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Autore: Roy Menarini

RAVENNA NIGHTMARE FILM FEST 2020

C’è un’anima sempre più sperimentale nel Ravenna Nightmare Film Fest, anch’esso esclusivamente in versione online per l’edizione 2020. Non più confinato al solo genere horror e dintorni, ma sempre più interessato anche agli spazi inclassificabili del cinema d’autore e delle poetiche del corpo o del surreale, il Nightmare (lo chiamiamo così per brevità) sta offrendo un programma composito e pieno di sorprese, anche nei formati brevi.

Nel Nimic di Yorgos Lanthimos, per esempio, c’è la voglia del regista greco di tornare nei territori originari, anche se la progressiva de-territorializzazione del suo cinema lo ha da tempo spostato in una zona franca internazionale (Hollywood a parte) fatta di umori sospesi tra Haneke e Saramago. Nella storia di un Matt Dillon espropriato del suo ruolo di capo famiglia da una ragazza che pretende di sostituirlo “come padre e come marito” tutti i paradossi di Lanthimos vengono fuori in poco più di dieci minuti, con risultati misteriosi ma degni di essere discussi.

Diversamente, l’esperimento di Bertrand Mandico (The Return of Tragedy) è assai più irritante, una di quelle cose accumulatorie e cinefile dove sembra quasi obbligatorio che lo spettatore si diverta e ne parli bene. Nient’affatto: il mix di cinema amatoriale, No Wave, avanguardia e horror di serie Z mi pare del tutto irrilevante, e mi stupisce l’entusiasmo di cui è circondato. Molto meglio, invece, i corti di Donato Sansone, tra clip e animazione o i lavori di Koji Yamamura, dal tratto semplice e dalla forza filosofica intrigante.

Interessante anche lo sfruttamento dello spazio festivaliero per l’approfondimento critico o le lezioni speciali, come quella di Andrea Chimento su David Lynch. Invece, spizzicando qua e là nel concorso, colpisce tra i tanti titoli (diseguali, come del resto è inevitabile che sia) Woman of the Photographs di Takeshi Kushida, dove la storia di un ritocco fotografico orrorifico e di un rapporto tra artista e modella, invece che sortire un effetto di prevedibile déjà-vu di temi e tropi, trova strade intense e tutto sommato spiazzanti. Sorprendente, perché al solo sentir parlare di riflessione sul corpo e sull’immagine c’era da tremare.

Per il resto, festival come questo da una parte confermano come l’occulto e il perturbante siano griglie attraverso le quali una grande quantità di cinematografie nazionali può affrontare, interpretare, trasfigurare un presente complesso e nodi socio-culturali al tempo stesso singolari e universali. Dall’altra rinfocolano la sensazione che là fuori, nella produzione globale sempre più frenetica di storie e di opere, ci sia sempre più bisogno dei festival come agenti curatoriali e di selezione. Che la fisionomia del Nightmare stia cambiando, insomma, è segno di intelligenza.

Science + fiction 2020

Dopo i tanti tira e molla nazionali e regionali sulle sale cinematografiche e la loro capienza, il dpcm di ottobre che ha chiuso definitivamente le sale ha stroncato ogni possibilità di festival in presenza o anche solo ibridi. I molti festival italiani di novembre (davvero tanti) traslocano tutti online, la maggior parte su MyMovies – che diventa una sorta di fornitore leader di media events legati al cinema.

Inutile ora riaffrontare la difficile questione dell’essenza del festival online, anche perché curiosamente coloro che l’hanno contestata sono stati quelli che sono riusciti a organizzarlo o prima della pandemia o nel periodo tra prima e seconda ondata. Il Trieste Science+Fiction Festival– luogo quasi mitico della fantascienza italiana, anche per il legame ancestrale con la sua precedente versione, epocale, degli anni d’oro – si svolge dunque tutto su piattaforma.

Lo dico subito, non mi è possibile per nessuno di questi festival seguire dettagliatamente tutto il programma e tutti i film. Non lo potrebbe fare nemmeno chi fa esclusivamente il critico, vista la simultaneità dei tanti appuntamenti, ma ancora meno chi ha come primo mestiere quello di accademico (natura che peraltro si intreccia e fonde alla pratica critica, nel mio caso). Tutto questo per dire che Trieste, anche solo assaggiando parte della proposta, mi dà l’impressione di un festival in grande salute, grazie alla solida direzione di Daniele Terzoli e a uno staff di collaboratori esperti, giovani e meno giovani, che sanno selezionare tante cose belle.

Quest’anno, pur cominciando con il “generaccio” caotico di Skylin3s – terzo capitolo di una saga di cui non si sente alcun bisogno – si sono presto rivelate altre storie interessanti. Per esempio si conferma la tendenza allegorizzante dell’horror contemporaneo: Relic di Natalie Erika James è un film che rappresenta la malattia dell’Alzheimer trasfigurandola come un viaggio haunting in luoghi oscuri e paurosi che diventano una minaccia anche per la famiglia (tutte donne: nonna, figlia, nipote, come a dire che l’accudimento dei malati spetta sempre alla discendenza femminile). Un Babadook della terza età, con meno originalità ma momenti molto toccanti (altri non di ottimo gusto, visto il tema, ma tant’è).

La fantascienza politica con risvolti sociali, a sua volta, sembra coprire ormai buona parte del territorio. Lapsis di Noah Hutton, pur penalizzato dal basso budget e da attori non particolarmente carismatici, e pur evidenziandosi come un episodio allungato di Black Mirror, appassiona per come costruisce un mondo parallelo in cui l’automazione della gig economy è arrivata ad estremi devastanti. Interessante e paradossale l’intreccio tra mondo completamente digitalizzato e background fisico dello stesso, con i precari del lavoro privato costretti a cablare faticosamente mezzo mondo per farlo funzionare.

Ovviamente quel che interessa del Trieste Science Plus Fiction è anche l’apertura geografica alle produzioni internazionali, anche le più inattese come il potente horror Post Mortem di Péter Bergendy, ungherese, ambientato nel 1918, legato al tema del fantasma, della fotografia e del ritratto mortuario. Anche qui le istanze metaforiche (prima guerra mondiale, Spagnola, folklore, comunità ecc) si sprecano, ma con cura formale non scontata e momenti seriamente inquietanti.

