali. Coraggiosi Ficarra e Picone ad accettare un ruolo che sottrae loro anche il finale dignitoso alla Grande guerra (ma il ricordo di L’ora legale, opera durissima, avrà pesato).
WOLF MAN

Doloroso passo indietro di Leigh Wannell, che con L’uomo invisibile ci aveva insegnato come si attualizza un “mostro” Universal riuscendo a parlare al nostro presente conflittuale e vittimario. Con la figura dell’uomo lupo non è riuscito a trovare altrettanta potenza, anzi i riferimenti piuttosto evidenti al “gene” tossico che gli uomini si passano di generazione in generazione sembrano forzati e pensati soprattutto per ripetere l’exploit precedente. Inoltre, mentre l’impossibilità di vedere garantiva là un campo di sperimentazione linguistico (perfettamente sfruttato), qui la metamorfosi animalesca ripete pigramente il lavoro di John Landis sul lupo mannaro o David Cronenberg sulla mosca. Non che sia un cattivo B-movie, ma ci si aspettava altro.
VIVERE

Nel blocco dei film di Kurosawa distribuito dalla Cineteca di Bologna (tra i quali spicca ovviamente I sette samurai), un posto d’onore lo merita Vivere, che all’epoca nemmeno fu distribuito. Pur già da tempo ricollocato tra i grandi classici del regista e del cinema mondiale tutto, merita una revisione per la compresenza di umanità e pessimismo. La prima deriva dalla storia di un uomo umilissimo, malato e schiacciato dalle rinunce esistenziali (da riscattare attraverso alcune scelte sorprendenti e imprevedibili) e la seconda dal ritratto devastante dell’ipocrisia omertosa del Giappone postbellico. Con una struttura narrativa molto originale (si veda la macro-sequenza finale) ogni tassello di questo puzzle esistenziale va al suo posto, senza facili lezioni morali.
NO OTHER LAND

Difficile separare il documentario del collettivo israelo-palestinese dagli avvenimenti in corso. Pur essendo una vicenda avvenuta per anni in Cisgiordania ben prima del 7 ottobre, il rischio è di considerare ciò che vediamo come un commento, un corollario, una presa di posizione che si inscrive nella battaglia ideologica. In verità, proprio la trasparenza di messa in scena e la crudezza del materiale (ciò che avviene è talmente chiaro che solo un pregiudizio politico può negarne la gravità) permettono di concentrarsi sul qui e ora di una sopraffazione lenta, incessante, cinica e clinica. Stante l’eclisse informativa e la strage di giornalisti cui abbiamo assistito in questi anni, No Other Land diventa anche un sostituto eccellente del lavoro informativo – portato alle estreme conseguenze con la messa in pericolo della propria vita.
WALLACE E GROMIT – LE PIUME DELLA VENDETTA

