Autore: Roy Menarini
Il cinema fantastico di John Sayles
Cercherò prossimamente di recuperare alcune cose scritte per pubblicazioni difficilmente recuperabili,. Comincio con questo scritto su John Sayles, tratto dal volume di R. Pisoni, G. Spagnoletti, a cura di, John Sayles e il cinema indipendente Usa, Lindau, Torino, 2003, pp. 135-138.
Il rapporto di John Sayles con il fantastico risulta incomprensibile se non lo si proietta sullo sfondo del lavoro che questo regista ha impostato sui generi cinematografici. Per solito, il concetto di “indipendenza” nel cinema americano si è declinato nella vicinanza al cinema d’autore europeo, e se ha avvicinato i generi cinematografici hollywoodiani lo ha fatto con l’intento di interpretarli criticamente, quando non di praticarvi operazioni intellettuali (buone o meno buone che fossero). Del tutto differente la storia di John Sayles, che – grazie al praticantato cormaniano – ha avvicinato i generi con naturalezza e disinvoltura, diventando l’aggiustatore di tante sceneggiature hollywoodiane (spesso “uncredited”) e al contempo il più profondo sovvertitore del concetto di genere che il cinema di spirito indipendente abbia avuto in America negli ultimi venti anni.
Basta analizzare un film come Stella solitaria per rendersi conto che a Sayles interessano le “radici” che danno vita ai generi. In quest’opera, il western è applicato in senso “letterale”, ovvero una situazione di frontiera che prevede la presenza di sceriffi e malviventi, e che riguarda come tema indiretto il grande scontro tra giustizia e legalità e il rapporto che intercorre tra i personaggi e le loro scelte morali. Ebbene, Lone Star si trasforma lentamente in un wetsern antropologico grazie all’intervento del melodramma (come l’agnizione finale dimostra chiaramente) e svela un autore capace di utilizzare i contenitori di genere con sagacia pari ai più vivaci esponenti del postmoderno, ma di giungere a risultati diametralmente opposti: al posto del rapporto ludico con i generi e la loro infinita ibridazione, troviamo invece uno scandaglio abissale nei confronti del sostrato socio-storico che ha reso e rende ancora oggi attuale un “linguaggio” western.
Per intenderci, se volessimo attribuire al cineasta una scelta “teorica” sul concetto di genere (ovvero: genere come occasionale momento di incontro tra industria e spettatori o genere come forma di rielaborazione profonda delle strutture mitiche e delle costanti culturali di una civiltà), certamente dovremmo pensare alla seconda linea. Sayles, infatti, sembra utilizzare il genere cinematografico per ritrovare i motivi che lo hanno fondato, per continuare (e non ribaltare) il percorso di immersione nella memoria, nella storia, nei legami che stringono i personaggi al loro ambiente sociale. In questo senso, la continuità tra i film di genere di Sayles – Fratello di un altro pianeta come fantascienza, Otto uomini fuori come dramma biografico, City of Hope come gangster/noir, Il segreto dell’isola di Roan come fantastico/fiabesco, Passion Fish come melodramma, Lone Star come western – e le sue pellicole d’autore (detto che elementi di soggettività melodrammatica esistono praticamente in tutti i suoi film), è fuor di dubbio. Si dà il caso anche di film – come Limbo – così apparentemente scissi da mostrare l’intima vicinanza tra esperienza di genere e discorso d’autore, e al contempo la non indifferenza dei due termini.
Cioè a dire che Sayles non può essere liquidato in virtù del superamento della polarizzazione genere/autore, ma che anzi l’utilizzo in senso antropologico del concetto di genere porta a Sayles ad arricchire il proprio percorso autoriale. A dimostrazione di questo concetto, vale la pena concentrarsi su un genere particolare, che definiamo per comodità fantastico, senza pensare per il momento alle sue articolazioni interne. Si tratta di un macro-genere particolarmente caro al regista americano, se è vero che in ambito cormaniano la maggior parte della palestra artistica è stata spesa su pellicole fanta/horror e che l’expertise richiesta al cineasta da parte degli studios è spesso quella dell’esperto di soprannaturale. Si parla, appunto, di tanti interventi sotterranei, che però lasciano la zampata culturale dell’autore (un esempio: il lavoro non accreditato sulla sceneggiatura di Mimic, di cui avrebbe enfatizzato l’aspetto etnografico).
Il lavoro di sceneggiatore di John Sayles è notoriamente ricco di spunti orrorifici e soprannaturali. A cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quasi a confermare una sia pur poliedrica vena da politique des auteurs, Sayles scrive soggetti e copioni di ambito catastrofico. Come a precorrere la riconoscibile dimensione di grande narratore della natura, le sue prime scritture vertono tutte quante sulla ribellione del globo e dei suoi esseri alla hybris umana. Ecco, dunque, che Piranha (J. Dante, 1978), Alligator (L. Teague, 1980), L’ululato (J. Dante, 1981), e lo stesso Mimic sono sospesi tra la dimensione più consueta del catastrofico e la rilettura dei mostri mitici e letterari. Lavorando a fianco con Dante, Sayles sembra per di più cominciare a lavorare sull’idea di trasformazione e metamorfosi che non di rado si presenta nei suoi film fantastici (basti pensare alla bellissima storia della donna-foca contenuta in Il segreto dell’isola di Roan). Il lavoro sul genere, in questo periodo, è del resto la risultante di due fattori: la “resistenza” del modello exploitation di cui parla Leonardo Gandini in questo stesso libro e la rinascita di un cinema fantastico cui si delega il rinnovamento degli autori (Spielberg, Lucas, Dante, Cameron e gli altri registi specializzati nei nuovi, originali “kolossal di serie B”).
Questa convivenza tra l’aspetto più ruspante del genere horror/catastrofico e dell’incipiente carriera di autore – Sayles, non dimentichiamolo, gira Return of the Seacucus 7 già nel 1980 -, appare da subito come una delle caratteristiche più sorprendenti nel regista di Schenectady. Pochi anni dopo, però, Sayles offre con Fratello da un altro pianeta un esempio perfetto e cristallino di saldatura tra i due mondi. Sappiamo bene come la fantascienza d’autore abbia spesso prodotto risultati interessanti – non serve ricordare i capolavori di Tarkovskij, Godard, Truffaut, Ferreri, Resnais, etc. – salvo che in questo caso la cifra scelta da Sayles è quella di una naïvité simmetricamente opposta alla lettura filosofica data dai registi appena elencati. Ovvero, Fratello da un altro pianeta – come scrive Davide Ferrario[i] – sembra proprio che il film “usi il genere come lo usavano i grandi dell’età dell’oro hollywoodiana: come la più semplice ed efficace metafora del presente; in questo modo, insieme al divertimento insito nella natura stessa di questo gioco, Sayles è in grado di offrire al proprio pubblico un giudizio morale sull’epoca in cui viviamo”.
Al tempo stesso, però, Sayles mostra come alla base dei generi (in qualche modo scavando “dentro” l’età dell’oro hollywoodiano) si nascondano niente meno che le relazioni sociali, la rappresentazione dell’umanità, la presenza di un discorso politico – e tutti questi termini vanno considerati seriamente in funzione etimologica. Un autore così attento all’idea di comunità e di politeia (ciò che in fondo caratterizza in definitiva il suo cinema) ha bisogno dei generi come “guide” dentro le quali migra e si muove il suo discorso culturale. Per ciò che concerne la fantascienza, probabilmente, il gioco è più facile, trattandosi di un genere nato – almeno secondo le caratteristiche che oggi riconosciamo – negli anni Cinquanta e strettamente connesso, specie per quel che concerne la tematica aliena , con il mondo delle relazioni comunitarie e con l’immaginario della cultura americana. Per questo motivo, il gioco fin troppo scoperto – ricordiamo, en passant, che il film racconta di un ospite extraterrestre che assume le sembianze di un nero e patisce forme di razzismo insieme alla comunità di Harlem che lo accoglie -, si colora di ben altri valori che non siano quelli dell’apologo: altrimenti Fratello da un altro pianeta non sarebbe diverso da una pellicola come Omicron di Gregoretti, in cui l’alieno Renato Salvatori finisce col capeggiare uno sciopero di operai. Qui, invece, la parabola sociale si fonda con la radicalità non esibita di un genere che si fa esso stesso motivo di condivisione sociale,
[i] Cineforum, n. 256, agosto 1986, p. 87.
la televisione e la crisi dei luoghi comuni
Davvero stimolante (e anche molto divertente, il che non è scontato) il nuovo numero di Link – Idee per la televisione (15 euro), intitolato Contro la TV – Venticinque miti da sfatare. Ovviamente, essendo nutrito per lo più da studiosi di media e televisione, l’indice conferma ben presto che il numero non è “contro” il linguaggio televisivo, anzi semmai lo arricchisce di letture decisamente originali.
Si parte infatti dai “miti” del titolo, ovvero luoghi comuni della teoria e della critica contemporanea che spesso – più che sottovalutare il mezzo – tendono a cercare di spiegarlo con categorie di comodo o con parole d’ordine troppo facilmente adottate dagli opinionisti meno preparati. E così, leggendo per intero il ricchissimo volume (oltre 200 pagine), ci si fa una cultura e si ripensa a tante cose che alcuni davano per scontate (la peak TV, la scomparsa del palinsesto, gli algoritmi degli OTT, la crisi della creatività, il rapporto con il populismo, la fuga dei giovani e molto altri) in verità del tutto discutibili e da ripensare con strumenti acuminati.