Un festival sempre appassionante, in ogni caso. Complimenti.

COLONIZZARE LA LUNA (E NON SOLO)

Questa volta recupero un piccolo contributo scritto in occasione dei 50 anni dell’allunaggio, scritto per la pubblicazione (scaricabile qui) della Cineteca di Bologna, a cura dell’Associazione Schermi e Lavagne, intitolata Destinazione Luna. Il tono è ovviamente divulgativo ma mi fa piacere sottoporlo al lettore.

Colonizzare. Parola che riporta alla mente un passato della storia contemporanea poco commendevole. C’è persino una branca di studi accademici che si chiama “studi post-coloniali”, che intende definire i rapporti tra occidente e luoghi de-colonizzati rispetto alle varie soggettività che sono nate dopo il periodo di riferimento. Nel cinema di fantascienza, non è raro che sia stata la Terra – forse per pagare il fio di tante ingiustizie – a diventare obiettivo di una colonizzazione, come nel caso del sempreverde L’invasione degli ultracorpi, baccelli extraterrestri pronti a copiare le nostre fattezze (il copyright del corpo, in fondo) per sostituirsi. D’altra parte, che cosa voleva fare Jake Sully, il marine di Avatar, se non infiltrarsi nel corpo di un abitante del pianeta Pandora per facilitare invasione e distruzione di una civiltà? Poi nel corso del film, per fortuna, ha cambiato idea.

La conquista della Luna pone senz’altro meno problemi umani, per l’assenza di popolazione. Non per questo l’approccio appare sempre positivo. In Transformers 3 la faccia nascosta della Luna cela comunque molti segreti, ma senza scomodare l’immarcescibile complottismo su quanto avvenuto nel 1969; l’essere umano basta da solo a mettersi nei guai. A volte generando altri se stessi, e non per allusioni pirandelliane (che pure funzionano da suggestione per i cinefili italiani): in Moon l’astronauta sulla base lunare amerebbe soffrire di solitudine pur di non veder arrivare una sua copia sputata, un sosia che cambia la percezione del mondo e del mercato, visto che l’ultima frontiera del capitalismo (come spiegato già da Blade Runner nel lontano 1982) è trasformare il corpo umano in forza lavoro artificiale, replicabile.

D’altra parte, la Terra rimane sempre un luogo problematico. In Wall-E gli uomini in fuga dal proprio pianeta inquinato, che hanno contribuito a prosciugare di vita, si ritrovano su una colonia vagante, dove non hanno altro da fare che rimanere per sempre consumatori, seduti su poltrone e ormai privi di forza fisica, rotondi come un Botero. Invece in Interstellar, il problema dell’inquinamento (vera e propria ossessione del cinema di fantascienza, insieme all’apocalisse nucleare) suscita interrogativi più tecnici. Che si voglia colonizzare un altro pianeta, è fuori di dubbio. Ma quale? E come si trasporta la forza di gravità? Quando il protagonista si infila in continui cunicoli spazio-temporali è perché l’ossessione dello spazio è fin troppo spesso considerata in maniera pre-galileiana. Non a caso nel 1902, Méliès, nella prima scena di Voyage dans la Lune, mostrava un consesso di scienziati in cui il più visionario tracciava su una lavagna una normale traiettoria a trattini. Dalla Terra alla Luna. Senza tenere conto del tempo, che è curvo e complicato ancor più dello spazio con cui interagisce, suscitando – come in Nolan – non solo grandi domande sul futuro dell’umanità ma anche sulla narrazione cinematografica.

Tra le colonizzazioni più credibili degli anni recenti c’è sicuramente The Martian di Ridley Scott. Si tratta, notoriamente, del film che analizza nel modo più realistico possibile che cosa potrebbe succedere quando andremo davvero su Marte. I guai dell’astronauta, primo colono, vengono risolti dall’abnegazione dell’uomo americano per eccellenza, interpretato da Matt Damon, che grazie alle sue capacità di agricoltore e di homo faber, sopravvive in ambiente ostile. Per molti critici, il bel film di Scott fa più parte del cosiddetto survival (sottogenere dedicato alla sopravvivenza in condizioni estreme) che della fantascienza. E in effetti è stato esilarante scoprire che – intervistati per un’indagine – alcuni spettatori statunitensi si sono dichiarati convinti che The Martian fosse tratto da una storia vera. Dramma dell’ignoranza o potere convincente del cinema? Certo è che il sapore veritiero che Scott ha voluto trasmettere alla sua spedizione scientifica ci dice molto del rapporto tra immaginario filmico e progresso aero-spaziale e scientifico.

In fondo, tutti i film sulla Luna girati dopo il 1969 hanno trasformato la science fiction in Storia. E quando si torna a parlare di Luna – come in Il primo uomo – si enfatizza l’aspetto meccanico e pre-digitale dell’impresa, quasi a confermare che quella conquista è stata stupefacente e coraggiosa. Non abbiamo colonizzato nulla, anzi sulla Luna non ci siamo nemmeno tornati. Ma la lezione per il cinema è stata incalcolabile, tanto da aver nutrito buona parte di questo genere, in epoca moderna e contemporanea.

“i giorni della vita” e il morality play

Il film è tratto da una pièce di William Saroyan, importante scrittore e drammaturgo americano, che per questo suo lavoro ha vinto alcuni dei più prestigiosi premi internazionali. Nel 1948, al momento di produrne la versione cinematografica, Saroyan era uno dei più quotati artisti del paese. Per questo motivo, sul film si è puntato molto, allestendo un cast di eccezione. Il ruolo di protagonista – meglio sarebbe dire di narratore o di arbitro della lunga galleria di personaggi – è infatti James Cagney. Tutt’intorno, caratteristi di prim’ordine, che molti appassionati di classico hollywoodiano riconosceranno per averli visti in decine di film, soprattutto di genere western: Ward Bond, Broderick Crawford (che girerà anche con Fellini, Il bidone, 1956), William Bendix, Wayne Morris.

