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Autore: Roy Menarini

VERITÀ NASCOSTE E TERRITORI (IN)ESPLORATI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

SKAM 5

Nella rotazione dei personaggi di Skam, in questa insperata quinta stagione della serie, tocca a Elia. Il problema trattato questa volta è di natura fisica e sessuale, scelto con sensibilità, coraggio e un pizzico di furbizia. Cambia qualche nome nel team creativo e forse si nota: non è facilissimo andare avanti in mare aperto senza il lavoro di adattamento pre-esistente. Risultato un po’ appannato. Intendiamoci, Skam rimane la serie teen migliore in assoluto, e ha probabilmente cambiato il modo stesso di guardare alla cultura adolescenziale e ai processi di autenticazione che ne stanno alla base. Il pattern, insomma, resiste così come resiste il piacere di guardare questo mondo. Peccato per alcune forzature drammaturgiche (il sub-plot sugli abusi del professore) e per i tentativi di legittimazione che nessuno chiedeva (il leitmotiv antonioniano).

VIDEODROME

Torna in sala il film più esemplare della filmografia di Cronenberg. In Videodrome ci sono tutti i temi, squadernati uno per uno: il rapporto carnale con i media; il mix di thriller, horror e fantascienza; la propensione a creare nuove forme cinematografiche; la tensione verso il film come installazione di arte contemporanea; il conflitto tra narrazione ed esposizione; l’indecidibilità del reale; la domanda filosofica sul mutamento dell’uomo nel contesto socio-tecnologico. A rivederlo oggi, colpisce in positivo la forza rozza e ruvida delle immagini, il procedere marziale dell’ultima, allucinatoria, mezzora. “Lunga vita alla nuova carne” urla Max Renn in una pulsione al tempo stesso rivoluzionaria e suicida. E Videodrome è anche scatola di attrezzi critici per Crimes of the Future, che se ne conferma eco malinconica, alla fine del mondo e alla fine del cinema.

PINOCCHIO

La poetica di Zemeckis è quella del contatto. Una filmografia spesa a indagare il ruolo delle immagini mainstream nel modellare l’immaginario collettivo: contatto tra reale e virtuale, autentico e artificiale, passato e presente, mondo concreto e mondo narrato. Alieni, cartoon, leggende, streghe, fantasmi, personaggi letterari o freaks solitari attraversano tutti la storia (americana) in contatto con l’aldiquà, essenziale per definirsi. Questa volta il regista (che scrive e produce) immagina un Pinocchio burattino animato come nel classico Disney (identico) ma trasportato nell’universo ibrido (live action o digitale) delle tecniche attuali. Ne esce un monstrum cupo, soffocante e troppo legato ai fili branditi da Disney+. Non so se possa essere interpretato, da proposta di Mariuccia Ciotta, come un’operazione simile allo Psyco di Gus Van Sant fatta su Collodi. Mi pare ardito, ma a Zemeckis una chance la concediamo volentieri. Ci penseremo su.

LOVE LIFE

Con film come questo il rischio di stereotipo culturale è dietro l’angolo, persino negli elogi. Vedendo Love Life ho pensato costantemente alla delicatezza del tocco, alla calma narrativa capace di sedare i momenti più traumatici per i protagonisti, alla serena compostezza delle inquadrature. Ma soprattutto ho pensato qualche volta a Ozu, qualche volta a Kore’eda e qualche volta a Hamaguchi, ovvero alcune delle non molte cose che so analizzare del cinema giapponese. Sono dunque certo che Kôji Fukada sia diverso da tutti (e lo è chiaramente) ma gli schemi mentali del cinefilo rischiano di inquadrarlo come una versione in minore di costellazioni più note. Sforzandosi di prenderlo da solo, in autonomia, il film costruisce un rapporto di sincerità e pacatezza con lo spettatore, accompagnando i suoi personaggi in un percorso di strettoie emotive e dubbi luttuosi, la cui qualità principale è quella di essere universali.

MAIGRET

La diarchia francese di cinema d’autore eternamente post-vague, da una parte, e cinema di genere (commedia e polar su tutti), dall’altra, è talmente stringente che ritrovare un po’ di cinéma de papa allarga il cuore. Ce lo restituisce Patrice Leconte, da sempre sottovalutato dalla cinefilia in quanto troppo borghese e troppo formale, con la sua versione di Maigret. Da Simenon ormai non si può trarre molto di davvero originale o sorprendente, ma bastano poche scelte per costruire un film riuscito. Malinconia, sì, ma quale? Quella di una Parigi renoiriana, di un Depardieu quasi postumo a se stesso, di un racconto sulla giovinezza che fugge troppo in fretta, lontanissimo da ogni piacere malizioso nello sbeffeggiare l’ipocrisia della società francese (à la Chabrol). Maigret ha una giusta misura, un’idea di cinema composto ed esatto, una sua crepuscolare dignità. Tanto basta.

WATCHER

Torna ogni tanto nel cinema di genere statunitense la paranoia verso la vecchia Europa (vedi Hostel o Midsommar). Qui c’è una giovane donna americana che segue il marito a Bucarest, città di origine di lui e spaventosa Urbe ex-sovietica, spoglia e noiosa, per lei. Non bastasse il sapore di est da farle venir voglia di suicidarsi, ecco che uno psicopatico molto hitchcockiano comincia a spiarla dalla finestra di fronte e probabilmente a seguirla per le orride strade. Sarà lui il serial killer di cui parlano i giornali rumeni? Raccontata così, sembra una vaccata eurofobica. In verità, si tratta di un discreto thriller la cui regista, Chloe Okuno, sfrutta al meglio l’architettura e gli spazi, oltre che un sound design tra i migliori (almeno per essere un B-movie). E il tema della mascolinità tossica – internazionale – per una volta è insinuato con sapienza. Certo, ci stiamo accontentando un po’, come accade quando quel che passa il convento abbassa le pretese.

MARGINI

Hardcore punk e cinema italiano. Già questo binomio ispira simpatia. Non siamo però di fronte a un manifesto di sudore e pogo dell’underground nazionale ma a una storia di musica e amicizia ambientata nei primi anni Duemila nella provincia toscana. La band protagonista è parte per il tutto di un movimento dal basso che sicuramente si può riconoscere negli scombinati personaggi di Niccolò Falsetti, tra la scarsità di risorse economiche, la separazione tra palco e vita, l’incomprensione della “maggioranza silenziosa”. Margini possiede meriti e limiti che coincidono con la scelta stessa del tono da commedia. Da una parte la chiave umoristica disegna un ammirevole sorriso sbilenco su una provincia meccanica troppe volte raccontata col digrignare dei denti; dall’altra lo humour diventa talco sulla pelle, simpatia a tutti i costi e assoluzione generalizzata del mondo che proprio l’HC voleva rifiutare.

PER NIENTE AL MONDO

Quasi sempre, qui a bottega odiamo i “finalmente”. Quindi non diremo “finalmente un bel noir italiano” perché ce ne sono già stati (Tavarelli, Alfieri, Cescon, De Angelis, Cupellini e altri). Però di serrati come questo di Ciro D’Emilio non poi tanti. Giocato su diversi piani temporali, e basato su una storia piuttosto originale (uno chef che finisce nel gorgo del crimine per motivi kafkiani e casuali), Per niente al mondo vive di messa in scena. Basterebbe la rapina finale, ma in generale mezzi espressivi alla francese (polar) e all’americana vengono utilizzati con secchezza, senza nemmeno mostrare troppo autoerotismo sulla bravura tecnica. Il nord-est ne è immancabile sfondo, anche se il regista è napoletano. Occhi sempre più aperti su Guido Caprino, figura attoriale ormai solidissima, un passo sotto lo star system.

NEL (PER)CORSO DEL TEMPO. VIAGGI, LINEE, CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

BULLET TRAIN

Non è immediatamente chiaro che cosa vada storto in Bullet Train. Sul piatto c’è tutto quello che vorremmo nella tarda estate del 2022: un film privo di qualsiasi contenuto complesso, una linea orizzontale di action claustrofobico e sfrenato, il primo ruolo da vero protagonista di Brad Pitt da molto tempo a questa parte, la regia coreografica di David Leitch. Poi, mentre una sensazione di strano e indigesto letargo si impadronisce dello spettatore, ecco l’illuminazione. Bullet Train non doveva solo essere il pop corn movie su grande schermo in grado di umiliare gli action globalisti di Netflix, ma anche la ballata decervellata capace di traghettarci in un chiassoso spettacolo post-Covid e dentro un cinema da B-Movie da troppo tempo latitante. Abbiamo chiesto troppo? Probabile. Ma Leitch non ci regala qui né il bruciapelo tecnico di John Wick né cose come la scalinata-vertigo percorsa a suon di botte di Atomica bionda. A riprova che l’action è affare serissimo: per farne una cosa davvero bella, devi fingere di essere deficiente in maniera intelligentissima.

MEN

L’ignoratissimo Annientamento di Alex Garland, a parere di chi scrive, è forse il miglior film Netflix tra quelli che non hanno goduto di una finestra “di prestigio” nelle sale. Con quel film, Men ha più di un contatto: pur passando dalla fantascienza all’horror, in entrambi i casi si tratta di una donna che entra in una selva mentale, in un luogo oscuro fatto di natura e cultura, e che ritrova nell’alterità una dimensione spaventosa del nostro reale (o della sua psiche). Le accuse di programmaticità e semplicità metaforica sono decisamente ingenerose. Garland è un altro degli autori che ama lavorare su una dimensione allegorica evidente: non è che per essere bravi bisogna per forza sotterrare a metri dalla superficie i significati. Anche perché in questo caso Garland non finge certo di non capire. Il significato (mascolinità tossica) è lì da subito, caso mai si tratta di dare corpo e sangue a un concetto nel resto del racconto: è l’inquietudine con cui lo fa a contare (con venti minuti finali memorabili). Intriga, poi, la violenza con cui questo tema è trattato di recente (vedi Fresh o Una donna promettente). Infine: a quando il Jessie Buckley fan club?

UN’OMBRA SULLA VERITÀ

Vendereste la vostra cantina a uno strano sconosciuto che vi paga sull’unghia con evidente fretta di concludere l’affare? Se lo fate, rischiate di mettervi in casa un turpe antisemita. Si tratta solamente della prima sciocca azione di personaggi che agiscono in maniera inverosimile e sventata, e su cui bisogna esercitare una sospensione dell’incredulità particolarmente impegnativa. Le Guay (che certamente non è mai stato un regista particolarmente raffinato) taglia tutto con l’accetta: la cantina è il rimosso borghese del nazismo, il condominio è un covo di delatori che un tempo sarebbero stati collaborazionisti, la famiglia è un teatro di superficialità emotive. Se si aggiunge una sconsiderata apatia nel ritmo narrativo, ci sarebbe solo da liquidare il tutto. Eppure, vogliamo intravedere ciò che forse avrebbe potuto essere: ci sono schegge langhiane (la riunione di condominio), momenti che non sarebbero dispiaciuti a Clouzot (grazie a Cluzet, e non perché suona bene), rabbie indicibili sotto i palazzi parigini…. un film-fantasma che scorre sotto quello inguantato che vediamo.

RIMINI

Parlare di cinema del sadismo un tempo significava riferirsi a Buñuel, Pasolini o Roeg, poi più di recente a Haneke, Noé, Dumont e qualche volta Seidl. Che continua imperterrito il suo cinema che divide cultori e detrattori, i primi affascinati da un discorso filosofico sull’essere che probabilmente non esiste e i secondi indignati dall’assenza di sguardo e di pietas che tuttavia non sembra un modo razionale di porsi di fronte a un giudizio estetico. Se proviamo a disinnescare la polarizzazione, ci rimane proprio Rimini. Che è poca cosa, perché la lenta deriva di un triste cantante di balera, iconograficamente simile al Wrestler di Mickey Rourke, tra concerti in RSA e notti spompate da anziani gigolò, si arena nel più triviale simbolismo del mare in inverno: nebbioni, pensioni sfitte e strade vuote. Ci sono fantasmi di mélo, tentazioni porno, elementi di voyerismo gerontofilo (ma poi gerontofobo) e un arco di trasformazione prevedibilmente straniato. Ma chi ce lo fa fare?

200 METRI

I confini e i perimetri sono un po’ l’ossessione del cinema mediorientale e pro-Palestina. Giardini, alberi, steccati, case attraversate da una frontiera (ricordate Private di Costanzo?), e ora qui il muro che divide per soli 200 metri Mustafa dalla sua famiglia. Lui non accetta di dover chiedere un visto israeliano per lavorare, e il partito preso diventa l’innesco del mélo-thriller quando per il figlio deve poter superare quello spazio occluso. La linea retta diventa curvilinea se non ameboidale e i compagni di strada, più che adiuvanti, sembrano a loro volta agenti centrifughi. Come spesso accade nel cinema d’essai, anche questo titolo sembra più interessato al primato narrativo e alla confezione festivaliera che alla dimensione cinematica che avrebbe una storia simile avrebbe potuto sfoderare. Ameen Nayfeh, regista palestinese al primo lungometraggio, possiede comunque coraggio e lucidità. Speriamo in futuro in schemi meno esibiti.

THE HUMANS

MUBI sta crescendo in termini di distribuzione contemporanea. Prova ne è aver proposto uno dei piccoli casi indie dell’anno, la trasposizione cinematografica della pièce di Stephen Karam ad opera dello stesso autore. Su Internet si trovano stralci della pièce e interessanti interviste ad autore e attori sulla messa in scena teatrale. Il film ne dinamizza il set (chiuso, claustrale, un appartamento su due piani fatiscente e sinistro) attraverso diaframmi, incorniciature, recadrage e movimenti sinuosi di macchina, che – pur meticolosi – non sempre riescono a sviare la sensazione di essere sostitutivi dell’esperienza teatrale. Che forse avrebbe guadagnato dall’essere più rispettata, anziché (come spesso accade) movimentata. Il ritratto di famiglia attraverso cui si intravede un’America depressa, indebitata e impoverita si impone esplicitamente, mentre lo scricchiolio di un horror sotterraneo, che spinge metaforicamente dalle pareti, molto meno. Attori indiscutibili, ma si ha sempre voglia che compaia Shyamalan e trasformi tutto in Servant.

PREDE, SOPRAVISSUTI E IMMAGINI DEL DISASTRO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

13 VITE

Tredici Vite Recensione: Ron Howard ci fa credere nuovamente nell'umanità -  Kaleidoverse

Miglior film in circolazione al momento su piattaforma, la storia re-enacted del vero recupero dei ragazzini thailandesi nella grotta è pane per i denti di Ron Howard. Un autore che si conferma umile e straordinario per come si nasconde dentro al progetto, per come coltiva il suo tema dell’umanesimo senza mai fare nemmeno ciao ciao con la manina, e per come innalza il livello stilistico dello streaming cinema. Il meglio viene dalla costruzione delle scene subacquee, con un livello di claustrofobia e pressione tale da soffocare lo spettatore. La dimensione hawksiana dei due protagonisti – Viggo Mortensen, secco e laconico, e Colin Farrell, esperto ma sensibile – funziona per tutto il film, anche se in odor di superiorità professionale occidentale nei confronti dei pur volenterosi indigeni. Ma quel che veramente conta è il lavoro tecnico sulla cava, interamente ricostruita in Australia. Una specie di set fisico e mentale, suggestivo meta-set alla Cameron. Infine, occhio al montaggio narrativo: 13 vite è anche un manuale di ellissi.

MINIONS 2

Annecy 2022: Minions 2: Come Gru diventa cattivissimo aprirà il Festival -  ScreenWEEK.it Blog

Poteva anche intitolarsi Cattivissimo 4 – Il prequel visto che la firma degli esserini gialli sembra essere attribuita più che altro per equilibri interni alla saga. Dopo i Sixties del primo episodio, ecco i Seventies del secondo, riletti attraverso un ampio spettro citazionista, da Spielberg a Tarantino, con una infallibile colonna sonora per gli accompagnatori adulti. Il film in sé strappa la sufficienza con qualche sorriso e alcune idee frammentarie, ma al solito fallisce (paradossalmente, visto il franchise) con i cattivi, che sono poco carismatici e decisamente anodini. Ma il vero dibattito è sui Minions: supini esecutori di un’obbedienza canina (quindi inno alla subalternità) o anarchici portatori di caos in un mondo senza fantasia? La terza: sono cittadini un po’ infantili che però mostrano curiosità, coraggio e apertura di mondo, portati all’esperienza, al cambiamento e al rischio. L’impasto linguistico, qui esasperato, è a sua volta metafora del prodotto globale ed esportabile.