Soprattutto, il volume insegna – repetita iuvant – che la televisione è un territorio estremamente complesso, tanto che persino il suo statuto è oggetto di continui rimodellamenti. E che, come sempre nei media, esistono periodi anche lunghissimi di convivenza tra vecchi paradigmi e nuove forme di produzione e consumo, anche quando ci sembra che le spinte all’innovazione tecnologica prevalgano e travolgano ogni quadro pre-esistente.
Come sempre, si trova qualche materiale disponibile anche in open access sul sito di Link, dove comunque esistono anche molti contenuti originali specifici per l’online e sempre di sicuro interesse – come il recente articolo di Rocco Moccagatta in cui fa il punto su Checco Zalone, una volta finalmente spenta l’eco mediatica della sua uscita.
almanacco del cinema
Esce il 23 gennaio in tutte le edicole l’Almanacco del Cinema di Micromega. Contribuisco anche io con un saggetto su Fellini, dedicato alla difficile eredità del maestro. L’abstract: “Nemo propheta in patria vale anche per Federico Fellini. Se infatti non c’è dubbio che il suo nome, alcune immagini (la ‘dolce vita’ su tutte) e persino la sua silhouette sono note ai più, sono invece in pochi oggi nel nostro paese a conoscere i suoi film, persino fra gli studenti di cinema. Diversamente stanno le cose all’estero, dove la filmografia del grande maestro riminese trapiantato a Roma è studiata e amata. Forse perché gli italiani hanno sempre bisogno di spiegazioni, impossibili da fornire di fronte al cinema visionario di Fellini”
Per il resto, il numero presenta innanzitutto un omaggio a Mario Monicelli, a dieci anni dalla sua scomparsa, cui è dedicata una sezione che vede un approfondimento di Mario Sesti sullo stile del padre della commedia all’italiana; un’intervista a Michele Placido, che con il grande regista ha lavorato in diverse occasioni; e una lunga conversazione del critico Quim Casas con Monicelli stesso, realizzata due anni prima della sua morte e mai pubblicata prima in italiano. A Federico Fellini, in occasione dei 100 anni dalla sua nascita, sono dedicati anche i saggi di Alessandro Carrera, che spiega perché il grande cineasta ha saputo comprendere (e narrare) forse più di chiunque altro l’Italia e gli italiani, e di Valeria Della Valle, che ci parla del ricco lascito del regista alla lingua italiana.
Una seconda sezione del numero è dedicata invece ai “Maestri del cinema” e offre al lettore il punto di vista di registi che hanno fatto (o stanno facendo) la storia della settima arte. Si parte con il maestro del brivido (e non solo), Alfred Hitchcock, che in questa conversazione del 1976, qui pubblicata per la prima volta in italiano e introdotta da Giorgio Gosetti, ripercorre la sua lunghissima carriera in occasione dell’uscita di quello che sarà il suo ultimo film: Complotto di famiglia. Si prosegue con il dialogo che Francis Ford Coppola ha intavolato con Gian Luca Farinelli, Paolo Mereghetti e gli studenti di cinema incontrati di recente nell’ambito della rassegna “Il Cinema Ritrovato”, a Bologna; con Kore’eda Hirokazu, regista Palma d’oro nel 2018 per il film Un affare di famiglia; e con Peter Kubelka, che in questa conversazione con Stefano Masi parla dei suoi film metrici, che hanno stabilito le fondamenta del cinema strutturalista. Per finire con Mario Martone, che ci parla del suo cinema a caccia della complessità, invito allo spettatore a continuare da solo il viaggio; e Giuseppe Tornatore, che ripercorre la rocambolesca vicenda cinematografica di Nuovo Cinema Paradiso.
Ai mestieri del cinema è dedicata una terza parte del ricco volume: Francesca Calvelli, una delle voci più autorevoli del montaggio italiano, ci racconta perché montare un film significa talvolta riscriverlo una seconda volta; Luciano Tovoli, tra i maggiori direttori della fotografia al mondo, ci parla dell’autorialità, della creatività e delle prospettive del mestiere di cinematographer; la produttrice Francesca Cima ci fa guardare il cinema dall’angolazione di chi permette a questa macchina di girare; Antonio Spoletini, ultimo rappresentante della famiglia attiva nella ricerca di comparse a Cinecittà fin dalla nascita degli Studios di via Tuscolana, in conversazione con Jacopo Mosca ci racconta i trucchi del mestiere; il critico Boris Sollazzo ci porta su un set a conoscere l’attrezzista di scena, gli elettricisti, la segretaria di edizione… un viaggio fra i mestieri ‘minori’ che fanno grande il cinema.
Una sezione del numero è dedicata poi al piccolo schermo, con un contributo di Marilù Oliva che ci racconta della crisi del sogno americano passando in rassegna le serie tv uscite negli Usa negli ultimi anni, e un’intervista di Giacomo Russo Spena a Carlo Verdone, in vista dell’uscita della serie tv Vita da Carlo.
MicroMega ha infine chiesto ad alcuni fra i più importanti critici cinematografici di dirci qual è il loro film della vita e di spiegarci il perché. Per questa “cineteca ideale” Emanuela Martini, Alberto Crespi, Flavio De Bernardinis, Mario Sesti, Federico Pontiggia, Fulvia Caprara, Fabrizio Tassi, Giona A. Nazzaro, Jean A. Gili, Roy Menarini, Fabio Ferzetti, Piera Detassis hanno scelto i lavori di Michael Powell, John Ford, King Vidor, Max Ophüls, Abel Ferrara, Luchino Visconti, Stanley Kubrick, Robert Altman, Vittorio De Sica, Alfred Hitchcock, Paul Thomas Anderson, Victor Sjöström.
Completano il volume un saggio di Alain Badiou sul rapporto fra cinema e filosofia e uno di Sara Hejazi sul cinema iraniano.
Body and shame. su “the loudest voice”
Al di là del Golden Globe a Russell Crowe, l’impressione è che The Loudest Voice sia stata un po’ sottovalutata dalla critica serialista. Prodotto da una vecchia volpe come Tom McCarthy e dall’ineffabile Jason Blum, diretto in alcuni episodi da Stephen Frears e dal soderberghiano Scott Z. Burns (lo stesso di The Report, di cui abbiamo parlato qui), è una classica buccia di banana estetica. Ovvero gli evidenti limiti di regia e scrittura – diciamo più di servizio che di ricerca in stile complex tv – hanno attutito l’impatto di una mini-serie che invece è pane per i denti di chi osserva senza l’ossessione di recensire.
Per esempio, è abbastanza scioccante – pur conoscendo il processo di decostruzione del proprio corpo divistico – vedere un sex symbol come Russell Crowe lasciarsi andare (tra peso personale e trucchi prostetici) a una dissoluzione fisica di questa portata. Non solo il suo protagonista è mostruoso, viscido, perverso e disonesto, ma anche colpito nelle funzioni fisiologiche, sempre più vorace e disgustoso, in un precipizio di perdita dell’autocontrollo che rappresenta al meglio il correlativo oggettivo del potere maschile. Tanto più è laido lui, tanto meno gli importa di piacere alle bellissime donne che molesta. Gli basta il ruolo gerarchico.
Bisognerebbe riflettere in termini di celebrità e di ageing per Russell Crowe. Mi sono persino chiesto se, con gli standard del body shaming che abbiamo oggi, le continue ironie sul suo peso e le fotografie virali scambiate ovunque per schernire il suo ingrassamento non siano un elemento contestuale implicito della sua interpretazione di Roger Ailes. Da una parte iper-mimetica, dall’altra meta-divistica. Con il risultato di sortire una riflessione sul corpo affaticato della star che dipinge un personaggio il cui corpo sovrabbondante è elemento centrale nell’esercizio del suo potere simbolico.
Secondo dato di interesse: la storia della Fox. Probabilmente in Usa questa vicenda è ben nota, e sono noti anche i conduttori e i giornalisti in scena. Per noi, che abbiamo un’idea di massima ma non troppo approfondita del ruolo di Fox News per la destra americana, una serie del genere è molto istruttiva per le evidenti assonanze con quel che succede in Italia e sorprende per la potenza della televisione statunitense pur in epoca di media digitali (che qui sembrano ben poco importanti: e dire che la storia si svolge principalmente tra 2001 e 2016).
Infine, un pensiero più contestuale. C’è un filo rosso che unisce la celebrità e la politica, i media e il potere, il neoliberismo editoriale e le concentrazioni di ricchezza. Anche se continuiamo a pensare che Soderbergh sia l’unico a cercare cocciutamente una rappresentazione del denaro in epoca di mercati virtuali, le produzioni di Adam McKay, le serie come The Loudest Voice, i film di Alex Gibney, il fitto documentarismo americano sulla crisi economica, le forme satiriche in stile Michael Moore e altro ancora stanno costituendo un progetto linguistico di sicuro interesse.
Magari il cinefilo “schifa” questo stile fatto di montaggi sincopati, linguaggi televisivi innestati nel cinema (e viceversa), make up pesantissimi per alludere a personaggi mediatici ancora in vita o appena morti, con una distanza minima tra repertorio youtube e riscrittura finzionale. Eppure, la scrittura (in senso lato) del presente passa anche da qui, e con molti più nodi teorici di quanto non sembri a una prima visione.
filosofia della lotta e destini della visione
Con Cuore e acciaio. Le arti marziali al cinema (Bietti, 18 euro) Mauro Gervasini realizza uno di quei libri di cui sentiamo sempre più il bisogno: ovvero un libro che non somiglia a nessun altro. Niente a che vedere con le storie del cinema di genere o con i dizionari cult. Qui l’autore parte da una personale conoscenza (e passione) delle pratiche orientali, che si affianca alla competenza cinematografica (sulla quale non ha bisogno di presentazioni), e sfocia in una personale rilettura del rapporto “budo e cinema”. Del resto, ci ricorda la quarta di copertina, ” stili di combattimento come la capoeira brasiliana e il taekkyeon coreano (antenato del taekwondo) vengono inseriti nella lista Unesco dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità.