I critici americani hanno definito il film un “morality play”, con ciò intendendo un dramma dalle profonde valenze etiche e civili. Il “morality play” è una tradizione settecentesca anglosassone che si è trasferita con originale dinamismo nella cultura teatrale americana. I personaggi di questi drammi sono portatori di concezioni differenti della vita sociale, e vengono destinati a un confronto serrato sulle proprie idee di vita e sui possibili modi di raggiungere la felicità. La tendenza alla riflessione sociale e all’insegnamento dei valori propria della cultura statunitense si trova anche in I giorni della vita. In questo film, tutto ruota intorno al Nick’s Saloon, un albergo ristorante frequentato da alcuni tipi fissi e da avventori occasionali. Tra di loro, c’è un po’ tutta l’America che si arrangia nella vita: piccoli truffatori, showmen in cerca d’ingaggio, ragazze dal passato poco raccomandabile, ricattatori e malavitosi, ma anche molte persone pulite, che cercano semplicemente di riscattarsi da una vita difficile.

Vista l’origine del testo, si può ben immaginare che gran parte della narrazione è affidata al dialogo e all’unità di luogo e azione. Scelta rischiosa, certo: tuttavia, quando la sostanza c’è – e in questo caso, in abbondanza – lo spettatore non risente di alcuna claustrofobia. Anzi, Time of Your Life è un film intellettualmente vivace, arguto, coinvolgente. La qualità dei dialoghi, molto fedeli al testo originale, è altissima. I personaggi sono uno più riuscito dell’altro: basti pensare alla figura dell’anziano “Buffalo Bill” che rappresenta simbolicamente tutto il passato degli Stati Uniti, quello dei pionieri e del mito. Ma anche il personaggio femminile, che afferma di aver viaggiato in lungo e in largo con una compagnia di varietà, dice qualcosa sull’intreccio di verità e finzione tipico della grande terra dei sogni, l’America.

Non si deve pensare che I giorni della vita sia un film solare. Lungo tutta la durata della pellicola, il tono è malinconico, intervallato da continue performance, canzoni, monologhi, esternazioni, crisi. Ognuno dei protagonisti ricava il proprio momento espressivo. In questi casi, il resto del cast diventa una sorta di pubblico muto, di spettatore della personalità altrui. Come per molti altri film presentati in questa stessa collana, la recente tragedia bellica aleggia sulla scena più di quanto non si pensi. Il cinema classico hollywoodiano, infatti, ancorandosi a codici e linguaggi solidi e riconoscibili, appare meno penetrabile agli eventi – anche traumatici – della realtà storica. In verità, i lutti e le glorie del secondo conflitto mondiale hanno lasciato il segno.

Il secondo dopoguerra è un periodo di assestamento per tutta la società statunitense. Si moltiplicano, in questi anni, i film che – in forma metaforica – riflettono sulla comunità, sul concetto di convivenza, sulla sensazione che una nuova, matura concezione del vivere insieme sia a portata di mano. I giorni della vita è uno dei film che risente del clima di questo periodo. Nel microcosmo narrativo di Saroyan, infatti, si può in filigrana scorgere una tipologia di società, una visione umana e comprensiva delle debolezze umane e degli errori quotidiani.

Dal punto di vista stilistico, il film presenta molti tratti di interesse. La macchina da presa denuncia continuamente la sua presenza, grazie a movimenti molto elaborati e a scelte inconsuete di rappresentazione dello spazio. Spesso, il personaggio che parla è inquadrato in modo da permettere di osservare ciò che avviene dietro di lui, in profondità di campo. Il bar dove si svolge la vicenda, poi, è raffigurato da tutti i punti di vista, quasi che si intendesse donare allo spettatore la prospettiva di ogni personaggio. Il gioco dei chiaroscuri offre risultati di gran qualità, specie quando nella stessa inquadratura compaiono particolari composizioni visive. La direzione degli attori è ragguardevole, tanto che l’affiatamento decreta la riuscita dell’operazione.

Il responsabile di un così brillante esito è H.C. Potter, cineasta di grande esperienza, non alieno all’ambiente teatrale. Tra i suoi film più celebri, il musicale Follie di Jazz (1941), la sarabanda di Helzapoppin’ (1941), e il grande melodramma Addio, signora Miniver (1950), seguito del celebre successo di William Wyler del ’42. Potter è abituato alla dismisura e alle emozioni più eccessive (riso, pianto, comicità dell’assurdo, come anche in La casa dei nostri sogni, 1948). Qui, invece, mostra una sapienza registica inattesa, un rigore estetico da grande autore.

Il lavoro sugli attori è essenziale. James Cagney ha impersonato per anni il gangster intraprendente e carismatico destinato alla sconfitta (Nemico pubblico, 1931; I ruggenti anni Venti, 1939), poi – negli anni Quaranta – ha saputo ammorbidire i toni delle sue interpretazioni (Bionda fragola, 1941; Sposa contro assegno, 1941), senza mai dimenticare la grinta delle origini (La furia umana, 1949). Potter sembra infatti incaricare Cagney del ruolo di “pivot”, per usare una metafora cestistica. Proprio lui, infatti, commenta gli avvenimenti in voce fuori campo, lui che offre la battuta agli altri personaggi, lui il perno intorno al quale girano gli altri attori: come se fosse al centro della scena per coordinare, da direttore d’orchestra, le interpretazioni dei suoi musicisti.

Con il volto schiacciato ma pieno di calore umano, il suo personaggio entra direttamente in azione solo nel finale, contribuendo a costruire un futuro migliore, se non per sé, almeno per le persone che ha imparato a conoscere. I giorni della vita è un piccolo grande film, che vale la pena recuperare e collocare nell’antologia dei classici.

“Ghosts on the loose” e i generi alla deriva nella hollywood popolare

La storia segreta del cinema americano è quella dei piccoli prodotti popolari, cuore pulsante del vero classico hollywoodiano e colonna vertebrale del consumo pomeridiano tanto nelle metropoli quanto nei centri più periferici. In questi film, di solito conditi di commedia, humor macabro, orientalismo esotico e avventura, non si trovano grandi star o finanziamenti di primordine. Tuttavia, molte volte la vocazione minoritaria di queste pellicole diventa sinonimo di freschezza di idee, libertà compositiva, piacere anarchico della messa in scena, originalità di contenuti. Ghosts on the Loose ne è esempio lampante. Troviamo un divo del cinema dell’orrore di un tempo – Bela Lugosi -, un regista specializzato in film popolari e bizzarri – William Beaudine -, un cast noto per far parte di una serie di pellicole buffe e scanzonate – i cosiddetti East Side Kids -, e un’Ava Gardner giovane e ancora non del tutto affermata.