PREY

Prey (2022 movie): the theme song and the soundtrack - Auralcrave

Quando Disney incontra Predator il risultato è questo. Aprite Disney+ e soffermatevi sulla locandina del film presente nell’interfaccia. Il modello è evidente: siamo tra Pocahontas e le principesse, mescolate a un survival. Ovviamente non si arriva al punto da farne un film per famiglie, ma il racconto di formazione della protagonista indigena sfiora la parabola disneyana più e più volte, compresa la grana fotografica, cromatica, e i personaggi secondari (il fratello e la mamma). Detto questo, Dan Trachtenberg fa il suo lavoro, la storia è ben congegnata (a cominciare dall’idea stessa del prequel), e anzi Prey dal punto di vista narrativo e tecnico è più compatto e riuscito di quanto si potesse prevedere. Dobbiamo solo chiederci se la deriva streaming dei franchise Fox (viste anche le prime, preoccupanti immagini di Avatar 2) in direzione casa di Topolino “azzurrognola” non sia un problema incipiente.

MEMORIA

Memoria: Cinema as Meditation | FilmInk

Distribuito da MUBI dopo una breve comparsa in sala, Memoria di Apichatpong Weerasethakul è finalmente disponibile per chi vuole vederlo. Esperienza ovviamente ostica, per chi conosce il cineasta, che stavolta – almeno nella prima parte – sembra seguire le regole del cinema arty internazionale, e in particolare l’ultimo Tsai Ming-liang. La trasferta colombiana non muta di troppo lo scenario forestale e piovoso della Thailandia, ma il racconto character-driven della protagonista (Tilda Swinton, che ha il suo peso come protagonista, portandosi dietro la sua carriera) è decisamente più canonico del solito. Nella seconda parte, però, si sviluppa la vera lezione filosofica del cineasta, con la lenta riappropriazione dei sensi e l’insegnamento (anche spettatoriale) alla conoscenza del mondo nella sua totalità. Il fantastico e la fantascienza ci mettono lo zampino, dando senso al viaggio erratico della prima ora. Non il suo capolavoro, ma un film luminoso e importante.

THE GRAY MAN

The Gray Man, Netflix review - the Russo brothers explore big-bang theory

Vari indizi fanno una prova. E trovo più plausibile che Netflix faccia appositamente film di questo tipo piuttosto che li sbagli tutti per caso: ovviamente per “sbaglio” parlo di fallimento estetico decretato dalla critica, mentre il pubblico sembra apprezzare. Ed è qui che casca l’asino. Il mandato di Neflix sui film ad alto budget è ormai evidente: congegni narrativamente elementari, con la presenza di una star cinematografica, ambientati (e girati) in diversi Paesi del mondo, pieni di sequenze funamboliche e distruttive, con ampio utilizzo di droni e movimenti di macchina acrobatici, aperti a sequel. The Gray Man con Ryan Gosling somiglia a Tyler Rake con Christ Hermsworth che somiglia a 6 Underground con Ryan Reynolds e così via. E non importa se ci sono i Fratelli Russo o Michael Bay in regia, perché la riconoscibilità del blockbuster globalizzato è evidente e spersonalizza le forme di regia e messinscena. Il livellamento e la semplificazione appaiono dunque come una scelta prioritaria per favorire il consumo di ogni tipo di spettatore di bocca buona esistente nel mondo degli abbonati, dall’Italia allo Yemen, dalla Polonia a Singapore. Sia detto senza razzismo ma con sincerità.

PICCOLI PIACERI ESTIVI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

X: A SEXY HORROR STORY

X - A Sexy Horror Story: A24 omaggia i film slasher degli anni '70  [recensione] | Anonima Cinefili

Porno e horror. Sulla carta il furbacchione Ti West, assistito dalla produzione al solito raffinata di A24 (una delle poche a imporre un marchio negli ultimissimi anni), l’ha pensata molto bene. La solita storia di un van che finisce nella parte sbagliata dell’America profonda, con la variazione del vintage a luci rosse (essendo i protagonisti impegnati nella realizzazione di un film hardcore), funziona sempre, specie se gli anni Settanta restano come modello forte. Detto questo, gli entusiasmi eccessivi che ha suscitato probabilmente dicono molto della crisi ormai pluriennale che sta subendo l’horror mainstream (ma l’indie horror sta poi tanto bene?). In ogni caso stile e iconografia funzionano, con alcuni momenti e punti di forza decisamente solidi (l’alligatore, Mia Goth, gli omicidi). Se non dobbiamo per forza prenderlo come un horror sui geenris ma esattamente come un horror routinario con idee originali, dà più gusto.

THE STAIRCASE

The Staircase

Meta-serie che contiene anche il famoso documentario che fu girato al proposito. La “storia vera” e il true crime stanno diventando uno dei luoghi di sperimentazione più interessanti della serialità contemporanea. Antonio Campos come showrunner lavora in maniera meticolosa e sinistra sul personaggio (ambiguissimo, anche grazie a una performance strepitosa di Colin Firth) e sulla struttura, moltiplicando – senza esagerare – punti di vista, ricostruzioni, linee temporali. Certo, quando si hanno a disposizione, oltre a Firth, anche Toni Collette, Juliette Binoche e il magnifico Michael Stuhlbarg, per rovinare il piatto ci vorrebbe davvero una mediocrità assoluta. Per fortuna le cose non stanno così, e Campos ci conduce fino in fondo a una non-verità, concetto che si sta trasformando forse nel monstrum filosofico della nostra contemporaneità – incapace di trovarla e ormai alle prese con la crisi di ogni certezza condivisa.

SHINING GIRLS

Shining Girls serie TV: dove vederla in streaming | Silmarien.it

A dir poco controversa l’accoglienza di questa serie Apple+. Pensandoci a lungo dopo la sua conclusione, si può dire che fa parte degli adattamenti un po’ involuti tipici di questa piattaforma (pensiamo all’autorialissima Storia di Lisey) ma che ha una storia molto potente dalla sua. L’idea di una ur-tossicità femminicida del maschio nei secoli, tra thriller e fantascienza, colpisce e stordisce più volte. Bisogna però sopportare una serie di linee narrative confuse e un rifiuto quasi testardo di prendere una strada tematica e stilistica precisa. Comunque, il tutto viene al solito caricato sulle spalle di e da Elizabeth Moss: qualcuno comincia a storcere il naso per la continuità con cui assume ruoli di vittima del patriarcato e della violenza maschile. Ma, ruotando il prisma, ecco una “politica dell’attrice” incredibilmente lucida, che fa dialogare i ruoli tra di loro e gioca sempre con il fantastico perturbante. Un corpo contemporaneo importante.

ELVIS

Elvis: il Re del rock'n'roll nel biopic di Baz Luhrmann. Nel cast anche Tom  Hanks. [recensione] | Anonima Cinefili

Due righe: e se Baz Luhrmann fosse uno di quegli autori che ha inventato un mo(n)do cinematografico per poi sembrarne l’imitazione?

THOR – LOVE AND THUNDER

Thor: Love and Thunder" è un film sgangherato ed estenuante - Fumettologica

Due righe: e se la quarta fase della Marvel fosse l’inizio del declino? Troppo presto per dirlo. Ma troppo tardi per sopportare questo Thor/Lebowski che fa caciara persino sul cancro.

IL PIACERE DEL CINEMA E DELLE STORIE CHE CI RI-GUARDANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

PLEASURE

Pleasure Trailer: Ninja Thyberg Skewers LA Porn Industry in Neon Film |  IndieWire

Molto chiacchierato fin dalla sua presentazione al Sundance, rilanciato dal Biografilm di Bologna e ora giunto in distribuzione esclusiva su MUBI, il film di Ninja Thyberg è dedicato al mondo del porno. Come se non esistessero le trasformazioni digitali e del porno amatoriale, la storia potrebbe essere serenamente ambientata anche 30 anni fa (esclusa la presenza dei social media). Il punto di vista che ci guida, come in tanti meta-film sul mondo dello spettacolo, è quello di una giovane donna in cerca di carriera. L’obiettivo è narrare i meccanismi di potere del set e del capitalismo pornografico, dove persino gli organi genitali sono power dress. Thyberg perde l’occasione per riflettere sull’immagine del corpo nel porno, tranne forse nella straordinaria sequenza dell’hard estremo dove due uomini, gentilissimi fuori scena, appena scatta il ciak la brutalizzano in tutti i modi. Se il porno è finzione attraverso la realtà organica, che cosa ne è dello stupro messo in scena attraverso l’umiliazione dell’attrice? Il consenso è sufficiente per evitare una violazione? Forse il porno ci sta parlando di #metoo? Avremmo voluto saperne di più.

HUSTLE

Hustle, il film più serio sul basket è quello con Adam Sandler | Wired  Italia

Il sottogenere “basketball movie” sfonda ovviamente porte aperte tra gli appassionati. Ma anche i cinefili apprezzano, anche perché ci si sono misurati autori come William Friedkin, Spike Lee, Steven Soderbergh. Ultimamente, anche grazie a serie e docu-serie di successo, l’elemento del capitalismo NBA e dei simboli della franchigia sono prevalenti. Unisce umanesimo americano e storia di redenzione il nuovo film “serio” con Adam Sandler, meno urticante di Uncut Gems (dove pure si parlava molto di basket, per traverso), ma con grandi opportunità recitative. Certo, il cliché del loser innamorato del gioco ben oltre l’avidità dei nuovi padroni, legato ai tycoon d’un tempo (fenomenale Robert Duvall), rappresenta un frappé di retorica quasi irricevibile. Ma c’è tanta roba che seduce, tanta passione, tanta sana malinconia, e alla fine – visto anche il livello medio dei lungometraggi Netflix – l’arresto e tiro entra nel canestro senza nemmeno l’aiuto del tabellone.

CHA CHA REAL SMOOTH

Cha Cha Real Smooth: The feel-good comedy that could be the crowd-pleasing  hit of the year | The Independent

Dopo aver acquisito, con lungimiranza, i diritti su Coda (poi premiato immeritatamente con l’Oscar) Apple+ sta alzando quantitativamente l’offerta e continua a pescare dal Sundance con il secondo film del giovanissimo Cooper Raiff. Regista, sceneggiatore e attore protagonista di questo tipico racconto di formazione sbilenco con elementi mumblecore, Raiff passa da next big thing a realtà presente. Che cosa distingue Cha Cha dall’over-produzione di storie d’amore malinconiche e imperfette di tanto cinema indie di questi anni? Assolutamente nulla. E allora perché funziona? Per la dedizione nel non concedere troppo alle aspettative feel good del pubblico, per la sottovalutata e bellissima Dakota Johnson, per un senso di inadeguatezza che salta fuori con minor packaging intellettuale di quello cui siamo abituati.

THE PRINCESS

THE PRINCESS (2022) UK Movie Trailer: Ed Perkins' Deep-dive Documentary on  Princess Diana | FilmBook

Lady D. Ancoraaaa? Ebbene sì. Ormai mitologema contemporaneo di una celebrity che evidentemente manca a molti e delinea ante litteram i processi mediali del presente, Diana Spencer è stata osservata in molti modi. Dopo il feroce racconto di esclusione di The Crown, dopo l’analisi interiore della clausura spazio-temporale di Spencer, The Princess lavora su un montaggio serratissimo di soli filmati editi. Potrebbe essere Asif Kapadia e invece è Ed Perkins. Lavoro d’archivio e di montaggio naturalmente da elogiare, ma il documentarista manca clamorosamente il bersaglio del significato. Il ronzio dei media intorno a Diana restituisce un’ossessione senza spiegarla, ci offre una goffaggine invece di un capro espiatorio, ci racconta di mostri che si mettono in posa, e mostra un’opinione pubblica pre-social network senza darle una soggettività. Quindi se vi chiedete che necessità c’è di un altro film su Diana, la risposta è una sola: only for fans.

MR. LANDSBERGIS

Recensione: Mr. Landsbergis - Cineuropa

Non so se Sergei Loznitsa possa essere ormai considerato il miglior documentarista vivente. Certo è che questo suo ultimo lavoro – presentato a Biografilm 2022 e si spera in futuro distribuito in qualche modo dalle nostre parti – ne conferma la forza impressionante. Le 4 ore che ricostruiscono meticolosamente il processo di indipendenza lituana dalla Russia sono eccezionali. Dire che sono tempestive sarebbe al tempo stesso vero e riduttivo. L’ossessione di Loznitsa intorno all’ex impero sovietico è palese, ma il modo di affrontarla (con un atteggiamento archivistico e militante, mix apparentemente impossibile) evita qualsiasi ambiguità. E così assistere a sequenze che al solo nominarle farebbero pensare al sonno istantaneo (lunghe discussioni tra partiti filo-sovietici e partiti indipendentisti del parlamento lituano: provate a proporre quest’ultima frase a un amico non cinefilo) diventa un’esperienza trascinante: la Storia, oltre le bombe, è ideologia che si nutre di burocrazia. La Lituania trionfa? Solo fino a ieri.

IL MONDO CHE ABITO (TRA CORPO E CONFINI IDENTITARI)

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

JURASSIC WORLD – IL DOMINIO

Jurassic World - Il Dominio: data di uscita italiana anticipata al 2 giugno

Massacratissimo dalla critica “daily”, difficilmente il film del ritornante Colin Trevorrow potrà trovare riscatti analitici nello slow criticism accademico o teorico. C’è davvero poco in questo terzo episodio della nuova trilogia, e nemmeno il ritorno del cast originale riesce a iniettare quella malinconia postuma presente in Matrix Resurrections o Ghostbusters Legacy. Tuttavia, se cinema epidermico deve essere, che cinema epidermico sia. E allora, staccando il cervello e depositandolo dentro il bicchierone dei pocorn, ecco che si può serenamente sonnecchiare durante le scene di raccordo e godersi un migliaio di inseguimenti uomo/dinosauro con una sorprendente varietà di specie e un ricorso ben riuscito ai cari, vecchi quattro elementi del catastrofico (acqua, aria, terra, fuoco), con una sequenza di mega-locuste incendiate (quindi macro-lucciole horror) niente male. Robetta, sia chiaro. Ma rispetto a Godzilla vs. Kong sembra Cecil B. De Mille.

ALCARRÀS

Alcarràs (2022) | MUBI

La storia degli Orsi d’oro a Berlino è quanto meno altalenante. Ma Alcarràs (nome del paesino in Catalogna dove si svolge il film) è meritevole di essere ricordato. Immaginato come una lenta esplorazione di una famiglia in difficoltà, prima ancora che come opera di denuncia, l’opera seconda di Carla Simón vince sostanzialmente di regia. Se il conflitto tra radici e progresso, tradizioni e macchine, conduzione generazionale e speculazione rischia di essere schematica (anche se ha poi delle sfumature assai meno prevedibili del previsto), è nella costruzione di questo mondo contadino e al tempo stesso ultra-vitalistico che il film vince la scommessa. Come in Carpignano, come spesso in Rohrwacher, come in altri cineasti del “naturalismo formalizzato” la messinscena implacabile e controllatissima permette di regolare e scardinare il binomio realismo/cinema spontaneo che ancora oggi grava su molte estetiche e che impigrisce l’immaginario sociale.

LA DOPPIA VITA DI MAEDELINE COLLINS

La doppia vita di Madeleine Collins di Antoine Barraud: la recensione - iO  Donna

Non si può dire che gli ultimi due mesi non siano stati generosi (distributivamente) per il cinema francese in Italia. Con La doppia vita di Madeleine Collins Antoine Barraud lavora su temi falsamente hitchcockiani (come si potrà capire vedendolo) per costruire un bel ritratto di donna psicologicamente scissa. Presentato alle Giornate degli Autori 2021, e passato inevitabilmente in sordina vista la quantità di proiezioni di un festival come Venezia, è il classico film che si deve scavare un momento di calma per essere sorbito senza fretta. Non ci troviamo certo di fronte a un capolavoro, ma la struttura è davvero intrigante e se siete – come il sottoscritto – attratti in maniera irresistibile da Virginie Efira, scoprirete anche che di titolo in titolo questa brillante interprete si sta costruendo una strana “narrazione attoriale” dove i vari ruoli parlano tra loro e si mettono in relazioni impreviste.