Grazie a questo approccio – vige l’io narrante, usato in modo confidenziale ma mai stucchevole – Gervasini attraversa con una certa libertà, e con un metodo al tempo stesso affidabile e impalpabile, film orientali e occidentali, da Kurosawa a Tarantino, da Bruce Lee a Jackie Chan, ogni volta confrontando pertinenza tecnica del gesto marziale con le qualità cinematografiche. Ed è interessante come, al di là di quella che potrebbe sembrare una “fissazione” del saggista, alla fine emerga un metodo critico. Sì, perché in fondo Gervasini ci insegna a guardare, in tutti i sensi, ovvero a dare un peso estetico a certe cose e non ad altre, in una filmografia dove il rispetto della tradizione e le sue reinvenzioni contano più di una scena girata maluccio o di un attore poco carismatico. Insomma, una goduria.
Abbiamo lo spazio e il piacere, poi, di citare anche due volumi della benemerita casa editrice Kaplan – sempre preziosa quanto a titoli inconsueti legati alla cultura cinematografica Il primo è Il destino impresso. Per una teoria della destinalità nel cinema (25 euro), di Bruno Surace, dove l’autore riporta in auge un approccio semiotico che – almeno per il cinema – sembrava in soffitta da anni. E invece, con la flessibilità teorica di chi ne sa, Surace ci accompagna nell’ermetico mondo della “destinalità” con idee ferrate e interpretazioni acute. Altrettanto complesso, ed elegante, il libro di Stefania Rimini (Every Body Needs Some Body… Figure del desiderio e linguaggi della visione, 15 euro), in cui l’autrice affronta autori come Jarman, Satrapi, Fassbinder e altri per raccontarci soggettività eccedenti, corpi non programmati, performatività irregolari e ne analizza il linguaggio espressivo con evidente lucidità.
Dal retrofuturo ai formalisti russi – letture di cinema
Gli scorsi mesi sono stati pieni di uscite editoriali che solo grazie alla pausa natalizia abbiamo potuto gustare con calma. Cominciamo oggi una serie di post dedicati dunque all’editoria cinematografica. Si parte con la casa editrice Mimesis, che ospita una collana che dirigo (“Cinergie”, dallo stesso nome della rivista accademica di cui è uscito il nuovo numero a fine dicembre) e che offre un’altra collana, ormai storica, semplicemente intitolata “Cinema”, che mi trova assiso nel comitato scientifico.
In essa, voglio enfatizzare un gruppo di titoli molto suggestivi. Si tratta di Gillo Pontecorvo, Il sole sorge ancora. Tra politica, giornalismo e cinema (14 euro), a cura di Fabio Francione, dove ritroviamo molti articoli di Pontecorvo, principalmente politici ma anche di informazione cinematografica. L’antologia, preziosa, raccoglie pezzi e interviste per la nota testata “Pattuglia” tra 1947 e 1950; Giacomo Calorio, con To the Digital Observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor (12 euro), compie un’operazione curiosa e riuscita: citando fin dal titolo il famoso studio di Burch sul cinema giapponese, ne realizza uno nuovo a partire dalla sua circolazione e dal mutato scenario nell’epoca della distribuzione digitale, arrivando a risultati efficaci e a una trattazione intelligente.
Luca Bindi, con Jean Eustache. L’istante ritrovato (15 euro) ci offre la prima monografia italiana dedicata al regista idolo della cinefilia, con un approccio al tempo stesso lucido e intrigante e ripercorrendone tutta la carriera, ben poco conosciuta da noi – persino tra gli stessi appassionati. Il libro è chiuso dal report di un bel dibattito su Eustache tenutosi a Torino a fine 2018 con alcuni esperti del regista. Il vulcanico Marcello Pecchioli, invece, cura il monumentale librone Assalto al cielo. memorie, archivi, frammenti di un retro-futuro (35 euro), un ingegnoso tentativo a plurime voci di affrontare la fantascienza come territorio di indagine caro a molte discipline, dall’antropologia alla meccanica, dalla scienza alla letteratura. Chiude il volume un bella riflessione di Franco La Cecla.
Ancora una monografia, questa volta su un cineasta vivente, di Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino – Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos (12 euro) – nella quale i due autori fanno il punto sulla filmografia al tempo stesso compatta ma geograficamente centrifuga del regista greco, senza tralasciare nessun aspetto (narrativo, stilistico, simbolico). Salutiamo poi con enorme gioia il ritorno in libreria del volume I formalisti russi al cinema (22 euro), curato stavolta da Pietro Montani, che riprende in mano l’ormai mitica antologia del 1971 di Giorgio Kraiski. Quella struttura ora è stata riorganizzata, i testi presentati in nuovo ordine, alcuni espunti e altri inseriti, con un risultato di eccezionale interesse – oggi come allora, non per soli russisti. Una lettura formidabile.
I MIGLIORI FILM DEL 2019
Come ogni anno, all’inizio di quello nuovo pubblico la classifica dei migliori film di quello passato. Si tratta di una top 20, con alcuni “posti caldi” utili per misurare la bontà artistica di ciascuna annata – questa volta qualitativamente molto alta. Ricordo che le classifiche del 2018 e le altre precedenti si ritrovano nel mio precedente sito. I titoli presi in considerazione hanno circolato in Italia tra 1 gennaio e 31 dicembre 2019, in sala o su piattaforma. Non ci sono inediti, quindi. E la datazione di alcuni film, pur precedente, segue la distribuzione su territorio nazionale. L’ordine è dal numero 20 al numero 1. Si raccomanda di leggere anche le schegge dopo la classifica.
I MIGLIORI DEL 2019
Posti caldi: Ralph spacca-Internet, Glass, Avengers: Endgame, Star Wars IX, Il campione, Vivere che rischio, Shaun, vita da pecora: Farmageddon, I figli del fiume giallo, Selfie, La belle époque
20) Mademoiselle
19) Midsommar
18) Dov’è il mio corpo?
17) Benvenuti a Marwen
16) La famosa invasione degli orsi in Sicilia
15) Il traditore
14) Green Book
13) John McEnroe – L’impero della perfezione
12) Il Paradiso probabilmente
11) La mafia non è più quella di una volta
10) Martin Eden
9) Pinocchio
8) Joker
7) Il Corriere – The Mule
6) Parasite
5) The Irishman
4) Burning
3) Dolor y Gloria
2) C’era una volta a…Hollywood
1) L’ufficiale e la spia
Schegge di cinema (tra i film non in classifica):
Il mancato incontro tra sorelle al ristorante in La vita invisibile di Euridice Gusmao, la battaglia in biblioteca di John Wick 3, i dialoghi “theological-screwball” tra Ratzinger e Bergoglio in I due Papi, i corpi sbattuti sulle pareti dalla nave-magnete in 6 Underground, la festa di La rivincita delle sfigate, il ritorno di Ivan Drago in Creed 2, il suono delle sparatorie in Hold the Dark, il bianco e nero di 9 Doigts, il sesso in Border, la sequenza iniziale di Noi – Us, gli sfondi di Dilili a Parigi, le riprese zenitali di Climax, Luisa Ranieri in Vita segreta di Maria Capasso, i meta-effetti speciali di Spiderman: Far from Home, i contorni scuri di spazi e di uomini in 5 è il numero perfetto, i cavalli in The Rider, gli oggetti contadini in Il Signor Diavolo, la battaglia finale nei cunicoli di Rambo – Last Blood, la luce in Apollo 11, la lotta finale in Light of My Life, i litigi tra madre e figlio in La scomparsa di mia madre, i personaggi minori di Il terzo omicidio, tutte le ragazze di Le ragazze di Wall Street…e mille altri baluginii….
UTOPIA CONTRO DISTOPIA – “THE CROWN” E “wATCHMEN”
Non c’è dubbio che la terza stagione di The Crown e la prima di Watchmen abbiano segnato l’ultima parte del 2019, nel mondo della serialità televisiva. Pur in epoca di contenuti di massa, le due serie si sono imposte con forza e per diversi motivi. All’apparenza non potrebbero essere più lontane tra di loro, visto che una racconta – pur con qualche libertà interpretativa – la storia della Royal Family tra 1952 e 1977 (per ora), mentre la seconda costituisce un sequel con tratti di reinvenzione della graphic novel omonima, pigiando il pedale della fantascienza alternativa più spinta.
Quindi perché paragonarle? L’impressione è che The Crown possieda tratti utopistici, tanto quanto Watchmen ne mostra di distopici. In particolare, la stagione di The Crown offre elementi metalinguistici fin dal primo episodio, quando il nuovo cast (e in particolare la nuova Regina interpretata da Olivia Colman) osserva le effigi del vecchio cast, e in particolare di Claire Foy, trasformate nella nuova icona. E tutto il resto della stagione – basata su episodi particolarmente tematici e singolari, processo che mi sembra stia emergendo nella serialità contemporanea – enfatizza l’elemento della rappresentazione, comunicazione, divulgazione mediale della vita reale come interlocutore sempre presente tanto quanto i fatti storici, un davanti alle quinte del “dietro le quinte” della vita privata dei regnanti.