Gli anni Quaranta, per il cinema americano, sono quelli di Gianni & Pinotto contro i mostri assortiti della Universal, quelli del musical di serie B, quelli della serie sulla Mummia, quelli degli Stooges e del comico demenziale ante litteram, quelli della “smalltwon life” tesa a rincuorare l’America di provincia in un contesto di guerra, insomma sono gli anni del cinema che parla a una nazione profonda e inquieta, e che cerca di intrattenerla con gli aspetti di uno show cinematografico non privo di interesse e caratteri inediti, almeno per gli appassionati e gli storici.

In questo contesto nasce dunque Ghosts on the Loose. Si tratta di un film curioso, che dimostra – tra le altre cose – come la fusione e l’ibridazione di generi diversi sia consuetudine nota già all’epoca classica, e non un’invenzione di Quentin Tarantino o dei fratelli Coen.

In questo caso, a darsi appuntamento per un incontro tra opposti, sono l’horror, lo spionistico e la commedia. Il primo genere è “convocato” dalla presenza stessa di Lugosi. Il volto di questo immigrato ungherese dal vero nome di Bela Blasko era già noto all’epoca del muto grazie al sodalizio con Tod Browning, che poi lo diresse nel celebre Dracula del ’31. Come da più parti è stato sottolineato, quel film diventò il trionfo e al tempo stesso la condanna di Lugosi, che venne impiegato in decine di pellicole – comprese quelle di Ed Wood che Burton ha celebrato, con Lugosi, in un delizioso film dark -, sempre negli stessi ruoli (con l’eccezione della parte secondaria offertagli da Lubitsch in Ninotchka, 1931). Già dagli anni Quaranta, Lugosi è Lugosi, interpreta cioè un personaggio ambiguo e soprannaturale ma gioca con il pubblico sul suo divismo di genere. Questo film, infatti, avrebbe in un primo tempo dovuto intitolarsi East Side Kids vs Lugosi, tale era ormai la fama del magnetico attore dalle folte sopracciglia.

Lo spionistico rappresenta invece la dimensione più “thriller” della storia. Infatti, l’impresa di pulizie dei East Side Kids si reca a sistemare la casa appena acquistata dall’amico in viaggio di nozze, per fargli una sorpresa. Per errore, però, i confusionari impiccioni finiscono tra le mura dell’appartamento a fianco, noto per essere abitato da fantasmi. I quali, però, non sono reali spettri, bensì trucchi escogitati da nazisti per tenere lontano gli indesiderati e sfruttare l’abitazione come covo per i propri loschi traffici. Un elemento propagandistico, sia pure annacquato in questo divertissement per famiglie, si aggiunge perciò agli elementi principali.

Infine, la commedia. Gli East Side Kids sono un po’ come gli Stooges – altri artisti assai poco conosciuti in Italia – senza la vena distruttiva e irriverente dei tre. I loro bersagli sono più a portata di mano, il loro umorismo più circense che dadaista. Tuttavia, Ghosts on the Loose è un documento importante per accorgersi di un cinema americano sempre in contatto con le novità provenienti dai palcoscenici, del vaudeville di città e del burlesque di provincia. Gianni & Pinotto, come i fratelli Marx, sono tra i modelli degli East Side Kids.

In fondo, Ghosts on the Loose fa prevalere la dominante comica. Si può affermare che si tratti di una parodia, anche se non esiste un bersaglio preciso. Ad essere ridicolizzato è piuttosto tutto il sottofilone delle case stregate. La spiegazione razionale ad avvenimenti apparentemente soprannaturali è un classico dei film sulle “haunted mansions” e riporta a una tradizione teatrale (il Tartufo), del cinema delle origini (The Cat and the Canard di Paul Leni), e letteraria (dal gotico al mystery).

Botole, scalinate, refoli di aria fredda, tutto l’armamentario spettrale viene sciorinato dai nazisti capitanati da Lugosi alo scopo di allontanare i nuovi arrivati. Eppure, come tradizione vuole, gli East Side Kids in fondo sono troppo stupidi anche per avere paura, per cui – sebbene spaventati a morte – finiscono col resistere stoicamente (e stoltamente). Alcune gag sono decisamente irresistibili: ad esempio, la sequenza del ritratto, dove Bela Lugosi inganna i presenti sostituendo il proprio volto a quello della nobildonna incorniciata, salvo poi starnutire a causa della polvere. Qui l’attore dà prova di grande autoironia, scherzando sull’impassibilità del proprio viso e lasciandosi dolcemente prendere in giro dai coprotagonisti.

Meno memorabile, la filmografia di William Beaudine è però un must per chiunque voglia conoscere il lato meno celebrato dello studio system classico. Come si diceva, Beaudine rappresenta quello spettacolo popolare e squisitamente “B movie” che viene utilizzato per il “double bill” (il doppio spettacolo) nei cinema dove si proietta un film di serie A, o che successivamente viene presentato nelle matinée cinematografiche piene di ragazzini urlanti. Titoli come Lo scrigno orientale, Il serpente piumato, Billy the Kid contro Dracula, o Jesse James incontra la figlia di Frankenstein spiegano molto meglio di qualsiasi analisi in che fantasioso, bambinesco terreno ci muoviamo e aprono scenari tra l’esotico e il fiabesco, animati da una voglia irrefrenabile di divertirsi con i miti moderni della celluloide.

Il soprannome di Beaudine era “One-Shot”, ovvero “una sola ripresa”, prova della sua rapidità nel girare e dell’esperienza maturata. E’ ad artigiani come lui che, a ben vedere, si deve la solidità delle fondamenta hollywoodiane. Solo grazie a film puliti e professionali come Ghosts on the Loose un’industria può poi sorreggere sforzi economici per i generi maggiori e per i cineasti più esigenti.