FRESH

Fresh è una splendida sorpresa su Disney+, ma non è facile da digerire (ah  ah)

Le vie dell’horror sono sempre più impervie. E il genere streaming horror con venature di impegno civile (black o femminista) sta pericolosamente diventando formulaico già in pochi anni. Ma bisogna concedere a Mimi Cave un certo gusto nel dosaggio. In questa storia di rapimento, cattività e psicopatologia, l’ironia saetta qua e là tendendo una corda ben tirata tra il rischio di grottesco buttato via e di raccapriccio torture porn (tenuto molto, ma molto, a bada). Non si può raccontare molto se non rovinando la vicenda, a base di cibo e sangue. Per cui ci basti elogiare il lavoro fotografico che densifica la materia e la bravura dei due protagonisti. Sebastian Stan offre un’evoluzione schizofrenica ed estrema al personaggio di adorabile cazzone di Pam & Tommy mentre la deliziosa Daisy Edgar-Jones mantiene una sua aristocratica intelligenza anche nei momenti da scream girl per poi imporsi su tutta la linea. Da non guardare appena prima di cena.

RUE GARIBALDI

Rue Garibaldi», tra precariato e immigrazione - Collettiva

Vincitore della sezione Documentari al Festival di Torino 2021, auto-prodotto e auto-distribuito, il film di Federico Francione merita di essere inseguito laddove sia possibile recuperarlo in un modo o in un altro. Frutto di un’intensa e non invisibile osservazione partecipata, il doc racconta Ines e Rafik, origini tunisine e scuole siciliane, fratello e sorella alle prese con una nuova vita nella periferia di Parigi. La ricerca del lavoro e la vita domestica sono i due perni intorno ai quali si snoda la loro esistenza, raccontata da Francione in tutta la fragilità dei due protagonisti. Seguendo il continuo flusso di euforie e disforie, intervallate da riflessioni su di sé e sulla società occidentale europea legata alla precarizzazione generazionale, l’autore trasforma in esemplari due situazioni soggettive. E ottiene di sfiorare temi molto più grandi, non rinunciando a esibire il mezzo cinematografico come regolatore di esperienze e soggetto “terzo” rispetto all’universo a due costruito da giovani sospesi tra i continenti e le nazioni.

CRIMINI E AMORI. IN GIRO TRA LE SERIE TV

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

OZARK 4

How to watch Ozark season 4, part 1: first seven episodes now available |  TechRadar

Quanto è difficile chiudere una serie. Ormai c’è una letteratura in merito. E anche Ozark si è incartata all’ultimo, con due minuti conclusivi esecrabili e un’ultima stagione sotto tono – oltre che contraddittoria rispetto ai personaggi maschili. Per fortuna, però, il resto ha funzionato alla grande (pur con una prima stagione preparatoria), anche grazie ai personaggi femminili – uno più riuscito dell’altro. Alla fine, questa evidente derivazione creativa da Breaking Bad (famiglia travolta dal crimine che ne diviene parte integrante) ha trovato un suo world building tra ambientazioni e temi, con un sotto-testo di capitalismo criminale che magari non sarà nuovissimo (essendo in fondo già il tema del gangster movie anni ’30) ma è stato gestito con una certa radicalità. Inoltre non va sottovalutata la pienezza narrativa: in epoca di serie slabbrate che tirano per le lunghe, ogni episodio di Ozark era fitto di avvenimenti, svolte, densità e talvolta pure troppi colpi di scena. Scelta apprezzabile.

SERVANT 3

Servant: la Stagione 3 della serie horror di Shyamalan arriva a gennaio su  Apple TV+, ecco il trailer

Dopo una seconda stagione che ha rischiato di ribattere sugli stessi temi della prima con qualche fatica nell’allargamento narrativo, la terza abbandona la sindrome di inferiorità nei confronti del capostipite – irripetibile – per lasciarsi andare in maniera più anarchica al piacere del sulfureo. L’elemento polanskiano viene messo in un frullatore, Losey fa capolino, Shyamalan ovviamente guarda dall’alto, la lotta di classe diventa pura ironia delle forme e il tema fondamentale (la famiglia e il territorio come proprietà senza vero possesso delle proprie vite) viene ribadito con grande fantasia. Alla fine la vera figura tragica è il bambino, che trascolora dall’artificiale al naturale, un “pupazzo di carne” che conta solo a seconda di chi se lo tiene, figura passiva ma reale (più o meno), impossibilitata al libero arbitrio ma centro significante di tutta la storia. Il resto è virtuosismo di scrittura e regia.

LA FANTASTICA SIGNORA MAISEL 4

The Marvelous Mrs. Maisel 4 recluta due famosi attori - Wonder Channel

Un po’ meno fantastica del solito. Qualcosa si è inceppato, o meglio si è incartato, nella splendida serie dei coniugi Palladino. A livello puramente strutturale, manca con tutta evidenza una storyline principale: forse per le precedenti esperienze degli autori, e specialmente di Amy Sherman-Palladino, questa comedy di alta qualità sta scivolando verso la sit-com dove i personaggi secondari erodono spazio ai principali e diramano linee diegetiche gestite con montaggi paralleli sempre più legnosi. Nulla di male nella sit com, ma nasconderla dentro un altro prodotto che non ne ha né i codici né le potenzialità cronometriche è un problema – e infatti molte scene prevedono (più del solito) la rappresentazione di monologhi con pubblici diversi (TV, teatro, night club) a sostituire l’effetto delle risate registrate. Succede ben poco in questi otto episodi. Detto ciò, rimane pur sempre una passerella di dialoghi frenetici, outfit clamorosi, movimenti di macchina folli, fulgore visivo. E c’è anche John Waters (giustamente).

SUMMERTIME 3

Summertime 3 su Netflix: da vedere o no? Cosa ne pensiamo

D’accordo, nessuno può spacciare questa serie per qualcosa di fondamentale. Però una piccola lancia la spezzerei. Giunta in un momento in cui molti la confrontavano erroneamente con la ben più importante Skam Italia, Summertime è una classica serie triennale Netflix “glocal”, con una valorizzazione pop del territorio locale. La Romagna sta diventando da tempo qualcosa di diverso e vendibile, anche grazie a un lavoro di cromatizzazione, globalizzazione e multiculturalismo che creatori e sceneggiatori hanno tenuto qui ben presente. L’elemento nostalgia è garantito sia dalla colonna sonora (piena di canzoni italiane del passato) sia dal recupero delle atmosfere sentimentali light alla Sapore di mare. Gli attori sono spesso incerti ma offrono una loro autenticità e la protagonista è una scoperta decisamente interessante (da vedere però se esiste in Italia un sistema plurale teen di cinema e TV che possa dare un futuro ai tanti attori emergenti che stanno emergendo). Insomma, più che il classico guilty pleasure, un normal pleasure di cui alla fine abbiamo apprezzato concept produttivo e onestà nell’offrire il disimpegno estivo come orizzonte totalizzante.

BANGLA – LA SERIE

Bangla - La serie - RaiPlay

Bella l’idea Fandango/RAI (e Raiplay) di espandere il piccolo film del 2019 in una serie più lunga, affidando il ruolo di head a Phaim Bhuiyan. Un’autorialità-mondo che guarda, pur con la prospettiva multiculturale ed “etno”, all’ironia di Zerocalcare. E la presenza di Emanuele Scaringi in co-regia (La profezia dell’armadillo) non deve essere un caso. Aggiungiamo, come modelli internazionali, altre due serie “autofiction” come Master of None di Aziz Ansari e Ramy di Ramy Youssef (quest’ultima però ben più urticante e meno vicina alle atmosfere di Bangla). Il mescolarsi di storie personali, piccole vicende da letteratura di “Torpigna” e una storyline principale con una storia d’amore un po’ inverosimile tracciano la via per un orizzonte probabilmente limitato ma da considerarsi importante per vari motivi – a cominciare dall’idea che la seconda generazione cominci a produrre narrazioni italiane.

LA MALA

La Mala', o quando Milano non era da bere. E non è detto che fosse peggio |  Rolling Stone Italia

Le docu-serie stanno crescendo vertiginosamente in questi anni, e l’alleanza con la podcast culture dedicata al crime appare evidente. La Mala racconta la Milano tra il 1970 e il 1984, in un momento di violenza urbana e criminale indicibile ma pre-esistente (o propedeutica) rispetto alla criminalità contemporanea – al tempo stesso infiltrata dalle mafie meridionali e dalla finanza offshore. L’approccio è potente: usando un ricco repertorio di polizi(ott)esco “nordista”, il solito (ma eccezionale) lavoro d’archivio e una narrativa centrata sui personaggi più carismatici, La Mala è una specie di The Irishman documentario (con lo stesso finale: gangster che, se non sono morti, finiscono in ospizio). Gli effetti di ridondanza e le costruzioni retoriche dei personaggi sono ormai vocabolario di genere. Molto divertente, molto appassionante, un po’ lunghetto, con il consueto dubbio di epicizzazione di gente disgustosa, di assassini di merda. Però funziona.

TUTTO IL MONDO (E PARECCHIA ITALIA) IN SALA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE NORTHMAN

THE NORTHMAN | Anteprima gratuita a Roma - MovieDigger

Già il fatto di aver scelto una recensione breve spiega qualcosa dell’accoglienza qui a bottega. Paul Verhoeven aveva intitolato Flesh and Blood uno dei suoi film più belli e aveva mantenuto la promessa. Robert Eggers non ha quella forza (per imporsi ai produttori? allora meglio desistere). Ma nemmeno trasforma il suo vichingo in un blockbuster per pubblici più ampi, perché non ha il tribalismo action di Milius e del magnifico Conan. E così si resta in mezzo, tipo blockbuster arty, con scene spettacolari che non sono né meglio né peggio di quelle di Miguel Sapochnick – che nessuno considera un autore ma è tecnicamente altrettanto in gamba – e con una ricerca spasmodica di epica che non ti si attacca mai addosso, anche a causa di un protagonista dal carisma inesistente. Insomma, sotto a queste due ore e venti potrebbe nascondersi un altro The Northman più duro, più viscerale, più stregonesco, più nero ma non siamo così sicuri che ci sia davvero.

IL NASO O LA COSPIRAZIONE DEGLI ANTICONFORMISTI

Il naso o la cospirazione degli anticonformisti - LongTake - La passione  per il cinema ha una nuova regia

Dall’iperuranio arriva il bellissimo film di Andrey Khrzhanovsky, un mix di tecniche di animazione (tra cui CGI, collage, pastello, carboncino, ritagli, pochoir e altro ancora) e di live dove la storia della Russia e del celebre capolavoro di Gogol’ vengono rilette con spirito romanzesco e dissacrante. Enorme dialogo tra le arti, e grido surreale contro la censura, Il Naso parla soprattutto della versione teatrale gogoliana di Dmitri Shostakovich (di cui si simula anche la divisione in atti). Khrzhanovskiy ha preparato quest’opera per anni e anni, addirittura fu Shostakovich in persona ad affidare allo stesso regista, allora trentenne, il progetto di un lavoro che ricostruisse quell’adattamento. Seguendo il filo di un’arte russa segnata per sempre dallo scontro tra trasfigurazione simbolica e contenimento del regime (non ultimo quello di Putin, che viene citato), il film lascia sbalorditi per densità e senso testamentario – anche cinematografico – di un intero continente. Inevitabile la riflessione sull’oggi, visto che si comincia parlando degli inverni ucraini, in una scena pensata assai prima degli avvenimenti. Da non perdere, trovando una delle poche sale dove è proiettato.

ANIMA BELLA

ANIMA BELLA - Il Cinema Ritrovato

Che annata per il cinema italiano indipendente! Anche Anima bella colpisce a fondo. Opera seconda di Dario Albertini, potrebbe sembrare meno compatta di Manuel ma poi osa di più, con una prima parte rurale e una seconda, difficile, urbana – elementi che in passato sono costati più di un problema anche a registi esperti come Alice Rohrwacher. Invece la storia funziona, il ritratto di una ludopatia solitaria e invincibile è credibile, e soprattutto lo scambio di funzioni genitoriali tra padre e figlia rappresenta lo scarto di scrittura su cui tutto il racconto ruota con grazia. Dal punto di vista spaziale e paesaggistico, lo sfondo di bar, di sale giochi e di motel è tra le cose più malinconiche viste negli ultimi anni.

LA SANTA PICCOLA

ESCLUSIVA: Il trailer di La santa piccola, selezionato al Rome Independent  Film Festival - Cineuropa

Proseguiamo in linea con il film di Silvia Brunelli, dedicato a una bambina che compie prodigi forse ispirati dalla Madonna. L’odor di santità è un tema ricorrente nel cinema italiano, tra folk e modernizzazione, da Winspeare a Rohrwacher (ancora) e persino nel mainstream con le serie Sky Il miracolo e Christian. Ma qui il bello è che il sacro non è il tema principale, bensì un’amicizia maschile circondata da una famiglia confusa. La sensazione di opera prima c’è, indubbiamente, ma non ricordo da quanto tempo non si vedeva un film italiano così sessuale, con una corporeità messa al centro del discorso e non per forza con la necessità di fungere da elemento profano contrapposto al mistico. Il resto viene da sé: fulcro potente, che protegge i fianchi scoperti e anzi decide di prenderli alla lettera e spogliarli ancor di più.

BROTHERHOOD

Francesco Montagner's documentary Brotherhood charts three siblings' coming  of age - Cineuropa

E tre. Altro titolo italo-europeo di sicuro interesse. Vincitore del Pardo d’Oro per il concorso Cineasti del Presente al Festival di Locarno 2021, Brotherhood di Francesco Montagner è stato realizzato durante oltre quattro anni per seguire lo svilupparsi della vita dei due fratelli protagonisti (pastori bosniaci rimasti soli dopo che il padre viene incarcerato per legami con la jihad). Come Californie (e come Boyhood, oltre che come alcuni leggendari documentari del passato), anche questo lavora sul tempo e sulla flagranza del reale mutamento fisico dei protagonisti. Sul bilico tra documentario e finzione, Montagner si infila per ultimo ma non da ultimo della classe, vista la precisione narrativa e l’attenzione antropologica. Un racconto di spaesamento pre-moderno in un mondo contemporaneo dominato dall’impossibilità di crescere – in tutti i sensi.

LA TANA

La tana - 2021 - Recensione Film, Trama, Trailer - Ecodelcinema

E quattro. Ancora una regista dietro la macchina da presa. Questa volta non ci sono traumi bellici alla base del racconto, né dipendenze né miracoli, ma un rapporto a due complicato da un pesante legame con il dolore. Ad affrontare il piccolo romanzo di formazione è Giulio, ragazzo ingenuo e di personalità incerta, che incontra la misteriosa e impositiva Lia. Segue un’estate di conoscenza di sé e dell’altro, e qualche segreto nascosto tra i casolari di campagna un po’ gotici dove i due si conoscono durante un soleggiato spicchio di vita. Beatrice Baldacci pare soprattutto interessata alla costruzione di un personaggio di giovane donna oscura e piena di umanità spigolosa, mentre le svolte di trama convincono meno – pur essendo un esempio anch’esso di microcinema molto naturale e bene intenzionato.

ARTHUR RAMBO

Arthur Rambo (2021) di Laurent Cantet - Recensione | Quinlan.it

Quando i film muoiono per equidistanza. La storia del blogger di origine musulmana, alle prese con un grande e democratico successo letterario, poi distrutto da alcuni vecchi tweet, appartiene a un fatto di cronaca francese. Cantet mette in scena un personaggio del tutto opaco, di cui non intuiamo nulla: è un provocatore, un attivista, un razzista, un artista frainteso? Il boh, però, non è il frutto di una riflessione sull’ambiguità della verità e sull’inconoscibilità dell’informazione contemporanea (com’era France di Dumont, viaggio eccezionale nella Francia in crisi), ma appare come un faticoso compromesso. E anche la rappresentazione della comunicazione tecnologica, qua e là intuita, si infrange contro un muto di indecisione registica. Non è la prima volta che Cantet mostra qualche limite, ma questa volta le incertezze diventano macigni.