La Corona è l’oggetto simbolico che guida la Nazione, che “sopporta” metaforicamente un cambio integrale di cast, che pre-esiste in modo immanente alle vicende della Gran Bretagna e al veloce avvicendarsi dei primi ministri, che regge gli urti del quotidiano e sostiene la teleologia laica e religiosa inglese. Mi pare evidente che la solidità della Corona e la longevità della Regina, in una serie perfetta ma volutamente classica e conservatrice dal punto di vista iconografico e narrativo, fungano da contenimento delle spinte disgreganti della Brexit e del referendum. Una nazione divisa viene utopisticamente riunita da una serie televisiva. E non dalla democrazia, si badi. Ma dal Regno.
Al contrario, Watchmen non ha nulla di cui rassicurarci, nemmeno nell’America alternativa tra 1985 e 2019. Ci si potrebbe rallegrare di trovare Robert Redford al posto di Trump alla Casa Bianca, ma fin da subito la serie ci immerge in Stati (dis)Uniti preda di violente contrapposizioni razziali, con una vasta cospirazione del suprematismo bianco, e faticose distinzioni tra buoni e cattivi. I super-uomini come il Dr. Manhattan – fino alla fine – vengono accusati di non aver fatto abbastanza, mentre Veidt (interpretato da un redivivo e survoltato Jeremy Irons) è di fatto uno stragista che scambia abnormi sacrifici umani per una salvifica palingenesi del mondo. Come a dire: anche se ci catapultiamo nell’universo grafico di una società parallela visionaria e mistica, il batterio del razzismo non scompare. Anzi, si presenta ancora più forte, resistente, ramificato. Una distopia a tutti gli effetti. Chi vorrebbe mai vivere nella Tulsa di Watchmen?
Entrambe le serie sono essenzialmente malinconiche. Per la Regina e i suoi parenti snob la Corona è un fardello da portare per diritto/dovere divino, e nessuno sembra particolarmente felice se non rifugiandosi nell’apatia, nell’alcool, nei tradimenti, e ammirando le grandi conquiste dell’umanità (come nel bell’episodio sullo sbarco nella Luna) seduti tristemente sul divano. In Watchmen la compagna di strada è la paura, mentre i supereroi sono ossessionati dai propri poteri e li utilizzano con l’incoscienza di bambini. E dentro gli armadi, al posto degli scheletri, ci sono più facilmente i mantelli bianchi del Ku Klux Klan. Non essere annientati dai razzisti, da qualche forma di energia o dai calamari assassini è già un buon risultato: c’è poco da stare allegri, insomma.
E alla fine un’utopia rassicurante o una distopia raggelante portano allo stesso risultato: prendere coscienza che mala tempora currunt e vivere con la dignitosa consapevolezza di ciò che ci circonda. Potremmo dire che sono serie anti-populiste. Aspettando di vedere se qualcun altro camminerà sull’acqua.
I MIGLIORI FILM 2010-2019
Sono arrivato lungo, a dir poco. Ma l’ossessione per la trasparenza mi ha portato a vedere nuovi film fino a ieri notte, per vedere se altri titoli del decennio potessero improvvisamente comparire. Per lo stesso motivo, la mia classifica annuale anche questa volta uscirà il 2 gennaio, per completare il 31/12 un paio di visioni minori, ragionare l’1 e poi emettere la lista il giorno dopo.
A dispetto apparente del buon senso, anche nei venti film che segnalo per il decennio ho mantenuto la premessa della circolazione in Italia (sala, piattaforma, DVD, televisione), e quindi rinunciato agli inediti. Questo per un motivo principale: vedo inediti in modo sparso e poco sistematico – ai festival, attraverso recuperi su MUBI o altri siti, attraverso DVD, ma sempre in modo poco scientifico. Intere filmografie continentali mi sfuggono per il 90%, da quella asiatica a quella africana, e nazioni prolifiche come India e Nigeria sono per me quasi ignote. Quindi ogni classifica globale sarebbe da parte mia velleitaria e grottesca (spero tra l’altro che chi le ha fatte abbia specificato se ha potuto almeno osservare, sia pur selezionate, un buon numero di opere di tutto il cinema mondiale). Ecco perché mi sono limitato alla circolazione sul nostro territorio: in questo modo il corpus, almeno, ha senso.
Non indico, perché mi è impossibile, una chiara scala di valori. Mi limito a prelevare i 20 titoli (ed è già uno sforzo enorme) che hanno secondo me un valore decisivo per il decennio. I criteri sono al tempo stesso artistici, culturali, cinefili, industriali, simbolici. Mi rendo conto che suoni magniloquente, ma è solo per dire che – in quando studioso e critico – non potevo accontentarmi di spiattellare i miei gusti. Ho cercato di dare un senso alla lista. In buona sostanza, sono i 20 film più “importanti” a mio parere. Eccoli in ordine alfabetico:
A proposito di Davis
American Sniper
The Assassin
Black Panther
C’era una volta a… Hollywood
Dogman
Il filo nascosto
La grande bellezza
La guerra è dichiarata
Hugo Cabret
Mad Max: Fury Road
Post mortem
Si alza il vento
Toy Story 3
The Tree of Life
L’ufficiale e la spia
Whiplash
The Wolf of Wall Street
Zero Dark Thirty
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
Il caso “Cats” e il cinema come impresa
Prima fase. Annunciano un film tratto da Cats con un forte impiego di CGI, in modo da rappresentare al meglio il mondo dei gatti protagonisti del musical, senza ricorrere ai faticosi costumi usati sul palco. Prima reazione: sono sicuri di quello che stanno facendo?
Seconda fase. Esce il trailer. Talmente mostruoso che si fa fatica a credere che non sia un fake, o una parodia di qualche utente smart di Youtube. Invece è lui, Cats, pronto ad essere distribuito in migliaia di copie qualche tempo dopo. Seconda reazione: in che momento gli è parsa una buona idea?
Terza fase: dopo lo shitstorm che si abbatte sul trailer, il film esce, più volte rimaneggiato (persino a DCP distribuito: ritirato, rimesso a punto su color correction e altri dettagli, poi ridistribuito). Un disastro. Critici increduli, pubblico che se ne sta alla larga, e Razzie Awards assicurati. Terza reazione: what the fuck?
In buona sostanza, c’era un motivo se uno dei più importanti musical di sempre non aveva visto la luce dello schermo. Chi ha sfidato la sorte, e il buon senso, si è dunque scottato. Il ragionamento che interessa, però, è un altro. Pensiamo sempre che l’industria hollywoodiana sia fatta di analisti astutissimi, dotati di algoritmi infallibili, che propinano alle masse film di successo assicurato. Eppure, da quel mondo così furbo, è venuta un’idea talmente assurda che chiunque l’avrebbe sconsigliata fin dall’inizio. Bastava una telefonata alla casalinga di Voghera. Come è possibile che abbiano tentato di realizzare una cosa così sciocca?
L’insuccesso di Cats, insomma, è una buona notizia. Non per chi ci ha lavorato, ovviamente. Ma per noi come pubblico. Ci ricorda che l’impresa cinematografica è ancora ad altissimo rischio. Che i prototipi, talvolta, falliscono. Che anche gli universi, talvolta, falliscono. Che noi non siamo affatto destinatari afoni e eterodiretti. Solo nel 2019, sono andati male o malissimo: Hellboy, Dark Phoenix, MIB, Gemini Man, Playmobil, Tolkien e molti altri. Il pubblico ha sempre una scelta, e spesso la esercita. Hollywood – o quel che ne resta – non è seduta su una miniera d’oro, ma su un vulcano di idee al tempo stesso potenzialmente ricchissime e clamorosamente sbagliate. Spesso lo si capisce solamente dopo.
“The Report” e le strade dell’indagine politica
Non è sorprendente che il film The Report – da poco visibile su Amazon Prime Video, dopo una fugace apparizione in poche sale di prima visione – porti quasi lo stesso titolo della nota trasmissione di Rai Tre. Oltre a insegnare la pronuncia corretta di quest’ultima (almeno per chi guarda il film di Scott Z. Burns in originale), il racconto tratto da una storia vera spiega quanta fatica e quanta dedizione, al limite dell’ossessione, servano per costruire un rapporto dettagliato e completo. Di Report, reso famoso da Milena Gabanelli e ora condotto da un giornalista come Sigfrido Ranucci (che ha tratti di passione civile non dissimili da come viene rappresentato l’indagatore interpretato da Adam Driver), sappiamo che ha un gruppo di ricercatori tosto e affidabile. Per produrre rapporti degni di questo nome.
Ma le cose spesso si complicano. Report di Rai Tre ha come filosofia quella di dubitare delle verità ufficiali, mettere in questione le prassi su cui si organizza il mercato, vigilare su come l’amministrazione pubblica usa i nostri soldi, denunciare truffe e raggiri. Con tanti obiettivi ogni settimana, Report fa il contrario di The Report, dove un’unica, mostruosa bugia (fingere che le torture della CIA su presunti terroristi non fossero torture) è al centro della detection e deve essere svelata, così come i depistaggi successivi alla formulazione delle accuse. Report invece ha nuovi nemici ogni sette giorni, inscena il bene contro il male, epicizza la battaglia del giornalismo watchdog contro i poteri forti, ma alla fine rischia di perdersi in un mare indistinto di denunce che vengono citate al bar la mattina dopo (e sempre meno) senza lasciare successivamente traccia.
Per non parlare del vero, grande problema. In epoca di complottismi esasperati, talvolta Report ha rischiato di trasformarsi da spina dorsale della battaglia civile di sinistra a grillismo istituzionalizzato in azienda pubblica (come nel caso della famigerata puntata sui vaccini). Che è poi quel che è successo a una parte del pensiero progressista, i cui tratti di anti-americanismo, pauperismo, anti-liberismo, hanno trovato nuova linfa in tutt’altro Movimento.