COLONNE DI CRITICA

Con colpevole ritardo parlo di un volume che mi è molto caro e che l’autore ha avuto la gentilezza di scrivere includendomi in alcune sue parti antologiche. Si tratta di Il cinema tra le colonne di Denis Lotti (Rubbettino Editore, 14 euro) ed è uno dei contributi più lucidi e comprensibili sulla critica cinematografica che siano usciti negli ultimi anni (e mi includo tra quelli che giungono più indietro, rispetto a Lotti, in questa classifica della chiarezza).

Come al solito, il volume lo facciamo presentare dai materiali editoriali virgolettati: “Da almeno un secolo, in Italia, coesistono esperienze eterogenee di critica cinematografica, che disegnano un percorso discontinuo tra passato e presente, tra stampa cartacea e Internet. Dopo un compendio di storia della critica, rivisitata dai pionieri sino ai giorni nostri, l’autore analizza metodi, forme e stili della recensione cinematografica prendendo in esame un ampio ventaglio di quotidiani, periodici, testate, blog e social network. In appendice è presente una antologia di testi scelti, esemplari della vivacità del dibattito italiano sul cinema dall’epoca del muto sino a oggi”.

Piace, del libro, la capacità di interconnettere i momenti della storia della critica cercando di farli dialogare e non per forza privilegiando la discontinuità e gli strappi rispetto al quadro generale. Forse è la forma mentis da storiografo e ricercatore (attento ai documenti più che alle speculazioni identitarie) dell’autore che distingue Il cinema tra le colonne da altri testi sulla critica, talvolta molto teorici o più versati sulla dimensione memoriale e manualistica (o meglio precettistica). L’esemplificazione antologica funziona a sua volta molto bene, ma è soprattutto nella ricostruzione del percorso della critica negli anni che il libro convince e appassiona, mantenendo la promessa del sottotitolo, ovvero spiegare “storia, metodi e luoghi” di questa tanto analizzata istituzione oggi assai fluida.

Pur essendo ben consapevoli che agli studiosi non è richiesto di amare il proprio oggetto di studio (che anzi talvolta è meglio maneggiare da amico o conoscente non stretto), si vede che Lotti vuole bene alla critica e alla sua storia. In questo caso, non nuoce affatto.

I tre sguardi di “elephant man”

Quarant’anni dal capolavoro di David Lynch. Il restauro, attentamente coordinato dall’Immagine Ritrovata, e in particolare da Davide Pozzi, insieme allo stesso Lynch (dalla California), ripropone il bianco e nero di Freddie Francis in maniera intensa e classicizzante.

Avendo avuto il privilegio di introdurre il film, ho proposto al pubblico questo dubbio. Che cosa sarebbe stata la carriera di Lynch se l’equilibrio trovato questa volta e la fiducia accordatagli da Mel Brooks si fossero ripresentate per tutta la carriera? Nessuno ovviamente vorrebbe cambiare la magnifica carriera di David Lynch, a cui del resto chi scrive ha dedicato libri e saggi, ma quarant’anni dopo viene la tentazione di immaginare un Lynch completamente hollywoodiano e come sarebbe stato il suo cinema se si fosse svolto sempre all’interno della produzione ufficiale.

In ogni caso, come in altri articoli dedicati al Cinema Ritrovato 2020, ospitiamo un pezzo d’epoca, saccheggiando il catalogo del festival, e stavolta tocca a Serge Daney (Cahiers du Cinéma, aprile 1981):

“Nel corso del film John Merrick è oggetto di tre sguardi. Tre sguardi, tre epoche del cinema: burlesca, moderna,classica. O anche: il baraccone, l’ospedale, il teatro. C’è innanzitutto lo sguardo dal basso, quello del popolino,e lo sguardo (duro, preciso, brusco) di Lynch su questo sguardo. Ci sono sprazzi carnevaleschi, nella scena in cui Merrick viene ubriacato e sequestrato. Nello spettacolo da baraccone non c’è un’essenza umana da incarnare (nemmeno sotto le sembianze di un mostro), c’è solo un corpo da schernire. Poi c’è lo sguardo moderno, quello affascinato del medico, Treves: rispetto dell’altro e cattiva coscienza, erotismo morboso ed epistemofilia. Occupandosi dell’uomo elefante Treves salva se stesso: è la battaglia propria dell’umanista (alla Kurosawa).

C’è infine un terzo sguardo. Più l’uomo elefante è conosciuto e festeggiato, più coloro che gli fanno visita hanno il tempo di costruirsi una maschera, una maschera di cortesia che dissimula ciò che provano vedendolo. […]Il finale del film è molto commovente. A teatro, quando Merrick si alza nel suo palco perché coloro che lo applaudono possano vederlo meglio, non si sa più precisamente cosa c’è nel loro sguardo, non si sa più cosa vedono. Lynch è allora riuscito a riscattare – l’uno attraverso l’altra, dialetticamente – il mostro e la società. Ma solo a teatro, solo per una sera. Non ci saranno altre rappresentazioni”.

Le gambe di henry fonda

Henry Fonda non sa bene dove mettere le gambe e per questo ha bisogno di spazio. Un uomo alto, magro, ma non impacciato. Gli piace sedersi e dondolarsi, qui e in famosi film successivi (primo fra tutti, Sfida infernale). In Alba di gloria è tutto un sedersi in posti improbabili, trovare uno strapuntino dove posare il sedere e trovarsi le ginocchia in bocca, camminare lentamente davanti alla corte di giustizia mentre interroga i testimoni, sdraiarsi appena può in un bosco o in un cortile. Il Lincoln che John Ford gli costruisce addosso ha poco dell’imitazione ritrattistica (anche se il naso posticcio di Fonda serve a ricordarne i noti tratti somatici) e molto dell’andamento dinoccolato e della prestazione corporea di un Fonda meraviglioso, al tempo stesso pigro e pugnace.

Come scrive Geoffrey O’Brien (lo ricorda il curatore della sezione su Fonda al Cinema Ritrovato 2020. Alexander Horwath): “Il Lincoln di Ford è l’immagine speculare del regista. Immagine ulteriormente rispecchiata dalla “straordinaria interpretazione di Fonda. La sua collocazione nello spazio, la sua distanza relativa da coloro che lo circondano e la sua dose di agio o disagio sono punti di riferimento costanti. Non riusciamo a togliergli gli occhi di dosso, eppure a momenti quasi scompare nella massa. La sua maturazione politica, quando affronta la folla che vuole linciare i suoi clienti, è compensata dai momenti in cui prende le distanze e guarda lontano o dentro di sé. Ogni punto di contatto e ogni perdita di contatto sono registrati con un’ipersensibilità elettrica, non da ultimo in scene che paiono immerse in una quiete pastorale”.