BAD ROADS

Bad Roads - Le strade del Donbass: la recensione del film di Natalya  Vorozhbit - iO Donna

Non dev’essere un caso che le storie dei conflitti persistenti, come quello in Donbass, diventino film a episodi (o episodici, come quello di Loznitsa). Questa volta tre situazioni diverse danno vita a un mosaico surreale, dove fa capolino il cinema di guerra grottesco della ex Jugoslavia, tuttavia ancorato a un certo sano realismo che gli impedisce di trascolorare nell’apologo. A volte le parti in lotta sono faticose da distinguere, a dimostrazione che dal 2014 in Donbass – come il cinema sull’argomento ha ampiamente mostrato – si combatte una guerra sporca, dove invasore e invaso fanno cose orribili sulla pelle delle comunità di una regione impoverita dal conflitto. Miserie morali e ironie lugubri dominano, magari non sempre governate alla perfezione da Natalya Vorozhbit. Da collegare a quello che a posteriori possiamo ormai (purtroppo) definire “cinema del conflitto ucraino”.

GLI AMORI DI ANAÏS

Al cinema Gli amori di Anaïs, la recensione: il film che è una “corsa” tra  i sentimenti

Questo film è un po’ la cartina di tornasole del nostro rapporto vagamente malsano col cinema francese. In queste settimane è uscito di tutto da Oltralpe, con scarsissimo successo. Da una parte ingiustamente, perché il cinema francese continua a sfornare decine di film interessanti ogni anno. Dall’altra è giusto intravedere invece una stanchezza formulaica, un cinema medio-autoriale che conta su un mondo produttivo solido e su una tradizione umanistica importante ma che riproduce stancamente una vera e propria ideologia d’essai. Gli amori di Anaïs di Charline Bourgeois-Tacquet fa parte di questa categoria: la protagonista corre sempre come in Baumbach o Anderson, è autonoma e irrisolta come in la persona peggiore del mondo, ha una storia intensa con un’altra donna che viene narrata con tenerezza e sensualità come in Céline Sciamma, e tutto somiglia a qualcos’altro senza esserlo. Ideine, che non meritano il solito plauso d’invidia verso i cugini.

SETTEMBRE

Settembre - Groenlandia Group

Dobbiamo cominciare a preoccuparci del dramedy? Pur leggendo ovunque cose gradevoli e pur essendo convinti che Settembre possa essere a giusto titolo considerato un film stimabile, ci si chiede che senso abbia il tutto. Un film così (che peraltro viene buttato in sala con zero speranze di successo commerciale, cosa che accomuna ormai la gran parte del cinema nazionale), cambiando prospettiva, potrebbe anche essere un segnale di resa. La piccola ronde amorosa e personale delle due coppie, e dei figli, che costruisce la costellazione narrativa è esattamente quello che fanno – spesso con più tempo, spazio, acume – le serie dramedy televisive (per esempio il pimpante Volevo fare la rockstar di Rai Due). L’incessante tappetino musicale, i personaggi borghesi in crisi sentimentale, gli appartamenti poco vissuti, la ricerca dell’autenticità emotiva attraverso i piccoli accenni, il minimalismo e le sorpres(in)e….. ormai risultano interessanti se si è campioni di scrittura come Francesco Bruni, altrimenti si rischiano invisibilità e irrilevanza assoluta.

IL RE

Sky, la Polizia Penitenziaria contro la serie tv “Il Re”: «Uso improprio  del logo» - Il Mattino.it

Per la serialità Sky si tratta con tutta evidenza di una fase di passaggio. La (stanca) chiusura del franchise Gomorra è uno spartiacque simbolico: il lavoro con gli autori (Muccino), con gli scrittori (le serie di Ammaniti), con modelli più generalisti (Petra), con espansioni narrative (Romulus) e con i generi più duri (Il re) indicano una chiara voglia di ricerca del nuovo ma danno anche la sensazione di confusione editoriale. Il re non è affatto male, ma dentro convivono troppe tensioni estetiche: è crudo fino all’inverosimiglianza (Isabella Ragonese che pratica il water boarding sui detenuti come ad Abu Grahib!), ma poi apre sprazzi di umanità in personaggi che quasi non ce la fanno ad essere cattivi fino in fondo (Zingaretti), mescola giallo, carcerario, thriller, cinema di denuncia in un mélange spesso fatto di segmenti più che di polpa a strati. E il tema della Jihad sembra intempestivo. Un risultato verso cui avere rispetto, sia chiaro, ma forse poco ispirato e certamente poco ripetibile.

IMMAGINI GLOBALI DALLA TERRA ALLA LUNA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

APOLLO 10 1/2

Apollo 10 1/2: A Space Age Childhood - La recensione

Di nuovo alle prese con l’animazione al rotoscopio, l’impagabile Richard Linklater (che ancora gode di uno “scalino critico” più in basso di quel che merita) offre uno strepitoso catalogo di gioventù che si intreccia con la fantasia adolescenziale di un ragazzo che immagina di andare sulla Luna. L’intreccio sorprendente tra ucronia e nostalgia offre un impatto melanconico e umoristico di rara ispirazione, ma soprattutto la prima ora – dove lo srotolamento dei ricordi, degli oggetti, dei materiali mnestici diventa torrenziale – è grande cinema a tutti i livelli.

GLI AMORI DI SUZANNA ANDLER

Gli amori di Suzanna Andler - Film (2021) - MYmovies.it

Sul nuovo numero di Film TV (numero 16, 2022), l’amico Pietro Bianchi spiega dettagliatamente perché Benoit Jacquot è un signor cineasta. Letto tutto l’articolo, devo dargli ragione. Eppure ho fatto una enorme fatica a scalare questa montagna, pièce in unità di luogo tratta da uno scritto poi in parte ripudiato di Marguerite Duras. I tormenti, più che gli amori, di Suzanna sono tutti didascalici e i “récadrage” della messa in scena ovvii e noiosissimi, e il gioco delle parti – con sorprese – non è sorprendente. Abbiamo rimpianto La voce umana di Almodóvar.

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Qui c’è un bel problema di discorsi critico-estetici. Ovvero: questo è chiaramente un film hipster, modaiolo, furbastro, col bianco e nero fighetto, ecc ecc. Ma siamo certi che sia il giusto punto di vista? Quando diciamo che ormai il cinema “indie” è un genere, perché poi non lo giudichiamo con il metro del genere? Se nei film action ci sono gli inseguimenti e gli scontri, nel cinema “indie” c’è il bianco e nero, c’è Joaquin Phoenix, c’è la meta-riflessione sul documentario, c’è tutta questa roba qua. Quindi come “film di genere” C’mon C’mon funziona o no? Secondo me sì.

SUNDOWN

Sundown, in anteprima il trailer ufficiale del film con Tim Roth e  Charlotte Gainsbourg

Non ho ben capito perché Michel Franco sia così bersagliato. Di Nuevo Orden alcune recensioni non avevano nemmeno capito la trama della seconda parte del film, eppure era un (rozzo) esempio di pamhplet sulla simmetria del populismi dal basso e dall’alto con elementi intriganti di costruzione narrativa. Questa lenta disgregazione morale di un riccastro nella dark side di Acapulco è probabilmente un film di Ulrich Seidl senza la dimensione corporea e antropofagica del cineasta austriaco. Ma Franco continua ad essere un regista interessante e i suoi apologhi meritano una qualche riflessione.

CALIFORNIE

CALIFORNIE | Biglietti omaggio per il cinema Tibur di Roma - MovieDigger

Non ricordo un momento così ricco per il cinema italiano piccolo e piccolissimo quale quello degli ultimi anni. Anche Californie spicca in un panorama di micro-cinema di assoluto valore. La storia di una ragazza di origine marocchina, seguita dalla mdp per alcuni anni (dai 9 ai 14), in un impasto tra documentario e finzione, che per una volta è frutto di scelte lunghe e consapevoli, colpisce e commuove. Lo sbertucciato cinema del reale in verità continua a rivelarsi un caleidoscopio di progetti in cui convivono talvolta velleitarismi ma anche, come in questo caso, progetti intensi e riusciti.

UN FIGLIO

Un figlio (2019) di Mehdi Barsaoui - Recensione | Asbury Movies

La formula è quella “farhadiana” che sta diventano un modello: scelte drammatiche che mettono in conflitto il singolo e l’istituzione (o il dispositivo sociale) con svelamento progressivo di tracce oscurantiste nel vissuto dei protagonisti. Mehdi Barsaoui traspone la strategia nella Tunisia del 2011 – con tutto quel che comporta – e scolpisce un melodramma matarazziano raffreddato cui purtroppo manca proprio il coraggio di farsi fiammeggiante, rimanendo inchiodato nei moduli del cinema d’essai e del film “da discussione”. Peccato per Sami Bouajila, al solito enorme.

UNA MADRE, UNA FIGLIA

“Una madre, una figlia”, un film toccante su un legame sacro (e  indissolubile)

Scene di patriarcato in Ciad. Mahamat-Saleh Haroun racconta “femmine folli” orgogliosamente indipendenti in posti in cui sarebbe meglio non esserlo. La sottile linea tra “terzo cinema” didattico e cinema-cinema è risolta a favore di questo film grazie a elementi di pura messa in scena. Bastano l’inizio e la fine. La prima scena del lavoro manuale sulla gomma è strepitosa, materica, onesta. Il momento “revenge” è labirintico, duro, secco come il colpo del bastone che schiocca sulla testa. Qua e là poi le cose funzionano meno, ma con un atteggiamento cinematico di questo tipo perdoniamo tutto.

GRANCHIO NERO

Granchio nero (2022) - La recensione del film su CinemaLux

Action fantascientifico svedese con l’onnipresente e tostissima Noomi Rapace. Siamo in un futuro “ucrainizzato” con una guerra devastante che ha ridotto il Paese in macerie. Una combattente va in missione semi-suicida sui ghiacci con la speranza di incontrare la figlia strappata dagli invasori. Lasciando perdere ogni riflessione in materia, Adam Berg imbastisce un’avventura fin troppo lunga con alcune idee formidabili e con dignità assoluta per il genere europeo. Sia la guerriglia urbana sia la lunga parte su pattini sono da applausi. Poi sbraca, ma è un piacere (e in Italia si potrebbe fare?).

ANTIDISTURBIOS

Antidisturbios - Delitto e Castigo al TFF 2020 - ArteSettima

Arrivata a sorpresa su Disney+, la serie di Isabel Peña e Rodrigo Sorogoyen (sempre più interessante come autore contemporaneo) ha già fatto il pieno di elogi. Ci accodiamo, notando l’ossessione di Sorogoyen per la corruzione in Spagna, e notando come i problemi dei corpi di polizia – volgarmente, i celerini – siano simili dappertutto. Vincente l’idea di promuovere a protagonista una giovane donna (Vicky Luego, un grumo di bellezza e tensione), e vincente l’idea di guardare al vulcano sociale di oggi come a un conflitto tra persone troppo abituate a scontrarsi per capire il male che fanno ai presunti nemici. L’indagine convince meno dell’affresco ma è un dettaglio.

IL CINEMA DELLE COMUNITÀ IN CRISI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

LAMB

Full trailer per Lamb: nell'Islanda rurale Noomi Rapace cresce un bebè  ibrido umano-pecora - Il Cineocchio

Piccolo horror islandese con Noomi Rapace (di cui bisognerebbe cominciare a tratteggiare la figura di attrice quasi-di-genere), che si occupa di ibrido uomo/animale. Come lo svedese Border del 2018, anche Lamb lavora su elementi ancestrali, dimensioni famigliari e sessuali, elementi primari che sconvolgono gli orizzonti di conoscenza senza per questo sfociare nei codici più riconoscibili dell’occulto. Anzi, in questa storia di un figlio con testa di agnello che porta a intensificazione difficili rapporti parentali, quel che piace è la “piena luce” in cui si svolgono gli avvenimenti, con l’unico strumento del fuori campo per lavorare sul mistero e sull’occultamento. Certo il folk horror sta diventando un sotto-genere abbastanza riconoscibile, talvolta facile nelle sue articolazioni. Così come bisogna onestamente sottolineare l’inconsistenza narrativa che talvolta si nasconde negli stilemi della rarefazione. Ma il tassello di horror autoriale europeo si aggiunge al resto con merito.

LUNANA

Lunana, il film del Buthan che merita l'Oscar 2022 ha un tocco gentile e  aggraziato. Il trailer in anteprima - Il Fatto Quotidiano

Sinceramente, quando ho letto del primo film bhutanese candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, e per di più con una storia che sembrava molto simile a Non uno di meno di Zhang Yimou, la parte più cinica di me ha pensato al consueto prodotto didascalico esotico che piace molto al pubblico pomeridiano delle sale d’essai. Visto il film, pur non rimangiandomi completamente lo scetticismo iniziale, devo ammettere che Lunana ha numerose frecce al suo arco. Lo stile è nitido più che risaputo, la trasparenza del protagonista più autentica che costruita retoricamente, la pudicizia della non-storia d’amore quasi fordiana in certi momenti di wilderness, la tensione tra aspirazione sociale giovanile e tradizione di villaggio non così scontata come sembra. Probabilmente in mani più autoriali sarebbe diventato cinema contemplativo d’autore, ma l’aver scelto una chiave più ingenua ed empatica non è certo una colpa, anzi.

IL MUTO DI GALLURA

Il muto di Gallura” al Torino Film Festival - La Nuova Sardegna

Tanti indizi cominciano a fare una prova. La storia folk italiana sta diventando un elemento di elaborazione narrativa interessante per il piccolo cinema indipendente italiano: Piccolo corpo, Re Granchio, solo per citarne due recenti, ci parlano come Il muto di Gallura di territori, credenze, legami di sangue, rituali e comunità, ognuno poi lavorando su fronti non autoctoni: il film di viaggio, il western, persino l’horror. Nel film di Matteo Fresi lo scenario è quello di una faida ottocentesca sarda, un Hatfield & McCoy all’italiana, dove fucili, cavalli, cinturoni e buone mire furono decisive per proseguire un conflitto pluriennale e sanguinosissimo. Il progetto è molto forte, pensato nel modo giusto. I problemi vengono con i materiali concreti, a cominciare da attori molto diseguali, cali di potenza registica improvvisi, enfasi che non sempre riesce a essere riassorbita nel nerbo del racconto. Inoltre il western è un modello fin troppo evidente, con scolastici brani musicali simil-morriconiani che rischiano di indebolire l’idea.

PO

Po, Andrea Segre e Gian Antonio Stella ricordano l'esondazione del 1951 |  CameraLook

L’attività di Andrea Segre è incessante, alternando documentari e cinema di finzione. Ormai il mondo veneto per Segre è luogo di mitografia, ricostruzione storica e dedizione narrativa. Questa volta si racconta una tragedia dimenticata: il 14 novembre 1951, l’argine sinistro del Po si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più povere di tutta Italia. Vengono invase non solo le campagne, ma uno a uno tutti i paesi, fino alle città di Rovigo, Adria, Cavarzer: tantissime vittime e tantissimi sfollati. Non c’era la televisione, ma l’Istituto Luce, i cui archivi vengono ampiamente saccheggiati da Segre (con Rizzo, co-autore). E i bambini di allora, oggi vecchi che parlano quasi solo in dialetto, raccontano i loro ricordi, dominati dalla miseria prima ancora che dalla tragedia. Forse meno avventuroso e inventivo di altri doc di Segre (ma chiarezza e solidità non vanno affatto considerate concessioni), Po ha il dono di essere limpido e sentito.

MASTER – LA SPECIALISTA

Di cosa parla il film Master

Black Lives Matter Horror prosegue. Questa volta la storia riguarda la promozione a dirigente accademica di una professoressa nera, la prima del Campus, e i guai che affronta una studentessa che alloggia in una stanza maledetta (non si contano le sovrapposizioni col recente Seance). Al posto dei colpi di scena a buon mercato, la regista Marianna Diallo preferisce una tensione carica di malinconia e la consueta vena didascalica (per questa declinazione di genere, escluso il più imprevedibile Jordan Peele): è un tratto tipico della narrazione audiovisiva afroamericana, non trattandosi di retorica pedagogica bensì della necessità di exempla potenti su cui forgiare il discorso sull’identità. Il tema in questo caso è la sostanziale persistenza di razzismo e paternalismo nei confronti dei colleghi neri da parte della comunità degli accademici bianchi anche quando si credono progressisti. Peccato per un terzo atto scialbo e tirato via. Master sembra una versione dark della serie Netflix La ditettrice, ma qui siamo su Prime Video, a riprova di quanto i prodotti di “genere/politica” siano frequenti sulle piattaforme.