The Report invece compie il percorso opposto. Cerca di riconnettere – proprio come i farmaci cicatrizzanti che nutrono le cellule destinate a riparare l’abrasione – i lembi del cinema civile nell’epoca del populismo trumpiano. Anche Hollywood, infatti, ha avuto i suoi problemi a ridefinire il cinema liberal in un tempo in cui le élite democratiche spingono sui diritti civili ma appaiono lontani dai drammi sociali e dalle classi disagiate che hanno votato Trump. Un solo rapporto, ma gigantesco. Una sola missione, quella di ristabilire la verità, a costo di mettere in imbarazzo anche Obama e i suoi pur ben intenzionati collaboratori. Il film non è gran che, ma offre sponde davvero intriganti sulla cultura politica statunitense di oggi.
“Il processo” e i patemi della fiction complessa
Si è molto parlato, in questi giorni, di Il processo, una serie italiana che avrebbe dovuto costituire un esperimento per Canale 5 (e per Mediaset): innalzare gradualmente la complessità narrativa e stilistica della fiction per mettersi in linea con la serialità contemporanea e con alcuni progressi in tal senso della RAI. Per farlo, sono state arruolate alcune eccellenze del campo, tra cui Alessandro Fabbri in sede di scrittura (praticamente una certezza). Ma anche Stefano Lodovichi alla regia è una scelta che va nella medesima direzione.
Diciamo “avrebbe dovuto” perché i risultati in termini di ascolti sono stati a dir poco tiepidi. L’esordio della serie, prodotta da Lucky Red con Fiction Mediaset, è stato seguito da 2 milioni 138mila spettatori, con il 10,2% di share. E la seconda puntata non ha cambiato la situazione, tanto che la rete ha ridotto le serate, compattando gli episodi. E qualcuno parla già di fallimento, di pubblico troppo conservatore e troppo popolare, che del resto non può essere sballottato – nella stessa linea editoriale – da Non è la D’Urso alla serialità para-Sky. Ora, chi ha visto i primi episodi ha notato, certo, un lavoro fine se paragonato ad altre fiction di Mediaset, ma ben lontano dalla qualità e dalla libertà anche morale delle fiction di Sky. E quindi se è vero (non lo sappiamo dire, sinceramente) che a tenere lontano il pubblico è stata la difficoltà del prodotto, c’è davvero da preoccuparsi sull’utenza di Canale 5.
In ogni caso, appare chiaro che la televisione free tradizionale sta giocando una partita molto complicata sui contenuti narrativi seriali, e chi si occupa (come chi scrive) principalmente di estetica degli audiovisivi e di riflessione valoriale tende sempre a valorizzare l’innovazione, magari a scapito di una comprensione più ampia dei fenomeni legati alle industrie culturali e alle logiche produttive che alternano prototipi e riduzione del rischio di impresa. Tuttavia, ci permettiamo di sperare che non si chiudano qui le esperienze più innovative di Mediaset (a proposito: su Mediaset Play la fruizione è piuttosto farraginosa e muoversi dentro il testo è complicato dalla pubblicità – inevitabilmente presente, ci mancherebbe – e dal sistema in generale. Anche qui serve più cura).
Cena con il niente
A un certo punto, in Cena con delitto (un titolo italiano ancora più ridicolo del solito, non essendoci alcuna cena), i personaggi stanno chiaramente parlando di Trump, anche se non viene nominato esplicitamente. E proseguono discutendo animatamente – con orientamenti evidentemente opposti, democratici e repubblicani – sulla questione dei migranti. Questo dovrebbe fornirci una chiave di lettura su quanto avviene nelle due ore successive, e dirci che – attenzione, attenzione! – quel che stiamo vedendo non è, come potrebbe sembrare, uno dei più bolsi e inutili ricicli del giallo alla Agatha Christie in salsa postmoderna, bensì un divertissement dove trovano spazio anche la lotta di classe, il razzismo, il puritanesimo, e insomma un po’ tutto quello che l’America ama quando parla male di sé stessa.
In verità, Cena con delitto offre un esempio di come tutte le discussioni sul cinematico e sulle differenze tra le varie forme audiovisive siano sostanzialmente fondate sul nulla – o su assoluti pregiudizi senza collegamento con la realtà materiale, distributiva e di consumo dei film. Intendo dire che Rian Johnson (un esempio eccezionale di autore privo di qualsiasi interesse che, per una catena di eventi e di fraintendimenti critici e di marketing, è riuscito persino a dirigere uno Star Wars – facendone peraltro strame) ha buon gioco a proporre un’opera letteralmente inesistente.
Non potendo fare spoiler, lascio stare i richiami all’interno della trama di questa nientità assoluta, dove l’assenza – quel nulla che in un film dei Coen scatena sempre il pieno e il tutto – anche qui dovrebbe sprigionare l’agglutinamento narrativo. Il buco nella ciambella, la chiama il detective protagonista. Con la differenza, rispetto ai Coen, che in Cena con delitto non c’è più nemmeno il film, perché quel buco nero della nientità ingoia anche il prodotto stesso, che non ha alcuna anagrafe, identità, prospettiva, in un ciclo di autoreferenzialità assoluta.
Il che sarebbe anche bene, da un certo punto di vista, se solo Johnson – da buco della ciambella contemporanea qual è – non avesse sparso nel testo quei commenti a margine, che sembrano i fumettini dei pdf quando arrivano le bozze. Ma che dovrebbero sparire al momento della stampa.
Intensificazione euforica
Ubriacati da Netflix e Amazon, ora fors’anche da Disney e Apple, stiamo un po’ dimenticando HBO, come se fosse ormai un marchio superato dagli eventi (eppure, fino a pochi mesi fa, Game of Thrones cambiava la storia della televisione). In verità non sono i prodotti “blockbuster” a interessarci di più, quanto quelli più immersivi.
Un confronto interessante si potrebbe fare per esempio tra Big Little Lies e Euphoria. Nel primo caso (e al di là di una seconda stagione dai grandi problemi post-produttivi) la vicenda viene narrata attraverso un lavoro di montaggio incessante, dove a momenti puramente – e volontariamente – sentimentalisti ottenuti attraverso forme fotografiche seducenti e una selezione musicale eccezionale, sono stati giustapposte immagini rapidissime, quasi subliminali, in forma di flashback o flashforward. Una roba apparentemente irritantissima, cara del resto anche al cinema di Jean-Marc Vallée, che invece funzionava alla grande proprio in versione estesa, nel contesto di una soap di lusso con omicidi e temi sensibili.
Il montaggio è protagonista anche di Euphoria. A dire la verità questa serie andrebbe più opportunamente analizzata in senso contenutistisco, per dare una risposta alla sessualità rappresentata, alla visione dell’adolescenza estrema, e alla presenza maniacale di peni eretti come contrappunto di qualsiasi sviluppo relazionale. Ma non avendo tempo né voglia di lavorare su questo aspetto, Euphoria ci interessa principalmente per l’approccio ad assorbimento intensivo dello stile. Il montaggio, a dir poco frenetico, è l’operatore narrativo principale, il responsabile assoluto della costruzione di mondo che prende forma di fronte ai nostri occhi, anche grazie a una disponibilità quasi scandalosa allo spreco (in tal senso un buon esempio potrebbe essere l’episodio 3, dove ricche sotto-storie sono narrate attraverso scene rapide che “scialano” interi set per una semplice manciata di secondi, compresa la sequenza onirica in stile GoT, molto divertente).
Una possibile spiegazione è che HBO stia lavorando su prodotti intensificati, dove l’esperienza di visione quasi aptica e la forza dei temi narrati costituiscono il corrispettivo di una promessa emotiva, se non di una linea editoriale, mentre i servizi streaming si stanno divorando, con i formati e le storie, la fetta teen degli spettatori. Insomma, tutta una questione di stile? Presto per dirlo, ma vedere Big Little Lies o Euphoria su un televisore degno di questo nome, ad alta definizione e con un buon sound, è un’esperienza sensoriale difficile da ignorare. It’s not HBO, it’s HBO experience.
dispaccio cinefilo #novembre 2019
Nel bollettino di questi giorni, vogliamo ricordare:
- Si svolge a Milano il 27-28 novembre (e parteciperò anche io come relatore) il convegno Comizi d’amore. Il cinema e la questione sessuale in Italia (1948-1978), qui il programma.
- Sempre per i convegni, intrigante a Genova (5-7 dicembre) The Postmodern Condition: Forty Years Later / La condizione postmoderna. Quarant’anni dopo a cura di Elisa Bricco e Luca Malavasi. Qui più notizie.
- Segnaliamo in ritardo l’ultimo e bel numero di Schermi, open access, dal titolo I “media industry studies” in Italia: nuove prospettive sul passato e sul presente dell’industria cine-televisiva italiana con interventi di Marco Cucco, Francesco Di Chiara, Giuseppe Richeri, Paolo Noto, Simone Venturini, Luca Barra, Andrea Mariani, Silvia Rodeschini, Federico Zecca, Maria Francesca Piredda, Gabriele Landrini.
- Come si poteva immaginare, la morte di Jean Douchet ha creato grande commozione nella comunità dei cinefili. Qui rimandiamo al bel pezzo di David Hudson, pieno di link interessanti.