Come a dire che i formalismi della messa in scena e gli studi sul linguaggio classico vanno spesso a sbattere contro i nodi più particolare della significazione cinematografica e soprattutto della produzioni di effetti emotivi e nella costruzione dell’identificazione spettatoriale. Molto passa attraverso l’attore e la sua gestualità, o persino – nel caso di Ford e Fonda – attraverso una magnifica collaborazione basata su di un preciso progetto spaziale e recitativo.

Lo stesso Fonda racconta: “Non conoscevo Ford. Conoscevo i suoi film e gironzolavo sul set quando girava Ombre rosse. Me ne stavo lì davanti alla sua scrivania come un sottufficiale con il cappello bianco in mano, e lui era l’ammiraglio. Le sue parole suonarono all’incirca cosi: ‘Cos’è ‘sta stronzata che non vuoi interpretare Lincoln? Credi che sia quel cazzo di Presidente? È un giovane e inesperto avvocato di Springfield, Cristo santo’. Ed è così che mi minacciò e mi convinse”.

Un Oscar e una bottiglia

In La diva The Star di Stuart Heisler del 1952, proiettato al Cinema Ritrovato 2020 – c’è questa meravigliosa scena di Bette Davis, attrice in declino, che afferra il suo Oscar, lo mette sul lunotto della macchina, e comincia a guidare bevendo smodatamente. Il film non è gran che e non riesce a pareggiare Viale del tramonto (e a Bette Davis deve essere dispiaciuto, persino in una sfida su personaggi di dive in crisi), però possiede alcuni assoli eccezionali. Come questo.

Ne scrive molto intelligentemente Ehsan Khoshbakht: “Girato in ventiquattro giorni, il film è ben articolato ed esplora alcuni dei temi prediletti di Heisler, come il conflitto tra maternità e carriera (Smash-UpTulsa) e l’esclusione da un mondo, quello dello spettacolo, che è stato al centro di sogni e sacrifici (Smash-Up). I personaggi vanno alla deriva fino al limite estremo prima di fare ritorno, feriti ma lucidi (si veda anche Journey into Light). Heisler mette a nudo le emozioni, rendendo i personaggi ancora più vulnerabili di quel che sono. A prevalere è il linguaggio del melodramma, portato qui quasi alla perfezione, ma il vagare disperato nella notte e il bussare affranto alle porte richiamano anche la logica del noir”.

Straordinario il momento in cui Bette Davis guarda se stessa nei giornalieri dopo aver testardamente chiesto di poter cambiare la propria recitazione e ringiovanito il personaggio che doveva interpretare. La donna si accorge di quanto è inappropriata e smorfiosa sullo schermo e piange se stessa. Il film, poi, è di maschilismo quasi accanito, dando alla donna un’unica via d’uscita: le braccia di un marito stabile.

“LA LETTERA ACCUSATRICE” E LA SMALL TOWN AMERICANA

Proseguiamo nell’esplorazione delle pieghe più nascoste del cinema classico, rielaborando alcuni articoli del passato (in questo caso per una vecchia collana di DVD). Oggi parliamo di La lettera accusatrice di Tay Garnett, in originale Cause for Alarm. Questo film utilizza quello che gli esperti chiamano “meccanismo di strangolamento”. Significa che il film (per lo più di genere thriller o avventuroso) comincia in una situazione apparentemente serena e peggiora via via mettendo il protagonista in un pericolo crescente. Tutto volge al peggio, fino a che – metaforicamente – spettatore e personaggio si sentono soffocare, perché ogni via d’uscita sembra preclusa. Funzionano così alcune delle migliori sceneggiature americane, e La lettera accusatrice non fa eccezione.

Girata in pochi giorni e pensata probabilmente poco più che come “b-movie”, la pellicola del 1951 si svolge quasi in tempo reale e anticipa i meccanismi di suspense utilizzati, per esempio, da un serial come 24. La protagonista, infatti, deve correre contro il tempo per fermare la missiva del marito, malato di nervi, destinata al procuratore distrettuale, nella quale la donna verrebbe ingiustamente accusata della sua morte. Su questa premessa, si snoda il racconto. La donna, impreparata a fronteggiare la crisi, commette un errore dietro l’altro e cercando di tenere celata la morte del coniuge, si comporta in maniera inconsueta con tutti coloro che la circondano e accumula omissioni e piccole bugie destinate a ritorcersi contro di lei.

Il film è girato in spazi claustrofobici: l’appartamento dove la coppia abita, il vialetto di casa, il quartiere. Al massimo ci si spinge alla fine della strada principale: è un altro accorgimento per produrre sentimenti di ansia e incertezza nello spettatore. Importante anche l’architettura interna della casa. Il pianoterra sembra appartenere all’utopia di una famiglia felice, il piano di sopra invece è il luogo della nevrosi e dell’instabilità. Quando il marito muore, la donna deve impedire a chiunque di salire le scale. La stanza della “follia” finisce fuori campo, diventa una torre inaccessibile, un confine da non oltrepassare a nessun costo.

Al di là delle evidenti caratteristiche che rendono il thriller avvincente, però, si fa strada una non banale riflessione sociale. A ben pensarci, infatti, quando la protagonista entra in crisi, l’intera, piccola comunità che la circonda diventa ostile. La vicina di casa spia e spettegola, il postino si rifiuta di restituire la lettera intestardendosi sui regolamenti cittadini, il bambino che scorrazza in bicicletta sul vialetto di casa rischia di farsi a bella posta investire, la zia del marito s’impiccia e si intromette. Il delicato quadretto che per solito siamo abituati a trovare nel cinema americano degli anni Cinquanta finisce rapidamente in pezzi. Esso diventa intollerabile per la protagonista e pericoloso per la sua innocenza. Solo il coraggio e la freddezza della donna riescono a farle affrontare una situazione che, da ordinaria qual è, si è trasformata in kafkiana.