STORIE DI ASPIRAZIONI E TRASFORMAZIONI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

CODA – I SEGNI DEL CUORE

CODA - I segni del cuore: dove e quando vedere il film Premio Oscar

Uno degli Oscar al miglior film più anonimi di sempre. Non certo perché si tratti di un remake (gli adattamenti di tutti i tipi sono un aspetto fondamentale del cinema fin dalla sua nascita) ma per la pigrizia con cui è stato confezionato. Difficile sostenere altresì che sia un brutto film, il che è quasi peggio perché la bruttezza talvolta è un segno di vita mentre in questo caso ci troviamo di fronte al classico good job (ricordate il monologo del maestro di jazz di Whiplash?). A proposito di good, possiamo dire che La famiglia Bélier era un classico feelgood movie, di cui Coda trattiene gli elementi euforici con una qualche, pallidissima, aggiunta di critica sociale (il peschereccio) a favore degli esclusi. La presenza di Marlee Matlin e di attori sordomuti garantisce la correttezza assoluta, ma si tratta a tutti gli effetti di un film perfetto per lo streaming. Almeno Netflix presentava alcuni film cinema-cinema, quale Coda non è.

UNA STORIA D’AMORE E DI DESIDERIO

Una storia d'amore e desiderio, un film poetico e intenso che racconta una  lotta interiore (e generazionale)

Interessanti ribaltamenti di prospettiva nel nuovo film di Leyla Bouzid. Abbiamo infatti un giovane maschio francese di origine algerina, cresciuto nella periferia di Parigi con forti elementi di conservatorismo morale. E abbiamo Farah, di cui il ragazzo si innamora, tunisina appena arrivata nella capitale francese e ben più aperta agli incontri occasionali e alla scoperta dell’altro. Per una volta è l’uomo a sottrarsi all’erotismo, e la donna a insegnargli la fisicità dell’amore. Ci metterà tutto il film per farlo, sfruttando anche una tradizione meno nota di letteratura araba erotica. Il cinema sul desiderio è sempre questione di sfumature. Bouzid lo sa e lavora molto bene a partire dalla struttura ottica dell’attrazione, dove lui e lei si scambiano le caratteristiche culturali della danza seduttiva. E anche se la durata del lungometraggio pare eccessiva per un racconto che si mantiene sullo stesso asse per cento minuti, il film ha le idee chiare.

CALCINCULO

Calcinculo, il trailer ufficiale del film [HD] - MYmovies.it

Nuovo gioiellino prodotto da Tempesta. Piccolo cinema italiano dei margini, che sinceramente vediamo spesso ma che altrettanto sinceramente non sempre è ben diretto o attentamente sorvegliato. Di Calcinculo piace proprio l’attenzione di Chiara Bellosi nel costruire gli spazi, gli ambienti, i corpi, il rapporto tra dentro e fuori, viaggio e stasi, giri a vuoto e linee rette: un lavoro davvero ricco, anche se applicato a una vicenda volutamente minimalista. Si comincia con una storia di bulimia e si prosegue con un confronto tra sessi e sul sesso con un outsider assoluto che modifica la visione del mondo della protagonista. Ovviamente ci sono “ganci” di sceneggiatura fin troppo visibili (del resto evidenziati fin dal titolo), ma come detto è proprio nella messa in scena e nella direzione degli attori che il film si incarna e si verifica, e non per forza in cerca di flagranze rohrwacheriane o marcelliane – che altrove hanno fatto scuola nel cinema indipendente nazionale. Infine, una citazione speciale per Andrea Carpenzano, sempre più elettrico.

CORRO DA TE

Corro da te, film con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone: trama, trailer,  uscita | Radio Deejay

Ci sono due modi di guardare a questo film. Uno senza troppe menate, per cui ci troviamo davanti a una discreta commedia di Riccardo Milani che aggiorna alcuni elementi “sofisticati” hollywoodiani attraverso un adattamento accettabile dell’originale francese. Poi ce n’è un altra – che sappiamo rischiare l’eccessiva seriosità – che si chiede che senso abbia rappresentare in questo modo la disabilità fisica. Si consideri che nel film uno degli elementi narrativi centrali è che chi si finge disabile viene riconosciuto lontano un miglio dai veri disabili: perché solo loro sanno che cosa vuol dire essere, e non sembrare, limitati da un handicap ogni minuto della propria vita. Ah, sì? E perché quindi noi spettatori dovremmo credere alla bellissima Miriam Leone che si muove disinvolta sulla sedia a rotelle dandoci una lezione sul fatto che tra le disabili si nascondono meraviglie da Miss Italia? Non si tratta di imporre attrici disabili in ruoli di disabile per puri motivi di correttezza ma di non mentire così spudoratamente tra morale della favola e modi per raccontarla.

ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO

Altrimenti ci arrabbiamo! 2022: trama cast confronti originale | Style

Flop terrificante per questo remake che osa mettere mano al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Il trailer e i materiali promozionali sembravano in verità aver trovato una chiave per ricordare lo spettacolo popolare di mezzo secolo fa, oggi spina dorsale di prime time delle reti private. Purtroppo il lavoro di Younuts! è un mezzo disastro dal punto di vista del world building. Pesce e Roja ce la mettono tutta per imitare i due miti, ma si trovano immersi in un mondo totalmente svuotato: non solo la scenografia è tristemente di cartapesta, i volti sono sbagliati, i ritmi comatosi, le scazzottate fasulle, le risate telefonate e così via; è che man mano che il film prosegue ci si accorge che quel cinema artigianale e quel pubblico pop non esistono più. Si sostenevano l’un l’altro e si sono trasferiti in una ritualità da piccolo schermo ormai non più resuscitabile. Rimane dunque solo la possibilità di una reviviscenza postuma, che però dovrebbe averne la consapevolezza. Un film per nessuno che voleva essere per tutti.

VIAGGI NEI MONDI E VIAGGI NEL TEMPO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

IL MALE NON ESISTE

Il male non esiste: trailer, trama, cast e anticipazioni film Orso d'Oro

Il cinema iraniano ha reinventato di sana pianta anche il cinema a episodi (ricordate Ten di Kiarostami, per dirne uno?), offrendo a questa struttura la possibilità di lavorare come mosaico e non come addizione. Nel film di Mohammad Rasoulof, che ha vinto l’Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino 2020, gli episodi sono uniti dal tema della pena di morte. Per le sue posizioni e per il contenuto il regista ne ha passate – e ne sta passando – delle brutte in patria (tanto per ricordarci quanti autori vivono tuttora sotto regimi censori, vedi anche poco sotto). Il male non esiste peraltro cerca di inserire l’orrore dell’esecuzione capitale (che Farhadi nell’ultimo film ci ricordava poter essere riscattata da denaro) in un contesto di gente comune: i boia sono persone come noi, che a volte svolgono il loro lavoro con metodica malinconia e in altri rimangono traumatizzati o vogliono fuggire. Meno convincente quando il racconto diventa troppo costruito, il film capitalizza quello che è ormai uno stile mutevole, transitato da Kiarostami a Panahi, da Farhadi alla nuova generazione.

PARIGI, TUTTO IN UNA NOTTE

Parigi, tutto in una notte: trailer del film con Valeria Bruni Tedeschi |  Lega Nerd

Per pura coincidenza distributiva escono due film francesi che fanno della compressione temporale e della tensione cronologica l’architrave del racconto. Sono questo, di Catherine Corsini, e Full Time, di cui parleremo la prossima volta. L’idea di La fracture (titolo originale) è che in un pronto soccorso, per alcune ore dopo il tramonto, si assiepino i reduci (feriti) di una manifestazione di gilet gialli, altri normali pazienti bisognosi, e persino qualcuno con disordini mentali. Infermieri sottopagati, medici in prima linea, gas lacrimogeni che si vedono in lontananza (nemmeno troppo) e corpi rotti o vulnerati: Corsini non sembra interessata a un approccio “carpenteriano”, l’assedio è stemperato da sottili ironie e da un personaggio (interpretato da Valeria Bruni Tedeschi) quasi screwball. Attenta a non condannare nessuno – più che altro a sottolineare le magagne del welfare allo stremo – la regista porta a casa un discreto risultato, nulla più. Cinema medio-autoriale francese in purezza.

PETROV’S FLU

Petrov's Flu, il trailer italiano del film di Kirill Serebrennikov -  MYmovies.it

Si può vedere sulla meritoria piattaforma IWonderfull questo alcolico e stralunato film randagio di Kirill Serebrennikov, dissidente russo nel mirino di Putin e degli zelanti funzionari del despota, più volte in carcere e spesso tenuto lontano dai tappeti rossi dei festival dove i suoi film vengono proiettati. Mettendo le mani dentro le viscere del contemporaneo. Serebrennikov gira un piccolo capolavoro maledetto, dove il flusso di oggettività e soggettività scorre senza soluzione di continuità. Il motore narrativo è un’influenza di massa che altera le sensazioni e la capacità di essere vigili a se stessi: ogni stereotipo russo (dall’alcool al sentimentalismo, dalla musica alla violenza) viene, durante il fluviale racconto, decostruito e riconfermato. Attraverso la lente dell’irrazionalità e di un “realismo visionario” che riesce a far convivere sarcasmo e tragedia, Serebrennikov si afferma come maiuscolo narratore. Inutile dire che la visione di questo film oggi assume significati ulteriori.

ACQUE PROFONDE

Deep Water: primo trailer del thriller erotico con Ben Affleck

Adrian Lyne, ottantunenne, torna dopo vent’anni dietro la macchina da presa per Prime Video e un sacco di cinefili si sbracciano nel cercare analogie con il cinema thriller anni Ottanta e con l’estasi dell’immagine patinata che l’autore contribuì a fondare in quel decennio. Peccato nessuno si sia accorto che Deep Water sembra un remake spiaccicato dell’ultimo, pessimo Lyne di inizio anni Duemila – Unfaithful – con l’unica differenza che è la moglie, e non l’amante, a essere giovane. Tratto da un bellissimo romanzo di Patricia Highsmith, qui adattato senza capirne le sottigliezze, si tratta di quello che avremmo definito straight-to-video ma con attori importanti (il che sembra una definizione calzante per un certo cinema in streaming di questi anni). Fiaccato da un montaggio impresentabile e da una regia poco lucida (basti vedere la scena dell’inseguimento in bici, tra go-pro e pessimi stunt, per capire), il film parla di sesso senza farne vedere quasi mai – Lyne era più generoso un tempo – costruendo un ambiguo Ben Affleck, che però non ha l’ambiguità nel suo vocabolario recitativo.

THE ADAM PROJECT

The Adam Project: la recensione del nuovo film con Ryan Reynolds - NerdPool

Un tempo si parlava di “vulgar auterism” per gente come Michael Bay e Justin Lin (fracassoni ma riconoscibili). Anche Shawn Levy è un tipo riconoscibile: ha una fiducia incrollabile nello spettacolo per famiglie, gestisce budget alti ma non infiniti, ama faccette innocue come Ryan Reynolds, non disdegna bimbi in scena, adora i dialoghi con battutine pronunciate dai protagonisti nei momenti in cui rischiano la vita. Qui di mezzo c’è un viaggio nel tempo e una curiosa coppia formata da un uomo e dal se stesso bambino, che avrebbe in altre mani offerto materia struggente e qui viene incenerita da un flusso di action e di buddy-comedy da stancare anche il più prestante fan del popcorn movie. Poi a fare i moralisti si rischia di non capire come funzionano gli algoritmi di Netflix e i trilioni di ore di visione che Adam Project raggiungerà. Insomma è un tipico film pronto per analisi accademiche di produzione e consumo. (A un certo punto salta fuori Mark Ruffalo, al solito spettinato e stropicciato, e tutto prende una piega più nobile. Ma è un attimo).

CORPI ED EUFORIE NELLE RECENTI SERIE TV

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

EUPHORIA 2

Euphoria 2x07 - The Theater and It's Double | Recensione

Pur senza la carica pornografica e virulenta della prima stagione, la creatura di Sam Levinson (e Zendaya) continua a produrre ottima serialità. Lo slittamento frenetico tra teen drama, serie shock, crime (più sviluppato stavolta, e non a caso) e tossicità varie funziona con intermittenze sempre più studiate. Dal punto di vista narrativo trionfa il montaggio alternato corale, dal punto di vista stilistico ricompaiono – forse meno esibite – le acrobazie di camera work che avevano portato la prima stagione ad essere analizzate nelle aule universitarie e nelle scuole di cinema. Per il resto potremmo parlare per ore di colori, fotografia, fashion, makeup e del caleidoscopio visuale che fa la forza di Euphoria, ma ci limitiamo a segnalare le ultime due puntate, con uno spettacolo teatrale che moltiplica e porta a vertigine la materia del racconto. Nel mentre, scorrono a commento musicale le note di Ennio Morricone, Nino Rota, Francis Lai, Georges Delerue, e altre colonne sonore famose e meno famose, con ghiotta cinefilia e piacevoli spiazzamenti audio-sonori. Menzione d’onore alle formidabili Maud Apatow e Sydney Sweeney.

PAM & TOMMY

Pam & Tommy': Sebastian Stan Shares His Hesitations About Playing Tommy Lee

Quel che doveva essere e quel che è stato. Quel che doveva essere: un American Crime Story dedicato al sex scandal di Pamela Anderson e Tommy Lee, un’indagine sulle origini del voyerismo Internet, una riflessione sul mezzo audiovisivo e sul fandom, una storia andersoniana di dropout e di poveri diavoli americani, una radiografia della celebrity culture anni Novanta, un racconto vintage sulla cultura pop di fine secolo, un ritratto di Pamela come vittima di un sistema mediatico brutalmente maschilista. Quel che è stato: tutta questa roba ma confusissima, scritta in modo scriteriato, girata con totale discontinuità tra un episodio e l’altro, dispersiva e magmatica. Detto questo, mentiremmo se dicessimo che non ci siamo divertiti, soprattutto grazie a Lily James, generosissima. Curiosamente, la serie comincia apparentemente incendiaria dal punto di vista sessuale (con tanto di pene “parlante” di Tommy Lee) per finire castissima: il video incriminato è fuori campo, il seno di Pam sempre occultato, la pruderie in soffitta.

FEDELTÀ

Dove è stata girata Fedeltà: la casa e le location della nuova serie di  Netflix

Il partito del disastro ha già spernacchiato la serie tratta da Missiroli e diretta da Cipani e Molaioli. E infatti non si può certo affermare che sia una serie riuscita, ma di certo aveva un progetto produttivo piuttosto chiaro: adattare il romanzo in direzione Sfumature (meno eros e niente sadomaso, ovviamente, ma l’estetica e le musiche sono quelle lì) e parlare di coppie precarie con desideri inconfessabili a un pubblico di trenta-quarantenni. Per una volta, insomma, niente teen e niente fantasy (non è che le altre serie italiane su Netflix abbiano del resto brillato). Irrita la Milano dei loft, delle gallerie e dei bistrot intellettuali – simile a quella di Supereroi, che però era più imperdonabile – ma se si abbandonano un po’ di pretese e si guarda alla cosa senza aspettarsi più di tanto c’è di peggio (almeno per chi si nutre del plancton audiovisivo ogni giorno della sua vita e ne vede di tutti i colori). Bisogna poi ammettere che almeno Fedeltà non fa parte di quelle “fiction” che potremmo vedere sui canali generalisti, capitate per caso sulle piattaforme (strategia Prime Video).

L’AMICA GENIALE 3

L'amica geniale” 3, tutto quello che c'è da sapere sulla nuova stagione  della serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante - Corriere.it

Terza stagione con un cambio importante in regia. Dopo Saverio Costanzo (che aveva anche compiti da showrunner) arriva Daniele Luchetti, che ha l’umiltà – e forse il mandato – di non modificare stile e impianto. Magari mancano i momenti più flagranti e stilosi, per esempio quelli delle puntate al mare realizzate da Alice Rohrwacher nella stagione 2, ma l’impianto regge, anche grazie a una direzione di cast molto attenta e a una ricostruzione storica che risente meno del solito della “rigatteria” da fiction Rai Uno. L’operazione ha sapore internazionale e così si spiegano i dialoghi crudi quanto nel romanzo e la scelta del sottotitolaggio, solitamente tabù per la prima serata della TV di Stato. In ogni caso la verità rimane sempre la stessa: mettere mano al fluviale romanzo in quattro parti di Elena Ferrante poteva essere una scelta suicida e un disastro annunciato, e invece si può affermare ormai che – giunti a una sola stagione dalla fine – L’amica geniale serie TV cade in piedi.