- Uscito il n. 220 di “Segnocinema” con un bello speciale curato da Enrico Terrone sul cinema 2000-2019, e un mio pezzo dove cerco frettolosamente di fare il punto sull’estetica del grande schermo in questi vent’anni.
jennifer lopez e il “GENERE” DEL PUBBLICO
Mi è già capitato più volte di notare come gli stereotipi distributivi e di consumo siano molto più forti di quanto si immagini. In tutte le tipologie di sala. Nei cinema d’essai e nei circuiti di qualità, andare a vedere Donwton Abbey – la versione cinematografica, s’intende – pare sia stata una scelta principalmente femminile. Persino gli esercenti erano stupiti dalla irrisoria percentuale di uomini seduti davanti al grande schermo, spesso meno del 10%. Sono dati empirici, d’accordo, ma confermati dalla gran parte dei professionisti consultati in proposito.
Più di recente, la stessa cosa accade con Le ragazze di Wall Street, che però con il cinema in costume e con la Gran Bretagna degli anni Venti non ha nulla a che spartire. Così come le sale sono differenti: stavolta tocca ai multiplex fare la parte del leone. Il film – così come il precedente, ma ancora di più – ha funzionato al botteghino, e la spiegazione non sta certo in Jennifer Lopez, ovvero in un improbabile rilancio di divismo dell’attrice. Il propellente è nella storia e nel modo in cui è messa in scena.
Assistere in un multiplex alla proiezione del film di Lorene Scafaria (ampiamente shakerato con il cinema di Adam McKay, qui produttore) è istruttivo. La sala – all female quasi quanto la vicenda e le sue protagoniste – è particolarmente vivace, risponde alle battute e alle svolte di trama, sembra particolarmente entusiasta di personaggi di donna attivi e forti, poco importa se truffaldini, e anche con i modelli di femminilità proposti (eccessivi, certo, ma come pura forma di intensificazione, e dunque mai estranei o irriconoscibili). A domanda diretta, le spettatrici mi hanno risposto di aver percepito Le ragazze di Wall Street come un film “loro”, segno che forse non c’è abbastanza cinema veramente femminino in giro – mentre la televisione con Fleabag o La fantastica signora Maisel è ormai avanti anni luce.
Varrà la pena riparlarne. Il rischio è che film come questi vengano snobbati anche dalla critica accademica senza capire che da qui passano le linee di tensione del contemporaneo in ottica gender.
il metodo chuck lorre
Non è un caso che Il metodo Kominsky sia già al centro di convegni accademici internazionali (a proposito, uno di questi è Celebrity & Ageing. La vecchiaia nella cultura della celebrità, 14-15 novembre 2019 a Bologna). Nessuna serie recente ha intuito in modo così rapido e ironico il mutamento radicale ed epocale dello status di post-star nell’epoca dell’allungamento della vita attiva e dell’anzianità profonda. Al contempo, fa sorridere che sia stato Chuck Lorre, cantore dei giovani geek di Big Bang Theory, a raccontare con tanta autenticità e sottigliezza i gusti e i guai della terza e quarta età, potendo contare sull’autoironia di attori come Michael Douglas (un tempo legati alla fama di seduttori sessualmente voraci) verso i processi di invecchiamento fisico e logoramento della potenza erotica.
Certo, il lavoro di messa in scena è ai minimi termini ma rappresenta una ulteriore evoluzione (“da piattaforma”) della sitcom nell’epoca degli OTT. La dimensione della scrittura è sostanzialmente basata sul dialogo, e proprio il dialogo è responsabile della maggior parte dei ritmi testuali: non solo i confronti a due – in auto, al bar o in luoghi chiusi – ma anche il ricorso a frequenti confronti telefonici aiutano i meccanismi di variatio e intensificazione narrativa.
Ovviamente sarebbe sbagliato sopravvalutare una serie – per ora di due stagioni – molto leggera e probabilmente disinteressata a incidere sul dibattito culturale contemporaneo. Eppure, non sottovaluteremmo la capacità di Il metodo Kominsky di appropriarsi di molti temi caldi dell’agenda sociale di oggi (mascolinità tossica, neo-femminismi, posizionamenti post-ideologici, rappresentazione e narrazione del corpo, ecc.) e restituirli in modo semplice e al tempo stesso sottilmente provocatorio, grazie alla “protezione” dell’opinione personale che la vecchiaia permette (alle persone reali come ai personaggi della serie).
“Parasite” e altri labirinti
Oggi tocca all’ottimo Parasite di Bong Joon-ho fare la parte del leone nella nuova puntata del nostro podcast (Il posto delle fragole). Ma ci sono anche La belle époque e L’uomo del labirinto.
Per ascoltare clicca qui.
Due o tre cose su “the irishman”
…ma per saperle dovete ascoltare la puntata speciale del podcast Il posto delle fragole.
Nel bollettino di questi giorni, vogliamo ricordare:
- l’uscita (gratis, attraverso le app indicate sul sito) del nuovo numero di Storie, dove tengo una rubrica divulgativa di commenti sul cinema di qualità
- Il bel ricordo di Giacomo Manzoli su Luciano Salce.
- Il numero novembre/dicembre di Sight and Sound con alcuni contenuti open access.
- La partenza della piattaforma Apple+ che è destinata a cambiare ancora una volta i connotati dei contenuti narrativi in streaming.
- I vincitori del Trieste Science Plus Fiction 2019.
- La partenza dell’ottimo Parma Film Festival (fino al 9 novembre), nella cui giuria quest’anno siedo orgogliosamente.
downton abbey contro terminator
Ecco la nuova puntata del podcast Il posto delle fragole. Oggi si parla di Downton Abbey tra film e serie TV, ma anche di Terminator – Destino oscuro. Che cosa lega questi film apparentemente opposti? Scopritelo.
APOCALYPSE SOUND
La cosa in assoluto più eccitante nel rivedere in sala Apocalypse Now (la versione “final cut” del quarantennale, predisposta da Francis Ford Coppola e distribuita da Cineteca di Bologna) è il suono. Chi ha seguito le varie vicende del film sa bene quanto questo aspetto sia importante, e quanto l’impressione suscitata dal capolavoro coppoliano fin dal 1979 sia frutto in buona parte del lavoro di Walter Murch, il più grande sound designer della storia del cinema. Eppure, forse sovrastati dal mito del racconto di Conrad, Milius e Coppola, entrando in sala non ci eravamo ricordati proprio di questo aspetto, che invece scuote, colpisce, intriga, spaventa, realizza ciò che sarebbe principalmente storicizzato. Ascoltare in sala Apocalypse Now – Final Cut è riprovare un’esperienza live, cioè una ri-vivificazione del qui e ora della messa in scena e del montaggio sonoro. Probabilmente è uno dei pochi casi in cui si può (fuor di retorica) affermare che un capolavoro non è la stessa cosa visto fuori da una sala in grado di immergere lo spettatore nella visione – in tal caso il concerto sonoro di Murch, della foresta e della guerra.
Detto questo, fa abbastanza impressione ascoltare Coppola, nella breve clip che precede il film, raccontare di come abbia voluto approntare una terza edizione di Apocalypse Now dopo quella tagliata all’epoca, e dopo quella forse troppo lunga di Redux (per chi scrive un serio errore di valutazione da parte del regista). Coppola – volenti o nolenti – si considera a tutti gli effetti proprietario della sua opera d’arte e spiega di come abbia scelto personalmente di rimontare, aggiungere e tagliare secondo il suo gusto del momento. Già da un po’ parliamo di “opera infinita” con tutti i cut che i vari Blade Runner, L’esorcista o Guerre stellari hanno accumulato negli anni. Finché questo un po’ ambiguo gioco con i propri testi, come se non appartenessero alla collettività, ci riporta in sala, ben venga. Ma restiamo vigili sul senso delle operazioni.
JUMP CUT E GLI ARCHIVI ONLINE
La notizia delle scorse settimane è stata la messa in linea, open access gratuita, di tutto l’archivio della rivista Jump Cut. Una notizia magnifica, che sembra scaldare il cuore prima ancora di incendiare le ricerche. Sì, perché talvolta sapere di avere a disposizione un intero archivio digitale (in questo caso 58 numeri, destinati a continuare) fa sentire più felici ma rischia anche di farci sedere sugli allori. Non voglio fare discorsi un po’ patetici del tipo “è meglio fare ricerca trovando da soli e sudando sulle carte impolverate”, però è inevitabile che qualche elemento di pigrizia queste operazioni meritorie lo suscitino.
Detto questo, lascio la parola a David Hudson, che nel suo imperdibile Daily su Criterion scrive (e cita Julia Lesage): ” At the time, I didn’t know that a fifty-ninth issue was in the works, but here it is, a bountiful and varied offering of essays on topics ranging from Indian cinema to sexploitation in the 1960s to global superheroes. In an extraordinarily moving endnote, editor Julia Lesage writes about pressing on after losing her husband and cofounding editor Chuck Kleinhans nearly two years ago now. “Chuck was a packrat,” she writes, “a trait hard to live with but incredibly valuable in terms of his library and papers, which now give a rich, internationally oriented, sexually queer, and theoretically sophisticated overview of film scholarship, especially from the 1970s on. And Marxism, and cultural studies, and theater, and the avant-garde across the arts, etc. . . . Keeping Jump Cut functioning is a way of staying sane, so we’ll go for at least one more issue, with luck, and maybe another after that”.