L’aggettivo può essere usato senza remore. In fondo, il meccanismo che rischia di schiacciare la donna ha qualcosa di assurdo. Il film, del resto, deve probabilmente molta della sua energia alla lezione del noir (le cui storie criminali saccheggiavano senza ritegno Freud e Kafka) e alla nascente sfiducia nella provincia americana. Non è un caso che in quegli stessi anni – dal 1951 in poi – Philip K. Dick sviluppi i suoi angoscianti racconti brevi ambientandoli nelle piccole città statunitensi, e che l’horror investa presto le stesse, apparentemente calme, cittadine. Forse, La lettera accusatrice merita di non essere liquidato come un divertissement fine a se stesso, ma di ottenere una valutazione di più ampio respiro che ne saggi l’importanza dentro un intero contesto culturale e storico.

Che cosa ci vuole dire il film? Forse questa perfetta cittadina americana non è così raccomandabile. Forse gli abitanti apparentemente sorridenti e pacifici sanno essere molto velenosi, quando vogliono. Forse lo scandalo sociale di una moglie che può sopravvivere senza il marito è la vera posta in gioco, il vero motivo per il quale nessuno vuole aiutare la donna.  O più semplicemente, La lettera accusatrice mette in guardia da chi consideriamo affidabile. In fondo, basta un po’ di malsana curiosità, di mediocre invidia per mettere in pericolo l’innocenza di una persona. Ecco perché il film, sotto le spoglie di un thriller piacevole e pieno di tensione, merita un’attenzione particolare.

Vale la pena aggiungere qualche annotazione sulla figura del marito, interpretato dall’ottimo Barry Sullivan. Il cinema americano ha avuto sempre una qualche ritrosia a rappresentare le malattie mentali, almeno fino all’epoca contemporanea dove il cosiddetto “handicap movie” ne ha mostrate numerose. Il reduce di guerra di questo film appare psicologicamente scosso e fisicamente debole. E’ un uomo chiuso in se stesso, ormai incapace di assumersi il ruolo di capofamiglia che gli spetterebbe. E’ ossessionato dall’idea che la moglie sia innamorata dell’amico medico. Passa tutto il giorno a rimuginare sul proprio sospetto e arriva persino a convincersi che i due tramino la sua morte. Qualcuno potrebbe dire che l’uomo ha visto troppi noir. Effettivamente, la sua paranoia potrebbe essere la perfetta trama di un altro film, di quel genere che abbiamo poco fa citato. E’ come se La lettera accusatrice contenesse due “mondi possibili” narrativi: quello del thriller – che il film sceglie di sviluppare – e quello del noir – che appartiene solo alla mente instabile del marito.

Il film si avvale della regia sorvegliata e rapida di Tay Garnett, regista amato dai cinefili per la sua abilità nell’adattarsi ai vari generi cinematografici e grazie alle indubbie qualità di messa in scena. Film come La taverna dei sette peccati (1940), Bataan (1941), Il postino suona sempre due volte (1946) valgono come altrettanti biglietti da visita. Sapiente nel destreggiarsi tra spazi stretti e luoghi asfittici, Garnett mostra di saper dosare la tensione e far crescere lentamente la suspense. In alcuni casi, attinge persino alla tradizione espressionista. Per due volte, ombre e silhouette si stagliano dietro la porta. Si tratta di un espediente di inquadratura e di luministica che rappresenta le angosce della protagonista. Non è cioè una visione soggettiva o un sogno a raccontarci della nevrosi incombente, bensì un effetto visivo che appartiene all’ambiente circostante. E’ una sorta di discorso libero indiretto del cinema, o – come lo chiamava Pasolini – una “soggettiva libera indiretta”: quello che vediamo è in verità filtrato e ingigantito dalla psicologia della donna.

Tuttavia, il suo film avrebbe perso di efficacia senza la protagonista, Loretta Young, parte integrante della vicenda e perfetta interprete per la parte di una donna comune alle prese con una emergenza imprevista. Attiva fin dagli anni Trenta – dopo una “gavetta” nel cinema muto -, la Young ha interpretato numerosi personaggi, riuscendo ad essere contemporaneamente materna e sensuale, spiritosa e affidabile. Ha girato commedie (La gelosia non è di moda, 1937, Mia moglie cerca marito, 1937), drammi (Le due suore, 1949), film d’avventura e in costume, finendo anche alla corte del grande Orson Welles (Lo straniero, 1946). Si tratta di un volto molto particolare, dagli occhi chiari e profondi e dalle labbra sensuali. Questa compresenza di elementi rassicuranti e particolari seducenti ne hanno fatto un’attrice versatile, forse troppo inclassificabile per diventare una diva a tutti gli effetti, ma capace di vincere un Oscar nel 1947 per La moglie celebre di H.C. Potter. Gli appassionati, comunque, la ricordano con affetto. Volle girare La lettera accusatrice come uno dei suoi ultimi film, prima di ritirarsi dal cinema e dedicarsi alla televisione e a opere di carità.

un pezzetto di POZZETTO

Mi accodo ai molti, sacrosanti ricordi dedicati a Renato Pozzetto di questi giorni, in cui il comico compie 80 anni. Si tratta di un personaggio unico nella cultura popolare italiana, fortemente legato al milieu lombardo di provenienza (come gli amici Cochi Ponzoni, Enzo Jannacci e Beppe Viola, insieme a molti altri), che ha saputo – anche grazie all’intelligenza di un produttore come Achille Manzotti – costruire un pezzetto di commedia italiana a metà tra il surreale e il pop.

Non è dei titoli più autoriale che vogliamo parlare (quelli con Lattuada o Mogherini, per esempio), e nemmeno dei due lavori con Celentano o delle commedie più addomesticate degli anni Ottanta. Piuttosto – visto che abbiamo altrove parlato di film a episodi – ci piace ricordare una sequenza (e questa è proprio la rubrica dedicata a singole scene di film), una delle più folli girate da Pozzetto. Si tratta di un breve estratto da Io tigro tu tigri egli tigra e potete rivederlo in fondo.