CHRISTIAN

Christian recensione: la nuova serie Sky Original con Edoardo Pesce e  Claudio Santamaria

Si è conclusa un po’ nell’anonimato della risposta critica e di pubblico questo interessante esperimento Sky. Tratta da una potente graphic novel di Mattotti e Piersanti, e diretta da un regista che sta caparbiamente cercando strade di genere atipiche in Italia (Stefano Lodovichi), la serie intreccia misticismo e suburra in un curioso mix tra violenza e miracoli probabilmente – fin dalle intenzioni – non lontano dalle atmosfere mainettiane. Edoardo Pesce e la conferma di un’ormai affermatissima Silvia D’Amico fungono da boa per l’impianto narrativo, che funziona a corrente alternata ma con una solidità estetica e diegetica innegabili. Manca forse l’elemento davvero sovvertitore, quell’andare fino in fondo che le serie italiane quality sembrano un po’ aver paura a mettere in atto (compresa la versione seriosa di questo: Il miracolo di Ammaniti, più a suo agio con l’ottimo Anna). Comunque, dal punto di vista industriale, è un bene la creazione di numerosi prototipi, segnale di curiosità non priva di qualche coraggio strategico.

LO SGUARDO CHE (NON) PARLA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’ACCUSA

La pagella del Mereghetti «L'accusa», un film per riflettere sulla cultura  dello stupro (voto: 7)- Corriere.it

Questo film processuale su un caso di presunto stupro sta facendo arrabbiare mezzo mondo. Da fuori somiglia a un buon prodotto di cinema medio-autoriale francese. La coppia Yvan Attal (regia) e Charlotte Gainsbourgh (interprete di una figura non centrale ma importante) sembra confermarne la direzione poco “cinéphile” e molto drammaturgico-centrica. Le ambizioni invece si scoprono alte: cercare di capire in modo spietatamente oggettivo che cosa è successo una notte tra un ragazzo – poi accusato di stupro – e una ragazza. La mdp si ferma fuori dalla baracca dove avviene il tutto. E il processo può solo lavorare sulla verità giudiziaria. Ci sono due errori, uno della sceneggiatura (credere che si possa essere oggettivi al cinema: basta un montaggio tra due frame per non esserlo) e uno degli spettatori (che invece sono chiamati a interrogarsi, e se trovano risposte controverse scaricano la rabbia sull’autore).

COW

Cow recensione documentario di Andrea Arnold [MUBI] - MadMass.it

Animal cinema. Non è la prima volta che un documentario (Andrea Arnold, MUBI) tenta di ribaltare lo sguardo antropocentrico del film per aprire una “biodiversità” anche cinematografica (penso di recente a Gunda di Kossalovsky). La strada è però scivolosa: se da una parte la cronaca oggettiva di quel che accade alla mucca Luma non può che muovere a riflessioni intense – un ciclo di vita che di fatto è un ciclo produttivo, dove gli automatismi naturali vengono soggiogati (ma non annullati, si veda la monta) dal processo della fattoria – dall’altra è impossibile rimuovere la presenza antropica della macchina da presa. Lo sguardo bovino è uno sguardo neutro e incomprensibile, ci mette in questione ma filosoficamente non esprime nulla, per cui è una forma di passività facile da sfruttare per l’uomo. L’intrusione dell’atto del filmare, addosso alla mucca senza distanza, non può ovviamente essere altro che un tentativo di comunicazione che fallisce, ma qui senza prendersi la responsabilità di questa estraneità. E quando la mucca crepa davanti a noi, nemmeno il suo sguardo in agonia (ripreso impietosamente, quasi a sottolineare l’apparente imparzialità della mdp) ci dice nulla se non “sono morta, ora potete andarvene, grazie”. Il che forse era il senso del film o forse è la resistenza alla spettacolarizzazione di una mucca qualsiasi.

VOYAGE OF TIME

Voyage of Time - Il cammino della vita, torna al cinema Terrence Malick  (trailer)

Con l’uscita, finalmente, di Voyage of Time del 2016, si completa la filmografia di Terrence Malick distribuita in Italia. Di Voyage of Time in verità ce ne sono persino due: un mediometraggio pensato per gli Imax (ora su MUBI) con la voce narrante di Brad Pitt; e un lungometraggio, quello di cui parliamo qui, con la voce narrante di Cate Blanchett (ovvero la precedente con l’aggiunta di altri 45 minuti in 35 mm). Che dire? Si tratta della trincea che divide malickiani da non malickiani. I primi troveranno questo poema visivo, teo-mistico e naturalista come un combattimento romantico tra il titanismo di Malick e la povertà ideologica del cinema contemporaneo; gli altri lo ridurranno a una versione deluxe di un doc National Geographic (che co-produce) con in più aspetti biblici fantasy. Chi scrive sta da sempre dalla parte dei primi, pur ammettendo che il problema si pone. Ma la verità è che con Malick e Herzog, anche quando vai a sbattere, esci con bernoccoli che ti fanno pensare a quanto sei fortunato di esserteli procurati e quanto preziosi siano nel panorama odierno.

SEANCE – PICCOLI OMICIDI TRA AMICHE

Seance - Piccoli omicidi tra amiche - Film (2021) - MYmovies.it

Ancora più di Dario Argento, sono gli argentiani a sopopolare ancora oggi nel cinema contemporaneo. Certo, bisogna avere il DNA, e se l’ultimo Argento ha momenti curiosamente fulciani, non tutti i registi sono come Edgar Wright che frulla i maestri dell’horror italiano mescolandoli al free cinema inglese. Simon Barrett, alla prima regia, reduce da alcuni buoni script di genere (il migliore è You’re Next per come ribalta le aspettative), qui sembra quasi poco interessato. Conduce in porto un Suspiria trasformato in teen slasher con qualche citazione, qualche discreto momento gore nella lunga scena finale, qualche godimento parziale. Ma siamo lontani da un horror significativo, come ormai del resto pochini ne vediamo.

NON APRITE QUELLA PORTA

Sarà Netflix a distribuire il nuovo film Non Aprite Quella Porta •  Universal Movies

Se ne sentiva il bisogno? No. Ora che lo abbiamo visto abbiamo capito che in verità se ne sentiva il bisogno? No. Quel che è peggio è il tentativo di vaga politicizzazione del tema: Leatherface vendica una vecchia mamma sbattuta fuori da casa sua dal capitalismo liberal e scatena un massacro contro un gruppo di giovani influencer democratici pronti a gentrificare la cittadina. L’idea è che – di fronte a gente così snob e odiosa – la simpatia per il mostro si crei in automatico, e forse di scoprire il trumpismo che è in noi. Il problema è che il film di Netflix è costruito in modo osceno, con una sotto-trama stile Halloween di David Gordon Green (che tenta di ricollegarci al capostipite) a dir poco inetta. Inoltre, la lettura ideologica era già ben presente sia in Tobe Hooper sia nei remake dei primi anni Duemila, in pieno post-11 settembre. PS. con la mania di re-intitolare i reboot allo stesso modo ora abbiamo tre film che si chiamano Non aprite quella porta, 1974-2003-2022.

LANDSCAPERS

Landscapers 2: tutto quello che si sa

Incomprensibilmente lodata dai più come una tragica e deliziosa miniserie su due “criminali inconsapevoli” e ispirata a un fattaccio di cronaca con protagonista una coppia di mezza età molto affiatata e quasi isolata dal mondo (una versione british di Olindo e Rosa), Landscapers è davvero irritante. Non avendo le spalle larghe per entrare davvero nella testa di due menti omicide nate da deviazioni e ottusità, la serie ideata da Ed Sinclair e diretta da Will Sharpe cerca di individuare un tono vagamente grottesco dove la narrazione delle vicende (con tanto di cronaca vera alla fine di ogni puntata) trascolora nella fantasia demente dei due coniugi, spesso messa in scena come una parodia dell’immaginario cinematografico – di cui la moglie è dipendente in modo morboso. Né le prove attoriali di Olivia Colman e David Thewlis, che ricamano su intonazioni e pronunce un prezioso tappeto di sfumature, servono a cavare la mini-serie dal pasticcio innecessario che si dimostra, con un finale affrettato e confuso. Ah, la “qualità” a tavolino, che noia.

DAL PIANETA DEL CINEMA E DEGLI AUTORI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

PICCOLO CORPO

Piccolo corpo - Cinematografo

Si sta evidentemente producendo un cinema italiano della “Storia minore”, che scava nel passato dei territori e delle comunità trovando contemporaneamente strumenti estetici autoriali di forte interesse. Certo, il contesto è quello del “cinema da festival” e dei pubblici di nicchia, ma film come Piccolo corpo, Re Granchio, Menocchio e altri hanno forza espressiva da vendere e capacità di sfruttare appieno la ricchezza linguistica e antropologica del nostro Paese. Toccando il tema sensibile della maternità, e mettendolo a confronto con un mondo sospeso di superstizioni fantastiche, Laura Samani costruisce anche un percorso sui generis e sui generi (anche sessuali) sfruttando sane ambiguità formali e narrative. Il tema delle forze naturali e della materialità si impone su tutto il resto, anche a livello compositivo, cosicché i temi e le allegorie arrivino solo dopo l’autenticità espressiva del film – un percorso poetico, questo, che non pare molto chiaro a un’altra fetta di cinema italiano dove nascono prima i messaggi e poi le domande su come rappresentarli. Piccolo corpo ama scorrere vicino al confine, tra abisso e caverna, e ci riesce benissimo.

DAL PIANETA DEGLI UMANI

Dal pianeta degli umani - Film (2021) - MYmovies.it

Possiamo ben dire che ormai Giovanni Cioni è una certezza. Il suo cinema si è guadagnato il rispetto di tutti grazie e quel rigore misto a spericolatezza, a quell’attenzione che non esclude un po’ di anarchia, tali da farsi amare nel tempo. In questo progetto quasi indefinibile (documentario, found footage, fanta-reportage, home movie di un alieno….), Cioni si occupa della frontiera Ventimiglia-Mentone e va alla ricerca della tratta dei migranti, accorgendosi però che essi sono come inghiottiti dall’invisibilità imposta dal confine e dalla morte. Ma il film devia, e si trasforma nel racconto di un medico visionario del luogo, Voronoff, realmente esistito e per un certo periodo amato dalla bella società, autore di esperimenti a metà tra il frankensteiniano e l’eugenetica. I temi si intrecciano sempre di più, e l’indagine si allarga a cerchi concentrici abbracciando diverse forme di audiovisivo e ampie aree del pensiero: dalla storia della scienza alla filosofia, dalla biopolitica alla cinefilia, in un vortice di ispirazioni sempre più eccitante. E alla fine è come se fosse proprio il cinema nella sua funzione di medium che risorge da se stesso a fungere da elemento catalizzatore di tante vite, vicende, memorie disperse nelle zone d’ombra della Storia.

AFTER LOVE

After Love": scontro di civiltà tra Dover e Calais che ha sorpreso Cannes e  il pubblico inglese - L'Espresso

Il ricco sotto-filone dei segreti matrimoniali scoperti solo dopo la morte del coniuge si arricchisce di questo esordio dell’ anglo-pakistano Aleem Khan, pluri-candidato ai Bafta Awards. La storia, molto semplice, di una vedova inglese convertita all’Islam e della sua ricerca della “seconda famiglia” dell’insospettabile marito, viene condotta attraverso il massimo pudore possibile. La strategia di sceneggiatura per la quale, con feroce annotazione sociale, la protagonista viene scambiata per una sorta di collaboratrice domestica, permette alle due vedove di confrontarsi senza che una delle due sappia dell’altra. L’osservazione di classe, e una qualche annotazione sui corpi e sull’erotismo di autenticità non banale, fanno sì che After Love eviti le trappole del sentimentalismo, almeno fino a un certo punto del racconto. Certo, gira un po’ aria di “cinema d’essai standard” e la regia sembra più preoccupata di non esagerare che di costruire un mondo complesso, tuttavia ogni cinismo sarebbe ingeneroso. Interessante notare che film come questo – a differenza di un certo tipo di cinema medio all’americana – non sarebbero molto appetibili per un mercato di streaming diretto, avendo il loro “acquario antropologico” proprio nel consumo delle sale di qualità.

IL DISCORSO PERFETTO

Il discorso perfetto: recensione del film - Cinematographe.it

Ottimo esempio di commedia che si dota di una struttura intrigante. Laurent Tirard imposta diversi piani temporali che partono come vettori da una apparentemente infinita cena di famiglia, in cui l’indolente protagonista intreccia flashback e flashforward (taluni per di più ingannevoli) legati alla propria vita sentimentale. Il tutto ambientato in uno “spazio bianco” tra un sms e la sua mancata risposta, mandato dall’uomo alla sua ex. Non bastasse, Tirard utilizza massicciamente ogni tipo di astrazione, a cominciare dall’interpellazione allo spettatore – che di solito, quando se ne abusa, fa cadere le ginocchia. E, bisogna ammetterlo, Il discorso perfetto è in grado di irritare, o persino di far perdere il lume della ragione ai cinefili più esigenti in cerca del cinema-cinema e non di una commedia francese vagamente alleniana e decisamente maschio-centrica. Ma in queste righe, sebbene ispirate alla cinefilia, prevale l’interesse verso la costruzione dei film, verso la teoria sottostante, e perché no verso la dimensione comparatistica (commedia italiana, batti un colpo: Genovese e Genovesi, pur diversi, chiamati direttamente in causa).

I CIELI DI ALICE

La recensione di I cieli di Alice | Cineforum

Esordio al lungometraggio di una regista star del corto, Chloé Mazlo. E il suo primo film sembra proprio introiettare sistematicamente nella narrazione la dimensione – anche spaziale – del cinema breve. Non solo perché ci sono tecniche miste, con la stop motion ad arricchire in certi momenti la ripresa tradizionale, ma anche perché azioni, avvenimenti e vicende assumono l’aspetto di tante piccole miniature, attraversate “a striscia” da un’Alba Rohrwacher che si spoglia di alcune isterie da cinema italiano per approdare a una più sottile figura di extraterrestre fragile. La storia è al tempo stesso surreale e intima: negli anni Cinquanta una ragazza svizzera si catapulta in Libano dove si innamora di un astrofisico. Le connessioni bizzarre sono pane quotidiano del cinema d’autore internazionale, e qui Mazlo non se ne fa mancare nessuna: guerra civile e conquista dello spazio, genere romantico e animazione, apologo storico e capricci stilistici. Di notevole c’è che I cieli di Alice approda a un’estetica: di quanti registi esordienti possiamo dire lo stesso? Bene comunque ha fatto I Wonder a optare per una distribuzione mista sala/streaming: il percorso di questo film sarà lungo e rarefatto.

GIULIA

Giulia | Pointblank

Terzo film di Ciro de Caro, sceneggiato e interpretato dalla stessa persona, Rosa Palasciano, che funge da baricentro assoluto del film e lo incarna in tutto e per tutto. Raccontando un’estate di fragilità, incertezza a precarietà (lavorativa e sentimentale) de Caro e Palasciano delegano tutto ai percorsi erratici della protagonista, al suo anticonformismo e al suo senso di malcelata delusione rispetto agli essere umani – immaturi e superficiali – che intercetta. Nulla di particolarmente nuovo, ma almeno dopo i tanti Peter Pan maschili del recente cinema italiano (spesso narcisisti e insopportabili), una figura di giovane donna autonoma e imprevedibile. Il film è ambientato – anche qui finalmente – in epoca Covid e ne introietta alcuni aspetti (mascherine e comportamenti di distanziazione) che permettono anche una contestualizzazione storica che sottrae ulteriore solidità all’Italia strampalata e vacua che Giulia attraversa. Minimalista, con qualche eco post-morettiano da anni Ottanta, ma tutto sommato atipico.