TRA NETFLIX E IL NOIR
Forse non è un caso che, mentre questo sito si sta popolando di contenuti, gli articoli dedicati ai libri già per due volte abbiano Netflix come soggetto. Evidentemente, la questione sta sollecitando ogni tipo di analisi, per quanto la piattaforma è al tempo stesso popolare e centrale per le nuove configurazioni del cinema e dell’audiovisivo. Ebbene, L’ arrivo del lupo. Netflix e la nuova TV (a cura di Matteo Berardini, Il Menocchio, 18 euro) cerca di fare – attraverso un gran numero di schede analitiche e critiche dei singoli prodotti Netflix e altri approfondimenti più sistematici – un bilancio di quanto è successo finora. In modo molto ricco e utile. Da ricordare poi che il volume è il frutto librario di un autore e di un team di giovani critici che fanno capo, in buona parte, alla rivista online Point Blank, di cui così possiamo parlare, per consigliarla, nel mare magnum della critica web.
Non ce ne vorrà Pier Maria Bocchi, della mia generazione, se invece non lo definisco più (né mi definisco) giovane critico. Quel che non cambia, invece, è che Bocchi continua a godere della massima popolarità anche tra i critici in erba, grazie a un approccio che unisce competenza, forza espressiva e personalità. Il suo nuovo libro, Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir (Rubbettino, 14 euro) ha un titolo decisamente chiaro. I contenuti li facciamo spiegare alla quarta di copertina, illuminanti: ” Questo libro analizza il neo-noir (da Detective’s story, 1966 e Senza un attimo di tregua, 1967) nel corso degli anni e delle epoche, delle culture e delle ideologie, quale specchio di trasformazioni sociali e di mercato. Per la prima volta in Italia, un genere ormai comunemente accettato dalla critica e dalla teoria accademica viene studiato non in termini unicamente storici ma attraverso alcune “macro-idee” (titoli, volti, autori, tematiche) con le quali tracciare una mappatura in grado di raccontare un genere sia nelle sue dinamiche economiche e produttive, sia quale rappresentazione del mutamento del pensiero, della società e dello spettatore, sia come campanello d’allarme per le sensibilità sociali”.
Il testo è al solito appassionante, e da discutere. Se la scelta cronologica è perfetta, alle volte forse la decisione di non distinguere tra titoli rilevanti e titoli che sono stati obliati in pochi mesi rende l’approccio un po’ catalogico. D’altra parte, però, chi se non Bocchi poteva (ri)vedere, ricordare e analizzare nel dettaglio così tanti film e porli in una rete di riferimenti narrativi e iconografici così complessa? Ovviamente da leggere.
Ps. la foto unisce i due libri che ho segnalato: mistero ben facile da svelare.
segreti segreti: dai panama papers ai silenzi della chiesa
Ed ecco per la nuova puntata del podcast Il posto delle fragole una disamina sul cinema della crisi economica, sull’autorialità di Ozon, su Ryan Murphy e i suoi ultimi lavori, e anche sul senso di Netflix per il mondo contemporaneo.
Jesus e Jesse, derivazioni e derive
L’uscita in pochi giorni di El camino e di Jesus Rolls ci offre al tempo stesso motivo per lagnarsi e materiale per ragionare sulle lezioni di immaginario che ancora e sempre cinema e televisione ci offrono. Tutto spiegato nella nuova puntata del podcast Il posto delle fragole.
La nazionale di calcio in tv
La nazionale di calcio è per sua natura generalista e di Stato. Non so come hanno fatto quelli che nel 2006 hanno preferito la telecronaca di Caressa e Bergomi per la finale dei mondiali contro la Francia. Il linguaggio iconografico delle competizioni internazionali per gli azzurri è saldamente legato, come immaginario, alla RAI. Anche ora, la pur giovane e esuberante nazionale di Mancini, nel suo giocare in campi di squadre non fortissime o in casa con team abbastanza secondari, sembra non riuscire a svecchiare questo impasto visivo.
Ci sono sempre telecamere posizionate un po’ troppo a lato, sempre ralenti meno scintillanti e meno “slomo” di quelli di Sky o DAZN, sempre commenti un po’ più caserecci, sempre luci più slavate, anche nella versione HD dei canali tradizionali. Per molto tempo ho pensato che il calcio fosse il corrispettivo della fiction RAI rispetto a quella “alta” dei canali satellitari o delle piattaforme, poi ho capito che è qualcosa di bello e insostituibile. Cioè che probabilmente la confezione produttiva è volontariamente poco spettacolare, e l’aspetto sia cocciutamente est-europeo. Non solo perché le tradizioni contano ma anche perché la Nazionale di calcio non può improvvisamente apparire troppo contemporanea. Ci sono legami storici da rispettare, e c’è un ambiente mediale che non può essere in alcun modo separato dal discorso sportivo. C’è una sensibilità, insomma, magari non di per sé vetusta ma quanto meno negoziata con la storia per immagini del Paese.
Ecco perché non esiste né può esistere una Nazionale italiana che abbia uno “spirito Sky”, per lo stesso motivo per il quale Sanremo verrà condotto da Amadeus e non da Cattelan. Le innovazioni, di fronte a elementi simbolici fortemente legati alla loro dimensione pedagogica o popolare pubblica, devono essere gestite tenendo conto del passato. Devi poter vedere l’Italia mentre mangi a tavola sul televisorino di cucina, senza per forza acce(n)dere il/al salotto multimediale con la smart TV. E se anche in cucina c’è la smart TV, è meglio usare l’analogico RAI, perché la nazionale è quella roba lì, appartiene a me come alla mia nonna, che l’unico satellite di cui ha sentito parlare è la Luna.
I RISCHI DEL BINOCHISMO
Ci sono due film con Juliette Binoche in questo autunno. Uno è quello di Kore-eda, Le verità, presentato a Venezia; l’altro è Il mio profilo migliore, presentato al Biografilm di Bologna. In entrambi i casi la Binoche interpreta una donna abbastanza vicina alla sua vera età, alle prese nel primo caso con una madre troppo ingombrante e un marito non propriamente brillante; nel secondo con la delusione di un divorzio e di un desiderio non sopito, tanto da spingerla a fingersi giovane e attrarre un ragazzo in chat, per poi non sapere come mostrare il suo vero aspetto. Da ormai qualche anno la Binoche lavora su questi personaggi di donna abbandonata, insoddisfatta, ancora bellissima, con gli occhiali appoggiati sulla punta nel naso, vestita non particolarmente bene (infagottata, per lo più), qua e là travolta dalla passione sessuale ma alfine indifferente e sfiorita. Come nel mai abbastanza esecrato L’amore secondo Isabelle.
Sinceramente, in questa politica dell’attrice, non si sa bene che cosa dovrebbe saltare fuori, se non forse un modello forte per un certo target spettatoriale, o per un certo tipo di cinema francese medio. E già, perché mentre grattiamo sempre alla porta del grande cinema francese (che spesso, in media, è migliore del nostro, ma non di tantissimo), ci si accorge che i film più conservatori vengono da lì. E il “sistema del cinema francese” (esiste?) rischia di inghiottire o almeno piallare certi stili e certi spigoli. Con tutto il buon cuore, nessuno al mondo potrebbe riconoscere Kore-eda dietro la macchina da presa di Le verità, e lo si capisce proprio dal modo “standard” con cui mette in un angolo il personaggio della Binoche, ovviamente schiacciata (pare anche sul set) dalla preminenza di Catherine Deneuve – e anche qui ci sarebbe da capire per quanto tempo Deneuve può godere dello statuto che “ciò che è stata per il cinema francese” le garantisce: e una sana ribellione anti-divistica? No?
Cioè Kore-eda si francesizza ma nel modo in cui uno spettatore medio del cinema d’essai pensa che debba essere il cinema francese. Un cinema in cui la Binoche interpreta personaggi legati al corpo e alla passione erotica (anche nel pur ottimo Il gioco delle coppie di Assayas), ma dove il corpo di fatto è assente. O alluso. O in penombra. O sopportato. Come è forse giusto che sia, probabilmente. Ma non è, quello della Binoche, forse l’esempio stesso del cul-de-sac di certo cinema di qualità, quando racconta cinquantenni esibite in modo un po’ patetico, con un libro in mano e un calice di rosso sul tavolino, sole, sentimentalmente provate, alle prese con omuncoli immaturi? Non c’è altro destino che il binochismo per questo cinema che rischia di fiaccare anche grandi cineasti in trasferta?
Addio a carlo croccolo
Usiamo parole non nostre, per ricordare Carlo Croccolo: ” Non si è mai fatto mancare proprio nulla nel mondo dello spettacolo Carlo Croccolo, che si è spento dopo una lunga vita piena di successi. Più di cento film come attore assieme a Totò, ma anche assieme a Eduardo, a Peppino, diretto da registi come Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, Giorgio Bianchi, Dino Risi, non si sa quanti come doppiatore, addirittura voce ufficiale di Totò, capace di doppiare nella stessa comica Stanlio e Ollio, una carriera americana in film internazionali, come Una Rolls-Royce tutta gialla o Caccia alla volpe, un David di Donatello per ‘O re di Luigi Magni, infiniti programmi e sceneggiati tv, ma anche due regie di spaghetti western con falso nome, Lucky Moore, altre regie di misteriosi hard (avete capito bene, hard) girati in America agli inizi del genere, una storia addirittura con Marilyn Monroe (lo diceva lui, certo… però…)”.
Chi scrive? Marco Giusti. Magari Giusti è un critico troppo “compromesso” con l’aura di Stracult e leggerlo su quel sito porno-news di Dagospia non è sempre gradevole (specie se nei dintorni del PC si aggirano moglie e figlie), ma quando ho saputo che Croccolo se ne era andato, ho subito cercato proprio il “coccodrillo” di Giusti. Se trovate quelli – che leggerei volentieri – di Sergio Grmek Germani, Tatti Sanguineti o Steve Della Casa, fatemi un fischio.