L’involuzione della Aardman Animations sta diventando abbastanza palese. Non sappiamo se l’adesione a Netflix e alla distribuzione direttamente su piattaforma abbia qualche cosa a che fare, ma certamente né Galline in fuga 2 né questo ritorno degli amatissimi Wallace & Gromit sono all’altezza del passato (e tanto meno dei corti e dei medi), lasciando un senso di addomesticamento. Bisogna dunque accontentarsi – e ovviamente non è poco – di una storia un po’ strampalata con un doppio nemico (il cattivo e i suoi robottini-nani da giardino), che si anima soprattutto nello slapstick d’inseguimento.
I MIGLIORI FILM DEL 2024
Ecco la classifica personale dei film usciti ufficialmente in Italia dal 1 gennaio al 31 dicembre 2024 su tutte le piattaforme e DVD purché inediti.
Posti caldi sparsi (prima di, a fianco dei, oltre i venti migliori): Beetlejuice Beetlejuice, Dahomey, I delinquenti, Finalement, Flow, Furiosa, Hit Man, Iddu, L’innocenza, Kinds of Kindness, Linda e il pollo, Marcello mio, Le occasioni dell’amore, Parthenope, A Quiet Place Day 1, Smile 2, Vittoria.
TOP 20
20) Invelle
19) Priscilla
18) Anora/Ancora un’estate (ex aequo)
17) Joker – Folie à deux
16) Trap
15) La stanza accanto
14) Made in England – I film di Powell e Pressburger
13) Giurato numero 2
12) May December/The Beast (ex aequo)
11) Fumare fa tossire/Yannick/Incredibile ma vero (tutto Dupieux ex aequo)
10) Civil War
9) Challengers
8) Perfect Days
7) Notre corps
6) Do Not Expect Too Much from the End of the World
5) Il gusto delle cose
4) Il ragazzo e l’airone
3) Grand Tour
2) Estranei
1) La zona d’interesse
Schegge 2024
Le bolle di Willem Dafoe in Povere creature!, le feste di Enea, il bancone da bar di Past Lives, il tavolo degli interrogatori di Upon Entry, la faccia di Adam Sandler in Space Man, il freddo in Green Border, i trip psichedelici di Driveaway Dolls, i corridoi di La sala professori, il dimagrimento-lampo per la gara di Tatami, il furto d’arte contemporanea in I soliti idioti 3, i balletti meccanici di I misteri del bar Etoile, la violenza che non esplode in El Paraiso, il truck con le trivelle di Twisters, i montaggi paralleli di Padre Pio, gli alieni sospesi per aria di Alien: Romulus, gli abiti bianchi di Blink Twice, l’incipit con la misurazione del territorio di Horizon: An American Saga – Capitolo 1, la grana VHS di MaXXXine, il negozio di biciclette di Anywhere Anytime, la parlata nervosa di Carrie Coon in His Three Daughters, il fuoricampo in Longlegs, la sabbia in Hold Your Breath, gli omicidi in The Woman of the Hour, gli spazi domestici in Familia, la prigione in Le déluge, la cittadina di That Christmas, le astronavi di L’Empire, la banconota perduta di Berlinguer, la luce sarda di Berchidda Live, la scaletta in Saturday Night, la mano che spunta dai cadaveri in Campo di battaglia, Aznavour in E la festa continua!, la puzza di merluzzo in Holdovers, i divani di Memory…
e mille altri baluginii.
VIAGGI (POLITICI) NEL TEMPO E NELLO SPAZIO
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD

Cineasta ormai irrinunciabile nel panorama internazionale, Jude è uno dei pochi in grado di progettare e creare un incidente frontale con il contemporaneo. Il rifiuto di distinguere politica, estetica, ideologia e linguaggio fa sì che la totale destrutturazione dei suoi film risulti paradossalmente tanto più spontanea quanto meno digerita dal grande pubblico. Anche stavolta, la satira del documentario e dei media digitali si eleva a dolentissima riflessione sul presente e sulla post-democrazia, di cui evidentemente (ormai lo abbiamo capito a suon di registi e di film) la Romania è laboratorio/osservatorio privilegiato. Per il resto si ride e ci si raggela, ci si raggela e si ride, finendo con l’avere una compassione profonda per gli essere umani là davanti alla macchina da presa.
NAPOLI – NEW YORK

Devo ammetterlo: saputo che Salvatores avrebbe adattato un soggetto inedito felliniano e visto il micidiale trailer, i pregiudizi si erano fatti quasi insormontabili. Quasi. Perché il critico si è abituato a non fidarsi mai delle sensazioni. E infatti Napoli – New York si rivela l’esito più felice di Salvatores da anni (forse dal coraggioso Il ragazzo invisibile, 2014). Il rispetto per il raccontino di partenza – che fa emergere l’animo bozzettistico di Fellini e Pinelli all’altezza di fine anni Quaranta – protegge da ambizioni autoriali mal riposte e permette di sciogliersi nella “fiaba critica”, pescando a piene mani da Leone, Tornatore, un po’ di Comencini e un pizzico di Crialese. Giova la ricostruzione dell’America fatta in Croazia, una specie di dichiarazione estetica da set, questa sì molto felliniana e figurativamente ispirata alla storia dell’illustrazione italiana.
IL GLADIATORE II

Se Eastwood sorprende perché gira lucidi origami a 94 anni, dovremmo congratularci con Ridley Scott che gestisce set colossali a 87. Purtroppo le strette di mano finiscono qui. Perché il sequel del fortunato blockbuster di un quarto di secolo fa dimostra che il tempo è passato, l’idea di storia romana come fantasy è ormai anacronistica, e persino il retrogusto stile peplum hollywoodiano d’antan diventa meno dolce. A non funzionare sono la maniacale adesione al capostipite (di cui è in fondo un remake) e l’attore protagonista – Paul Mescal fallisce la transizione da corpo intimista per autori raffinati a muscolare eroe popolare. Curiose le assonanze con Megalopolis: entrambi usano Roma e la sua storia per parlare di America e di politica globale. Ma Scott fa il furbo e le sue metafore sembrano voler accontentare tutti.
BLITZ