RITORNI DI IMMAGINE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

QUEL GIORNO TU SARAI

Quel giorno tu sarai: la recensione del film di Kornél Mundruczó

Uscito nel Giorno della Memoria ma per fortuna in circolazione anche nelle settimane successive, il nuovo film di Kornél Mundruczó lo conferma e lo rafforza come autore estremamente importante del cinema contemporaneo. Strutturato in tre episodi girati in altrettanti piani-sequenza (a volte ottenuti con piccoli trucchi, ma non è ciò che importa), Quel giorno tu sarai possiede quel che si deve al ricordo e all’analisi cinematografica della Shoah, cioè un progetto poetico e narrativo degno di questo nome – altrimenti meglio astenersi, come avrebbe dovuto fare una buona metà dei titoli prodotti sul dramma degli ebrei negli utlimi vent’anni. Mundruczó, come sempre affiancato dalla sceneggiatrice, drammaturga e scrittrice Kata Weber (sorta di co-autrice dei suoi migliori film), parte dal ritrovamento di una bambina nei campi di sterminio da parte di alcuni soldati polacchi (in una prima parte straziante, dove i militari affranti scoprono ciocche di capelli incastrate nei muri fetidi di uno stanzone), prosegue con la ragazzina divenuta anziana e fragile, e si conclude con il nipotino che assaggia a scuola, sulla sua pelle, l’antisemitismo dei compagni tedeschi. Nulla viene esposto come una tesi: Mundruczó esplora lo spazio e la parola con gesto teatrale fuso nel cinematografico, e il fil rouge di corpo e identità rimane teso dall’inizio alla fine, spesso senza alcun tipo di consolazione. Un filo di speranza, alla fine. Ma con brividi che attraversano noi (e l’Europa intera).

STRINGIMI FORTE

Stringimi forte, di Mathieu Amalric. La recensione

Ottavo film da regista per Mathieu Amalric – quindi una carriera d’autore che non possiamo più considerare ancillare rispetto a quella di attore – e intrigante riflessione sulla rappresentazione del lutto. Non si può raccontare molto, di questa storia con alcune scoperte che – pur non avendo il carattere di colpo di scena – modellano la nostra comprensione delle azioni della protagonista. Di fatto, il viaggio fisico e mentale nel dolore inesprimibile di una donna, interpretata con la consueta sottigliezza e intensità dalla poliglotta Vicky Kreips, è anche una sfida cinematografica. La storia viene affrontata con alcuni strumenti precisi, tra cui la volontaria confusione tra soggettivo e oggettivo, la navigazione a sfioro di un potenziale coté fantastico, la frammentazione del tempo interiore, la valorizzazione di alcuni luoghi e paesaggi, la moltiplicazione delle funzioni musicali in sede di “narrazione sonora” (il pianoforte in particolare). Stringimi forte è un piccolo, degnissimo film, che sconta forse il calo di interesse della seconda parte, quando le carte vengono scoperte e tutta quella fertile ambiguità si incanala in una melanconica ballata sulla perdita e le sue conseguenze.

AND JUST LIKE THAT…

Avevamo bisogno di And just like that…?

Nessuno, a partire dal sottoscritto, si aspettava gran che dal ritorno fuori tempo massimo delle amiche di Sex and the City. Ma Michael Patrick King, e i suoi collaboratori (e HBO Max), sono autori e professionisti che sanno il fatto loro e quindi hanno astutamente immaginato la serie-sequel come un continuo processo di adattamento delle ex ragazze ora ultracinquantenni al nuovo mondo della cultura newyorkese accademica, intersezionale, fluida, categoriale. Guardando con ironia a questa negoziazione col tempo che passa, con lo spettro della morte, con le generazioni più giovani, con i media digitali, con identità sessuali che crollano e rinascono, con parole d’ordine ed equilibri sociali sempre più delicati, la commedia romantica si rifonda nella quality trovando un senso e una credibilità. La dimensione di classe, la nuova consapevolezza nei confronti del consumo fashion e del passato della moda (oltre che dell’età), il capitalismo colto di Manhattan, la disponibilità di soldi e appartamenti, l’appartenenza alla buona borghesia caritatevole, la cura maniacale dell’aspetto continuano ad essere al tempo stesso esaltati con sfacciata assenza di sensi di colpa e derisi dall’interno (e con loro il post-femminismo consumista del vecchio Sex and the City). Con momenti di scrittura quasi cukoriana, e altri più triviali, And Just Like That… non deve piacere a tutti, per carità, ma è quanto di più brillante ci sia nel contesto della comedy seriale oggi, anche grazie a un ensemble di attrici smaglianti e ironiche, trainate da una superba Cynthia Nixon.

YELLOWJACKETS

Ecco come finisce Yellowjackets: trama

Ormai tutto è meta-narrativo nella serialità frantumata contemporanea. Nella seria sviluppata per Showtime da Ashley Lyle e Bart Nickerson la base di partenza dell’incidente aereo (una specie di ossessione per le serie di oggi), poggia su alcune basi piuttosto evidenti. La prima è Lost, di cui sfrutta sia il meccanismo di flashback-flashforward (invertendo però il ruolo del tempo presente) sia l’incertezza narrativa todoroviana tra razionale e fantastico. In più, però, c’è la cultura cinematografica, che permette di accumulare pubblici: i nostalgici degli anni Novanta ritrovano icone come Juliette Lewis e Christina Ricci (stavolta nei panni delle adulte ultraquarantenni), gli altri si godono il teen survival in mezzo al bosco. Insomma, un gigantesco frullatore di schegge pop paragonabile a un buon robot da cucina. E alla fine Yellowjackets si presta a una visione distratta, in stile pop corn season one, non spiacevole – anche grazie a un volto forse meno noto ai più, Melanie Lynskey, ma già impagabile in Togetherness, Mrs. America e recentemente Don’t Look Up. Concludiamo con un commento condito di spoiler. Capisco che si guardi già alle prossime stagioni, e proprio da Lost in poi siamo avvezzi a ogni tipo di frustrazione rispetto a risposte che non arrivano. Ma cominciare il primo episodio di una serie con immagini che non verranno nemmeno lontanamente spiegate in tutta la stagione mi pare un cicinino arrogante.

A ZONZO TRA LE SERIE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

AFTER LIFE

After Life 3: il finale dolceamaro della serie di Ricky Gervais

Non è facilissimo giudicare After Life alla fine delle tre stagioni. Ogni tanto sensazionale nell’affrontare il lutto da ogni angolazione psicologica, ogni tanto esilarante per come spazza via la retorica, ogni tanto insistente e quasi snervante nell’evocare un rapporto di coppia di perfezione stucchevole, ogni tanto girato in modo tanto sciatto da lasciare a bocca aperta, ogni tanto aperto a un’osservazione minuta di solitudini quali il cinema d’autore non riesce più a restituire, ogni tanto volgare fino al disgusto e gratuito fino alla noia. Bisogna però dire che ogni nuova ricollocazione gervaisiana nel mondo dell’audiovisivo risulta stimolate e che forse After Life – con i suoi pochi episodi e poche ore – è un esempio di come si lavora su un habitat quale Netflix attraverso il rapporto tra celebrity comica e letteratura di provincia (di una provincia tanto folk quanto universale). Scopriremo solo più avanti se questo progetto, e soprattutto questa galleria di personaggi, avranno superato la prova del tempo.

SUCCESSION

Critics' Choice Awards 2022: ecco tutte le nomination

La terza stagione dell’amatissima serie americana riparte sostanzialmente dalla fine della seconda e osserva con sadismo più gaudente che mai gli spasmi della dinastia Roy e la frenetica ricombinazione delle alleanze fratricide o patricide. Gli ingredienti sono i soliti: dialoghi basati principalmente su metafore spesso deliranti; macchina a spalla che entra nella mischia ed esalta la dimensione polifonica di ambienti spesso affollati di persone che si parlano addosso; analisi del capitalismo globale attraverso gli orrori del rapporto media/finanza; psicanalisi ironica di una famiglia attraversata da complessi tragicomici. Questa terza stagione non è apparsa particolarmente “progressiva” rispetto alle prime due – la seconda difficilmente verrà eguagliata – e si limita a ripetere i suddetti elementi gestendoli in modo sempre piacevole ma anche senza particolari sorprese (e con un cliffhanger finale piuttosto prevedibile per chi ormai conosce i colpi di scena della serie). Spiccano gli episodi della festa di compleanno e quelli in Italia, concepiti non a caso in maniera evidentemente più compatta.

A CASA TUTTI BENE

A casa tutti bene, la serie di Gabriele Muccino indaga dolori e conflitti  della famiglia | Vanity Fair Italia

E se a Muccino le serie facessero bene? Dobbiamo intenderci. Chi scrive è allergico al suo cinema, pur riconoscendogli uno statuto di autore – lo merita chiunque costruisca il suo universo riconoscibile, e Muccino lo possiede in tutto e per tutto. Ma l’idea di questa espansione del suo film più esagerato porta a un risultato di hardcore mucciniano che fa scattare l’ormai celeberrimo guilty pleasure. Con il solito ricorso massiccio al montaggio parallelo e alla ritmica esasperata, e a vicende che via via strangolano i personaggi e li intrecciano al reciproco destino, Muccino aggiunge anche un pizzico di crime e si diverte a gettare nel calderone un cast molto affiatato (forse ben consapevole di doversi lanciare apertamente nel kitsch). Barbara Petronio, brillante ed esperta scrittrice di serialità, è il collante del Muccino-Universe in questa operazione di Sky, che finisce senza finire in vista di una seconda stagione già concepita. Ovviamente ci sono incongruenze, cattivo gusto, momenti cringe, stereotipi vari (quelli femminili, poi….), ma guardandolo con un po’ di ironia e una birra in mano ci si diverte.

INCASTRATI

Il debutto seriale di Ficarra e Picone, "Incastrati" in un crime che diverte

Peccato. Ficarra e Picone si devono essere quasi spaventati della troppa “cattiveria” del loro film migliore – L’ora legale – e hanno scelto strade più famigliari (nel senso del segmento family oltre che della loro comfort zone). Già la triste svolta per grandi e piccini di Il primo Natale aveva convinto il duo a suon di milioni di incasso. Ora ci troviamo a metà strada con una serie di pochi e brevi episodi, quasi un film allungato, dove le gag sono talmente diluite da rischiare il principio omeopatico. Nella storia dei due signor nessuno che finiscono in un meccanismo criminoso per il quale sono ovviamente inadeguati si possono intuire alcune potenzialità satiriche sulla Sicilia, sull’inestirpabilità della mafia e sugli stereotipi patriarcali, ma ogni tema è sviluppato con una tale stanchezza narrativa da fiaccare i buoni propositi. Si vede chiaramente che i due non sanno nulla di serialità, senza che l’apporto in sede di scrittura degli ormai onnipresenti Fasoli e Ravagli cambi molto la situazione. Netflix è un cestone, mi pare che – algoritmo o meno – ogni sforzo di reperire una coerenza sul prodotto italiano sia al momento vano.

NON MI LASCIARE

Dov'è stata girata Non mi lasciare, le location della serie con Vittoria  Puccini ambientata a Venezia

Discorso generale: la Rai, e Rai Uno in particolare, sta continuando a fare le scelte giuste sulle serie (o se preferite fiction, ma ormai la distinzione terminologica non ha senso, tanto più che il prodotto italiano delle piattaforme, vedi Petra, si sta “raizzando”). Se La sposa ha saputo, con qualche diabolico cinismo, declinare la starità di Serena Rossi in una storia da melodramma d’appendice con tanto di stereotipi regionali usati con sagacia, Non mi lasciare lavora invece sul volto/personaggio sempre più sofferto di Vittoria Puccini. Si tratta di un crime su temi piuttosto cupi (riecco Fasoli/Ravagli) dove convivono elementi quasi fincheriani e pacchiane soluzioni televisive da prima serata, con il plus di una Venezia sfruttata in lungo e in largo come co-protagonista: non sarà Andrea Segre o Yuri Ancarani, ma non fa male (ed è pur sempre Rai Uno).

CHE COSA VEDIAMO QUANDO GUARDIAMO STREAMING

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

MACBETH

Macbeth. La recensione del film di Joel Coen su Apple Tv+

C’era molta curiosità per il primo film di Joel Coen senza il fratello, e molta sorpresa per la trasposizione shakespeariana lontana dalla letteratura suburbana dei due autori. Sarebbe sciocco considerare l’esangue involuzione di questo Macbeth come un problema di dimezzamento della creatività. Fatto sta che – per quante letture autoriali sottili si possano fare – l’universo Coen è qui irriconoscibile (ma non sarebbe di per sé un problema) e soprattutto deludente. Che cosa ci fa Joel Coen con una fotografia di Bruno Delbonnel che cita scolasticamente Welles, Dreyer e Bergman? Che cosa ci fa Denzel Washington, completamente fuori set, nei panni del re? Che interesse abbiamo per un’operazione testuale al tempo stesso esasperata, indie, low budget, offerta come astuto fiore all’occhiello cinefilo della piattaforma più in difficoltà di tutte (Apple Tv+)? Stranamente, il Macbeth anziano di Coen, con una Lady quanto mai indecifrabile e contraddittoria, manca di vera brama, e senza brama la tragedia non esiste, o viene semplicemente verbalizzata, come in questo caso. Shakespeare è una trappola ideologica prima che drammaturgica, perché interroga il cinema guardandolo dritto negli occhi a partire dal teatro. Di fronte al Macbeth non puoi mentire: o muori d’amore per lui o muori artisticamente decapitato.

THE TENDER BAR

The Tender Bar Recensione: un film ispirato con un grande Ben Affleck

“Il cinema medio ormai va su piattaforma” è una delle frasi più ricorrenti tra addetti al settore. Può essere, anche se poi bisogna intendersi sulla categoria. Ecco sicuramente The Tender Bar è cinema medio: un racconto malinconico e ironico, con una storia di vita particolare e al contempo universale, con un coming-of-age e alcuni attori importanti sullo sfondo, un rapporto simpatico con la letteratura americana e con la rappresentazione sociale, una struttura cronologicamente ricca ma non complicata, e nessuno che si fa male veramente. Certo, Clooney un tempo aveva altre ambizioni. Certo, la cinefilia potrebbe distruggere il film e preferirgliene un altro simile ma più rozzo e vivo (Elegia americana di Ron Howard). Tutto vero ma alla fine The Tender Bar mantiene quel che promette e non è ben chiaro perché gli si dovrebbe chiedere di più. Un giorno capiremo che le nostre aspettative sul cinema in streaming vano ricalibrate dal punto di vista antropologico.

WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?

What Do We See When We Look At The Sky? - Cinematografo

MUBI prosegue nel suo scavo del cinema d’autore non distribuito (e nel frattempo sta costruendo una library d’essai molto ricca: le ambizioni si sono alzate). Quello di Alexandre Koberidze, georgiano, è un film che parla la lingua del cinema internazionale da festival e mescola fiaba, attitudine documentaria, racconto surreale, idioletto locale e straniamento beffardo. Si tratta del colpo di fulmine tra due sconosciuti che per magia cambiano aspetto e non si riconoscono più, inseguendosi inconsapevoli per il resto del film. In mezzo succede tutto e niente, tra parodia rohmeriana e bizzarre escursioni calcistiche, musiche pop incoerenti e voce narrante testardamente monotona, digressioni di ogni tipo e gag stralunate. A essere pressapochisti, sentendo dire Georgia, il cinefilo affermerebbe subito che Ioseliani aleggia, ma in verità non è mica tanto vero. La fatica a descrivere quel che accade è anche un po’ la fatica di guardarlo: sembra che Koberidze insista a farci capire che è un film radicalmente leggero ma alla lunga sortisce un effetto un po’ estenuante. Senza nulla togliere al riconoscimento della libertà narrativa e poetica.

DOPESICK

Quando escono gli episodi di Dopesick su Disney+?

A proposito di cinema che ormai va su piattaforma. Questa è una serie TV reperibile su Disney+ ma di fatto è una serializzazione del cinema di denuncia civile di cui The Post o Il caso Spotlight erano gli ultimi strenui difensori. La cosa interessante di Dopesick è che, raccontando di un orribile e cinico comportamento di un’azienda farmaceutica quasi dinastica nel commercializzare un oppioide pericolosissimo, sembra vellicare un po’ tutti i pubblici. Da una parte c’è il ricordo della Hollywood liberal dagli anni Sessanta fino a Erin Brockovich, ma dall’altra (bisogna ammetterlo) risuonano sinistre carezze verso la paranoia no vax e anti-Pharma. O siamo noi sì-vax che ci siamo ormai persi nel difendere la razionalità scientifica e vediamo dappertutto messaggi ambigui? Bella domanda. Comunque la serie, in parte diretta dal veterano Barry Levinson, è old style, solidissima, recitata da gente con le facce giuste (in particolare Michael Keaton e Rosario Dawson), e difficile da abbandonare una volta cominciata.