Detto questo, pur giunta in età consona, la morte di Croccolo rattrista perché come ovvio offre la sensazione di un mestiere attoriale versatile, vorace e trasversale ai generi che pare davvero scomparso insieme a quel tipo di cinema popolare italiano. Questione antropologica più che produttiva, di cui si parla da tempo e di cui si parlerà ancora a lungo.
Ridere del joker (e altre storie)
Seconda puntata del mio podcast dedicata a Joker, Unbelievable, Il varco, La scomparsa di mia madre. Buon ascolto.
PER UNA CRITICA DEL CONTEMPORANEO
L’apertura dello spazio che state generosamente leggendo segue ad alcune decisioni da parte del suo fondatore. La prima – e la più importante – è la rinuncia alla pratica più tradizionale della critica: la recensione. Dopo 8mila film recensiti (ma forse molti di più) e dopo che negli ultimi anni avevo già diradato la mia attività, mi sono accorto che a 25 anni dai miei primi articoli forse era meglio smettere prima di apparire completamente rimbambiti. In effetti, il cinema è una brutta bestia, e ora si trova sottoposto a processi di trasformazione di intensità inusitata – persino per lui, il cinema, che dalla sua nascita in fondo non ha fatto altro che trasformarsi.
La critica, come dice Romano Luperini, significa porsi anche come rappresentante di una comunità (in questo senso lettori e cinefili), cercando per loro – e non per sé – di raggiungere risultati che aspirino all’universalità. Questo ho cercato di fare per oltre 8mila volte, a volte riuscendoci, a volte meno. Eppure, questo ruolo del critico – a parte alcune lodevoli eccezioni – mi pare tramontato, non per combustione spontanea ma per assenza di domanda. Il critico/recensore, al momento, sembra più che altro una porzione di qualcosa di più misurabile (e misurato anche in modo percentuale) che si può definire opinione critica generale sul film. Tutte cose fantastiche da studiare per chi, come me, fa anche lo storico e il metodologo della critica, un po’ meno fantastiche da praticare.
Un’altra cosa che ho cercato di fare è ibridare la critica con il sapere accademico. Non ho mai pensato che la mia attività critica potesse essere indipendente dalla mia attività di studioso (forse il contrario sì, talvolta in modo doveroso e rigoroso, ma anche qui con molte sovrapposizioni). La fortuna di poter fare entrambi i mestieri è stata ed è impagabile.
Ora, nel sito che porta il mio nome, cercherò di portare il fortunato connubio in altre direzioni. Cercherò di accettare la critica come stato gassoso. Citando la Treccani: “Lo stato gassoso, come ogni altro stato di aggregazione, dipende dalle condizioni di temperatura e pressione, e non è caratteristico di determinate sostanze: dicendo che una sostanza, per es. l’aria, è un gas, si vuol solo dire che essa è tale nelle ordinarie condizioni di temperatura e di pressione, variando le quali può invece presentarsi come un liquido o anche come un solido”. La critica, nella mia idea, ha ormai le stesse caratteristiche di imprendibilità, mobilità, contorni sfumati, imprecisi dei gas. Talvolta si liquefà o solidifica, altre volte somiglia di più all’impalpabile degli ecosistemi mediali di cui fa parte, ancora più de-materializzata dalla crisi della carta e dalla presenza pervasiva sul web.
Ci si occupa di film, ma anche di serie TV, di prodotti audiovisivi della più svariata specie e di oggetti cui talvolta non abbiamo ancora dato un nome. La curiosità critica mi porterà dunque a parlare di tutto ciò, in maniera appunto gassosa, o come un palombaro che osserva una morfologia dei mari sempre in mutamento e sempre più complessa. Insomma, bisogna sciogliersi volontariamente nello stato gassoso e divertirsi – culturalmente – attraverso questa stessa atomizzazione estrema.
Se tutto questo appare fumoso (ancora!), nessun allarme. Gran parte dell’attività del sito consisterà nell’offrire letture, notizie, rimandi e informazioni, come una piccola piattaforma informativa. Di questo potete leggere nell’about.
Un’ultima annotazione. I pochi irriducibili che mi seguivano su roymenarini.com sappiano che quel sito va considerato terminato e che il suo archivio verrà tenuto in vita.
Buona lettura.
CHI SONO
Docente di area cinema e media all’Università di Bologna, ho aggiunto alla mia attività didattica e alle mie collaborazioni editoriali questo spazio del tutto personale. All’interno si trova principalmente un’attività informativa e intellettuale, talvolta separate, talvolta unite.
Le sezioni (o categorie) in cui si divide il sito sono abbastanza intuibili. Va però precisato che in nessuna di esse si troveranno mie recensioni in senso stretto (genere critico che non pratico più, stanco di somministrare valutazioni normative), bensì riflessioni, link, rimandi, segnalazioni, e molte notizie riguardanti libri, convegni, seminari, festival in cui sono coinvolto o che mi sembrano importanti da condividere.
Particolare importanza riveste il podcast, consultabile dal sito o direttamente dalla piattaforma Spreaker, dove parlo di film e serie TV con maggior spazio (e tempo) per l’argomentazione, e dove l’attività più valutativa rifà capolino nei discorsi sui prodotti culturali più recenti.
Più in generale il sito è ovviamente legato alla mia persona – il titolo e l’autore sono la stessa cosa, del resto – ma ambisce anche a proporsi come piattaforma di informazione generale sulla cultura cinematografica e come piccola testata online di riferimento per gli appassionati.
lo sguardo di “Unbelievable”
Mi trovo d’accordo con quanto scrive Vulture a proposito della bella serie di Netflix, Unbelievable. Cito abbondantemente: “The mystery element is secondary and beside the point. Unbelievable is not about finding the bad guy so much as it about the value of genuinely hearing and understanding the victims. And it’s not so much about justice being served as it is about the possibility that, with the right people listening and fighting for her, a young, abused woman might have the chance to find some measure of peace”.
Più in generale, Unbelievable sembrerebbe dare ragione a chi pensa che a parlare di donne stuprate sarebbe intelligente, serio e adeguato che fossero donne: autrici, registe, e attrici. Quando poi gli elementi narrativi ed estetici sono così precisi e potenti, anche rispettando l’area del genere crime, delle sue procedure e dei suoi codici (negare i quali sarebbe semplicemente sciocco), la riuscita è assicurata. Ne riparleremo.
Netflix in bianco e nero
Con un po’ di ironia si potrebbe dire che se Bianco e Nero fa un numero monografico su Netflix, vuole dire che le piattaforme sono entrate nella cultura produttiva del cinema italiano. A parte gli scherzi (anche perché la rivista ha avuto varie nature in questi ultimi 25 anni), segnalo con piacere il numero doppio 594-595 (bilingue, italiano e inglese). S’intitola Netflix e oltre / Netflix and Beyond. Il numero è firmato dal direttore Felice Laudadio, che è anche presidente del CSC, ed è curato da Alberto Pasquale. E’ stato realizzato redazionalmente da Laura Gaiardoni e da Romana Nuzzo. Il numero è aperto da tre editoriali: del direttore Felice Laudadio, del filosofo della scienza Giulio Giorello e del curatore del numero Alberto Pasquale. Contiene saggi, interventi e interviste di Alberto Barbera, Jeff Ulin, Ivan Cotroneo, Nicola Giuliano, Riccardo Tozzi, Nicola Guaglianone, Lorenzo Mieli, Andrea Occhipinti, Alessio Cremonini, Franco Bernini, Riccardo Boccuzzi, Paola Dubini, Alberto Anile, Lionello Cerri, Andrea Stratta, Antonio Medici, Andrea Leone, Eleonora Andreatta, Federico di Chio.
Ozu e Bordwell
Tra i tanti capolavori di Ozu c’è anche questo, del 1952, Il sapore del riso al tè verde. Di recente è uscita una bella versione per Criterion, una delle etichette ormai più celebri per la storia del cinema (e per la sopravvivenza del DVD, passato in un paio di decenni da minaccia per il grande schermo a oggetto dimenticato degno di venerazione cinefila). Per l’occasione David Bordwell, instancabila, ci offre sul suo blog una bella analisi del film, dove definisce Ozu “compassionate satirist”, definizione che trovo magnifica. Quindi, rivediamo il film, rileggiamo Bordwell (compresi i suoi studi su Ozu stesso) e godiamoci questo estratto:
“The film that resulted, I suggest in the supplement, modulates between satire and a generous comedy that gives the main characters, no matter their failings, moments of warmth and dignity. With a light hand Ozu summons up narrative parallels, and he spotlights the split between men’s culture and women’s culture. A troubled marriage is given due weight, but it’s saved by graciousness, as when (above) Mokichi rescues Taeko’s sleeve from the water in the sink. Ozu carries the humor down to the fine grain of technique, teaching us to play a private cinematic game in which the characters participate all unawares. The Criterion creative team has ingeniously used split screens to help me show the evolution of stylistic patterns across the film. Shedding my Mr. Rogers sweater for a sport coat, I try to crack the mystery of those eerie tracking shots. Like the situations and the dialogue, these barely moving images ought to make you smile”.
Il posto delle fragole – podcast
In questa categoria potete cliccare le puntate del mio podcast – Il posto delle fragole – dove affronto di volta in volta gruppi di film, serie, eventi e altro mettendo a confronto e in relazione diversi titoli. Si comincia con Quentin Tarantino, Pietro Marcello, Rambo e Franco Maresco. Buona compagnia, no?