I bombardamenti tedeschi su Londra nella Seconda Guerra mondiale hanno una piccola grande storia nella letteratura e Steve McQueen a sua volta li considera contenitore ideale per una storia di andata e ritorno dickensiano di un orfano/non orfano dalla pelle scura. L’idea è quella di raccontare un viaggio infantile in uno scenario di distruzione senza rinunciare a commenti sulla società britannica, che mentre veniva attaccata dalla furia omicida nazista non mancava di mostrare divisioni razziali, di classe e di censo al suo interno. In più, c’è la storia di una giovane madre e della sua sfrontatezza dentro una piramide patriarcale che non le perdona libertà sessuale e di parole. Gestire il tutto scegliendo gli stilemi del period drama deluxe (con ampi riferimenti all’ottimo Anni ’40 di John Boorman) è una scommessa sovrabbondante, audace ma poco riuscita.
HEY JOE

Entra pian piano nella testa, il nuovo film di Claudio Giovannesi – autore laterale del cinema italiano, che non se la tira e lavora spesso con idee sottili, costruite con competenza. Il ritorno del soldato americano a Napoli esce dal repertorio della canzone popolare ma poi viene ribaltata scegliendo il tema della malinconia e della ricucitura impossibile (il nostos destinato alla morte che spesso viene associato a Napoli e che già era fortissimo nel Martone di Nostalgia). Molto della credibilità del racconto si deve alla recitazione dolce di James Franco (con evidenti echi auto-biografici) e alla fotografia di Daniele Ciprì, attenta a cromatismi densi ma trattenuti.
HANNO UCCISO L’UOMO RAGNO

Fedelissimo al suo tema ossessivo (sfigati di provincia che si uniscono trovando un successo insperato), Sydney Sibilia – con un bel team di registi e sceneggiatori – dimostra come torcere una storia da alto rischio di shitstorm e presa per i fondelli (la vita degli 883) facendola diventare un corroborante romanzo di formazione provinciale. Eccezionale la scelta dei due attori – in particolare Elia Nuzzolo (già next generation caldissima) che si concia come un Tin Tin impacciato con tratti da nerd americano. L’effetto “retromania” funziona per gli over 40, ma la serie gioca con sentimenti universali anche dei teen. Scambiarlo per qualcosa di importante sarebbe delittuoso, ma di commedie musicali seriali all’italiana fatte bene se ne vedono poche.
THE DIPLOMAT 2

Il problema e la forza di Diplomat sono la stessa cosa: comprimere in poche stanze e in rari esterni grandi crisi politiche (per lo più enunciate nei dialoghi) permette di ottenere una potente “verbalizzazione del conflitto”. In essa convivono schegge di screwball comedy e di cinema politico anni Settanta (curiosamente shakerate). Ma in questa stagione la claustrofobia è divenuta meno spontanea, e le forzature della storia contemporanea inverosimili (qui e in Slow Horses il Regno Unito è al centro di trame oscure e pazzesche: ma quando mai? sarà un malcelato desiderio dettato dal declino?). Per la terza stagione – annunciata da un cliffhanger vecchio stile – urgono idee di scrittura e un aggiornamento sul presente (per quanto difficile da inseguire).
UNIVERSO BATTISTON: STUCKY E IL CORPO

Che Giuseppe Battiston abbia abbandonato da tempo il territorio – pur degno – del caratterista di lusso è noto. Ma i panni del detective gli donano ancora di più, da protagonista. I rappresentanti della legge interpretati nella serie di Valerio Attanasio e nel film di Vincenzo Alfieri (due che credono ai generi in Italia, se Dio vuole) non potrebbero essere più diversi. Il tenente Colombo è il modello del primo, l’investigatore mangiato dalla vita (stile polar) quello del secondo. Si gode in entrambi i casi: leggerezza per Stucky (ma con una provincia assassina che non sarebbe dispiaciuta a Simenon), divertissement macabro per Il corpo. Le piccole cose che ci piacciono (e forse sono necessarie) nel panorama nazionale.