4 META’

4 metà, la recensione del nuovo film romcom italiano di Netflix

Intendiamoci subito. Chi sta facendo film italiani per le piattaforme (Netflix in questo caso) sa dove sta andando. Questa innocua commedia sentimentale, dotata di uno sliding doors talmente annacquato da far sembrare la struttura di Supereroi di Genovese un mix tra Nolan e Resnais, ci potrebbe apparire un tappabuchi buttato lì senza convinzione. E invece è un film più visto di quello di Sorrentino, sia in Italia sia all’estero. D’altra parte pochi sanno che il titolo italiano più visto nel mondo nel 2021 è Yara di Marco Tullio Giordana, quasi ignorato dalla nostra critica. Quindi Alessio Federici e Cattleya hanno fatto bene i loro calcoli, visto che 4 metà ha già ottenuto 12 milioni di ore viste ed è presente nelle top ten di dieci Paesi, per la precisione (oltre all’Italia, in cui è terzo), Croazia, Grecia, Polonia, Portogallo, Repubblica Serba, Spagna, Argentina, Costa Rica e Uruguay (rubo i dati all’amico Robert Bernocchi su Screenweek). Come analizzare questo film se non in senso industriale? Occhio a Matilde Gioli (già nota per la fiction Doc) e Ilenia Pastorelli che potrebbero aver trovato un loro habitat divistico.

I MIGLIORI FILM DEL 2021

Come ogni anno, ecco la classifica dei migliori film dei dodici mesi passati. Si tratta di una top 20, con alcuni “posti caldi” utili per misurare la bontà artistica di ciascuna annata – questa volta ovviamente condizionata dal Covid-19. I titoli presi in considerazione hanno avuto distribuzione ufficiale in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2021, in sala e su piattaforma, purché inediti. Non entrano in classifica film visti ai festival o comunque non distribuiti. Dunque la datazione di alcuni dei film, anche quando è precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1, più alcuni posti “a latere”. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.

I MIGLIORI DEL 2021

Posti caldi sparsi (prima di, a fianco dei, oltre i venti migliori): Il buco in testa, Atlantide, Spider-Man: No Way Home, The Suicide Squad, È stata la mano di Dio, Don’t Think I’ll Scream, Beckett, Purple Sea, Selva tragica, Days, Malmkrog, Diabolik, Nomadland, Dune, City Hall

20) Don’t Look Up

19) Lasciali parlare/No Sudden Move (ex aequo la macchina-cinema Soderbergh)

18) First Cow

17) The Disciple

16) Pieces of a Woman

15) The French Dispatch

14) Old

13) Mandibules

12) Il collezionista di carte

11)  Il gioco del destino e della fantasia/Drive My Car (ex aequo la macchina parlante di Ryûsuke Hamaguchi)

10) Titane

9) Ultima notte a Soho

8) Un altro giro

7) Cry Macho

6) Il potere del cane

5) I giganti/Il buco (ex aequo l’Italia antropocentrica e il suo contrario)

4) Sesso sfortunato o follie porno

3) France/Annette (ex aequo la Francia che analizza istericamente il mondo svuotato e mitizzato)

2) West Side Story

1) Marx può aspettare

Schegge di cinema (tra i film non in classifica):

Gli abiti di Zendaya in Malcolm & Marie, le fiamme di Collective, lo sguardo rugoso di Tom Hanks in Notizie dal mondo e Finch, la festa iniziale di Nuevo Orden, la macchina-Allen di Rifkin’s Festival, i volti di A Chiara, la pasta in Ariaferma, l’assenza di un antagonista in Encanto, l’analogico in Ghostbusters: Legacy, Michael che guarda se stesso in Halloween Kills, la claque teatrale in Illusioni perdute, arredamento e design in Madres Paralelas, l’isola tossica di Rami Malek in No Time to Die, il quartiere geometrico di Non cadrà più la neve, il fotogramma-memoria di One Second, lo scalpiccio delle quinte in Qui rido io, il sesso in Sybil, l’ultimo duello di The Last Duel, la recitazione di Nanni Moretti in Tre piani, le vendette di Una donna promettente, il post-volto di Nicole Kidman in Being the Ricardos, Marsiglia in BAC Nord, la scena dei tatuaggi di Lovely Boy, Sondheim in Tick, Tick…Boom!, lo split screen in The Velvet Underground, i granchi di Welcome Venice, la grana visiva di Samp, il bosco di Petite Maman, le case di Nowhere Special, la telefonata iniziale tra la mamma e il figlio in Madre e mille altri baluginii….

(AL)LA FINE DEL MONDO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T LOOK UP

Don't Look Up' , il trailer finale del film Netflix con Leonardo DiCaprio,  Jennifer Lawrence e Meryl Streep | Awards Today - news, trailer,  recensioni, cinema, serie tv, oscar

Consacrazione definitiva per Adam McKay che, sebbene ormai conosciuto dai critici e da alcuni appassionati, rimane l’autore meno condiviso di questi anni. In questa ottima satira del contemporaneo, che taglia di traverso Covid ed ecologia attraverso un convincente esperimento di fantascienza comica, si conferma la ricetta del suo universo umoristico: mescolare elementi paradossali, parodistici e para-televisivi in stile Saturday Night Live senza buttare in vacca tutto e riuscendo a scrivere personaggi sfaccettati, con un loro arco di trasformazione emotiva credibile. Lo slogan “tra Dr. Stranamore e Melancholia” non è troppo lontano dal vero, anche se le cose migliori (insieme ad alcune grasse risate) sono teoriche: l’infinitamente grande di una cometa a un certo punto è visibile nel cielo e non puoi non vederlo se non decidendo di guardare per terra; il coronavirus, invece, non è visibile e – nel bene e nel male – questo cambia tutto. Al cinema e nella realtà.

NOWHERE SPECIAL

Nowhere Special - Una storia d'amore - Film (2020)

Ci vuole un certo sadismo a decidere di raccontare una storia così straziante. La conoscete tutti, quindi non sto a ripeterla. Piuttosto, in questa vicenda di malattia, dignitosa disperazione e bambini innocenti destinati a soffrire, c’è un’aria abbastanza nota ed è il lacrima movie all’italiana. Se Uberto Pasolini fosse stato meno colto e meno profondo, avrebbe probabilmente girato con un approccio da melodramma psicotronico tipo L’ultima neve di primavera o Il venditore di palloncini. Non stiamo facendo ironia, il contesto è quello ma in verso contrario, come se l’autore si chiedesse: come faccio a raffreddare questo melodramma? Ci è riuscito – per fortuna – solo in parte: vogliamo piangere al cinema, diamine! Ultima annotazione: si noti quante narrazioni sono possibili nel proletariato inglese, dalla commedia degli spogliarellisti alle tragedie dei disoccupati fino ai mélo con malattia. Altrove (da noi?) si pensa che le classi disagiate servano solo a fare denunce per dibattiti e non meritino un world building sfaccettato.

DUE DONNE – PASSING

RomaFF16 - Passing: recensione del film di Rebecca Hall

Ruth Negga è una delle attrici più sensibili e capaci della sua generazione, ed è un bene che (insieme alla quasi altrettanto efficace Tessa Thompson, che ha come unico limite qualche capriccio espressivo facciale) un film come Due donne di Rebecca Hall sia costruito sulle due performance. Sebbene le scelte metaforiche del bianco e nero (si parla di due donne nere che possono passare per bianche per il colore della pelle) e del 4:3 siano abbastanza scolastiche, la differenza la fanno altre cose. Una è il suono, il migliore uso creativo di quest’anno insieme a Il potere del cane, con una costruzione di autenticità per questo motivo intensificata. La seconda è una qualità di scrittura e di messinscena sorprendenti per un’autrice esordiente. Nulla per cui gridare al capolavoro, sia chiaro, ma al tempo stesso un racconto molto forte e credibile in mezzo a tante produzioni “anti-razziste a tavolino” che non fanno il bene di nessuno in questi anni.

RE GRANCHIO

Re Granchio al cinema: trailer, trama, cast e anticipazioni

Piccolo film italiano debitore da una parte di Werner Herzog e dall’altra di Lisandro Alonso. Cinema “panico” lo avremmo definito un tempo, con una narrazione nettamente separata in due metà. L’ora iniziale è dedicata a un antico racconto di villaggio, quasi folclorico e leggendario, che si sarebbe persino potuto mettere in scena attraverso la magia cruda di Il racconto dei racconti – ma che privilegia un naturalismo medievale di grande consapevolezza. La seconda metà diventa un viaggio misterico tra il western e Aguirre dove alla razionalità che via via sfuma e scema si affianca uno stile sempre più visionario. Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis sanno quello che fanno e lo fanno con assoluto controllo formale. Qualcuno direbbe “anche troppo”, provando a spiegarsi perché – a fronte di tanti valori estetici così oggettivi – qualcosa resista al nostro entusiasmo e si frapponga a un’adesione più convinta. Ci rifletteremo.

THE INNOCENTS

Cannes 2021. The Innocents – Stanze di Cinema

Visto al Noir in Festival (con la speranza di trovarlo distribuito prima o dopo) un buon horror della tradizione “nidiate malefiche” ovvero bambini molto pericolosi. La novità è che, pur trattandosi di telepatia e telecinesi (Stephen King) nonché di superpoteri in mano a minorenni sadici (Chronicle), il trattamento visivo e narrativo di Eskil Vogt regge grazie a una rappresentazione architettonica e visuale degna di nota. Se sentite aria di Trier (Joachim) e di Thelma non sentitevi in colpa come se trovaste stereotipi norvegesi ovunque: Vogt ne è stato lo sceneggiatore. Come Trier, anche Vogt per qualche ragione non affonda mai il colpo fino a fare davvero male ma almeno un paio di sequenze, compresa la battaglia finale nel parco in pieno sole (fatta senza bisogno di altro che di occhiatacce tra bambini e suoni sinistri) vale la visione.

GIRO DEL MONDO TRA CINEMA E PIATTAFORME

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

SCOMPARTIMENTO N. 6

Compartment No. 6 recensione film di Juho Kuosmanen con Seidi Haarla

Tratto da un fortunato romanzo di Rosa Liksom di dieci anni fa, il film di Juho Kuosmanen ha vinto il Grand Prix speciale della Giuria a Cannes 2021, aumentando i dubbi su quel palmarès (ci eravamo già lamentati dell’attenzione posta a La persona peggiore del mondo). Il road movie tra sconosciuti (lui e lei, non eteronormativi) sullo sfondo di una natura nordica estremamente fotogenica – al solito – percorre ambiti piuttosto prevedibili. A circa metà film, chi mastica un po’ di formule sceneggiatoriali sa scrivere su un fazzoletto di carta quel che avverrà dopo. Si è scritto che c’è aria di Linklater. Magari! Manca, del grande regista americano, tutta quella palpitante capacità di stare allo stesso tempo con un piede dentro lo stile-Sundance e con l’altro dentro un atmosfera vague fatta di continue accensioni e spegnimenti emozionali. Comunque Scompartimento n. 6 è utilissimo in aula: è infatti un esempio matematico di quel che si definisce “film da festival”.

TICK, TICK… BOOM! 

Tick, Tick... Boom!: recensione del film - Cinematographe.it

Produzione con i contro-c..rismi per questo musical Netflix, prima regia della star Lin-Manuel Miranda di Hamilton (e altro). Biografia giovanile del compositore di Rent (Jonathan Larson, morto prematuramente all’apice del successo), ha come mattatore Andrew Garfield, più generoso e frenetico che perfetto. Attenzione: è un musical dove di fatto non si balla. Si canta soltanto, e si cantano le belle canzoni del musical del titolo e di quello precedente, rimasto inedito ma poi confluito nel secondo. Se non avete capito la frase appena scritta, è perché tutto il film gioca sull’idea di un meta-musical inscatolato, dove le storie altro non sono che adattamenti e re-framing di un unico flusso di creatività. Si astengano i Broadway-fobici, perché qui rischierebbero una fastidiosa orchite. Gli amanti invece troveranno cose buone e meno buone, con un approccio comunque onesto.

RED NOTICE

Red Notice: Gal Gadot, Ryan Reynolds e Dwayne Johnson in un momento del  film: 546633 - Movieplayer.it

Ancora Netflix per uno dei film più stroncati del mondo. E chi potrebbe dire che è “bello”? Non può certo esserlo nel senso del bello spielberghiano o zemeckisiano (viste le citazioni da Indiana Jones e Pietre Verdi varie), perché i tre protagonisti sono uno più ingessato dell’altro e lo spy-action internazionale non possiede nessuna intima cinefilia grossier. Detto questo, è il film più visto della storia della piattaforma, il più costoso, e si affianca a Tyler Rake, 6 Underground, Spenser Confidential in quell’autorialismo vulgar e in quella ricerca quasi cocciuta di uno spettacolo popolare scervellato che interessa noi teorici – magari meno lo spettatore di bocca raffinata. Rispetto a Michel Bay o Sam Hargrave, però, Rawson Marshall Turber non sembra nemmeno avere la passione per la distruzione totale o per la sequenza spettacolare come filosofia del pericolo oculare. Peccato.

IL VISIONARIO MONDO DI LOUIS WAIN

The Electrical Life of Louis Wain: Benedict Cumberbatch dipinge gatti nel  nuovo film, immagini - Mauxa.com

Esce direttamente su Prime Video la biografia dell’omonimo artista vissuto a in Inghilterra tra Otto e Novecento. Era un tipo stravagante ed ebbe un enorme successo nell’illustrazione popolare disegnando gatti antropomorfizzati – non arrivando al punk di Fritz the Cat ma lasciando loro qualche strana inquietudine anticoloniale negli occhi. Al regista Will Sharpe è sembrata una buona idea arredare e riprendere il mondo britannico di quegli anni come se fosse visto in parte dallo sguardo artistico di Wain e in parte da un gusto pre-lisergico. Ma l’estetica è da feuilleton BBC d’antan e a nulla vale la performance di Benedict Cumberbatch (su cui andrebbe aperto un discorso, visto che alterna ruoli intensamente riusciti ad altri deboli in modo deprimente). Che cinema è questa roba qui? Uno streaming di lusso per domeniche pomeriggio? Un film d’essai capitato sulle piattaforme in epoca di vacche magre? Un ennesimo esempio di come qualsiasi prodotto è ormai un pezzettino di uno specchio senza forma?

SIR GAIWAN E IL CAVALIERE VERDE

Sir Gawain e il Cavaliere Verde", la recensione del film Amazon Prime Video  con Dev Patel :: Blog su Today

Come accade sempre nell’epoca dei social, questo strano esperimento di David Lowery (regista davvero curioso, nei due sensi dell’aggettivo – curioso lui alla ricerca di forme inconsuete, e curioso per noi come personaggio) ha prima ricevuto lodi sperticate e poi affrontato uno shit-storm epocale. In verità, questo coraggioso recupero di una leggenda minore legata al ciclo arturiano ha sicuramente alcuni meriti, a cominciare dal fatto che la quest magico-folcloristica è portata avanti da un cavaliere inadeguato, che sbaglia tutto ciò che può sbagliare e che per correggere i propri errori deve compiere il sacrificio più grande. Passare due ore a vedere i fallimenti di un “viaggio dell’eroe sbagliato” è abbastanza folle da suscitare simpatia, sicuramente più degli elementi visionari e boormaniani – non sempre all’altezza. C’è poi una serie di allegorie e rimandi che bisogna scovare sul web, perché (a meno che non siate espertissimi della letteratura bretone e dei suoi significati) sfugge inspiegata. In Italia direttamente su Prime Video.

THE VOYEURS

The Voyeurs: il finale e la spiegazione del thriller erotico di Amazon

Sempre su Prime Video circola da alcune settimane questo thriller erotico che si vorrebbe rifare, più che a Hitchcock (con citazioni puerili da La finestra sul cortile e La donna che visse due volte), ai suoi epigoni anni Ottanta – tra Verhoeven e De Palma. Quel che ne esce è un Zalman King 2.0, con patinate porcherie miste a una trama mystery senza capo né coda. Spiace per Sydney Sweeney, prorompente e seduttiva come altre volte, cui si spera che un errore del genere non pregiudichi la carriera.