Il film uscì nel 1978 e fin dal titolo doveva alludere a Tre tigri contro tre tigri uscito l’anno prima con enorme successo. Siamo in una fase volgarizzata della commedia a episodi, pensata proprio per esaltare alcuni comici di grande successo, noti anche in televisione. In questa seconda fatica, Pozzetto è anche regista. Ma – quel che conta ancora di più – in scrittura troviamo Enzo Jannacci, Gianni Manganelli, Cochi Ponzoni, lo stesso Pozzetto, Italo Terzoli, Enrico Vaime, Castellano e Pipolo. Per dire. Pur stroncato dalla critica, Io tigro tu tigri egli tigra contiene alcuni momenti eccezionali come quello qui riproposto.

Oltre al momento straniante della trattoria Milan-Inter che si apre – come fossimo “ai confini della realtà – su San Siro, c’è la lunga gag della “Trattoria Semivuota”, un capolavoro di nonsense dove Pozzetto, tapino vestito un po’ da motocarrista e un po’ da pilota Ferrari, viene insultato da una vecchia locandiera, un avventore maleducato e un cuoco violento; maltrattato, servito con porzioni ridicole (e con un bicchiere di “acqua alla spina”, ovvero un bicchier d’acqua con una spina da elettricista immersa dentro), e infine cacciato in malo modo dalla stamberga.

Diretto dall’attore, questo stralcio del primo episodio (gli altri due dei tre complessivi sono con Paolo Villaggio ed Enrico Montesano diretti da Giorgio Capitani) ci dice molto della vena pozzettiana, che capitava si scatenasse proprio nei frammenti e nei lacerti che magari i processi di nobilitazione del comico rischiano di dimenticare. Nel precedente film “tigresco” i registi erano Sergio Corbucci e Steno, ma anche lì Pozzetto aveva messo il naso in sceneggiatura, e nel primo episodio – dove interpreta un prete – ci sono altre chicche tra il lunare e il demenziale, come quella dove, mentre spia Cochi con il cannocchiale da un campanile, dichiara di stare “sistemando il paesaggio”.

Dunque, per comprendere Pozzetto è abbastanza inutile separarne la figura cabarettistica più intellettuale da quella dei tormentoni musicali, la carriera di idiot savant di certo, tardo cinema d’autore dai film alimentari del periodo Lucisano (il produttore dei due titoli in questione, con la sua IIF), perché Pozzetto è una cosa sola, e il suo tocco s’imprime dappertutto, o con scene improvvise o negoziando con diversi contenitori, ragionamento del resto valido per la gran parte dei comici cinematografici.

ritorno alla “citta’ magica”

La città magica di William A. Wellman (1947) è un ottimo esempio di cinema americano che indaga sulla società ideale e sulle utopie civili. Rivedendo il film, vengono alla mente le opere di Frank Capra, che infatti avrebbe in un primo tempo dovuto dirigere la pellicola. La sceneggiatura, a sua volta, è stata scritta da Robert Riskin, abituale collaboratore di Capra. In effetti, molti dei temi cari al cineasta italo-americano compaiono puntualmente: l’ideale roosveltiano di una cittadinanza capace di cooperare per il bene comune, il pericolo di una eccessiva esposizione al mercato e ai mass media, la tentazione dell’avidità individuale, la ricerca della felicità singolare temperata dalle altrui esigenze.

Più che la città magica, quella raccontata dal film è la città perfetta. Il giornalista interpretato da James Stweart crede di aver trovato il centro cittadino più adatto a rappresentare l’intera comunità degli Stati Uniti. L’idea – statistica – è che sondando gli umori dei cittadini, si riesca a ottenere l’orientamento dell’intera nazione su materie tra di loro disparate: la politica, il gusto comune, la sensibilità sociale, insomma l’intera pubblica opinione. Come sappiamo bene, però, test, sondaggi ed exit poll vengono troppo spesso smentiti dalla realtà. Così accade anche questa volta, e i risultati delle ricerche sono troppo bizzarri per essere presi sul serio. Parafrasando il principio di Heisenberg: analizzando un processo troppo da vicino, l’osservatore finisce col modificarlo. Anche i pareri dei cittadini impazziscono, poiché essi si trovano impreparati a tutta l’attenzione che i media riservano loro, e mutano il proprio modo di sentire e vedere il mondo a seconda di chi li intervista.

La città magica dovrebbe essere proiettato nei corsi di laurea in Storia per comprendere come una certa America, democratica e ottimista, rappresentava se stessa all’altezza del 1947. La seconda guerra mondale è appena finita, e la società statunitense, grazie alla vittoria nel conflitto bellico, sembra godere di un periodo di serenità e coesione sociale. Tuttavia, qualcosa scricchiola: l’egoismo capitalista e le scalate finanziarie possono travolgere il tessuto faticosamente costruito da Roosevelt dopo la crisi economica del 1929. Ecco che film come Città magica cercano di interpretare nuovamente lo spirito che portò l’America fuori dalla crisi negli anni Trenta. E’ un grido nostalgico, quello che cerca di avvertire dei pericoli dell’eccessiva ricchezza e dei falsi doni dell’euforia generalizzata.

Il film si compone di tre movimenti. Il primo è quello dell’arrivo nella città perfetta. Essa si trova sul territorio statunitense ma è come se fosse sospesa in una sorta di surrealtà. Noi vediamo tutto con gli occhi del protagonista, accecato dal proprio preconcetto. Egli saluta ogni abitante che incontra per strada, ricevendo sguardi perplessi. Gli unici che sembrano davvero prestargli attenzione sono i ragazzi della scuola comunale, che gli chiedono consigli sul gioco della pallacanestro. La spontaneità degli abitanti convince il nostro giornalista di trovarsi nella città giusta, se non fosse per gli screzi con la giornalista del luogo, una penna acuminata che sembra aver compreso le sue intenzioni (ma l’amore è naturalmente proto a sbocciare). La seconda parte del film rappresenta invece il crollo dell’utopia. I mass media, una volta scoperta la città ideale, la sconvolgono, e la mandano in rovina, dopo averla abbandonata perché inaffidabile. E così comincia il terzo e ultimo capitolo del film, quello in cui – non sveleremo come – la città tenta di risollevare le proprie sorti, e i due innamorati di ritrovare pace e serenità.

A parte questo inquadramento ideologico, che trova certamente nel cinema di Frank Capra il suo modello principale, va detto che i meriti del film vanno anche oltre. Non c’è dubbio che il tono da commedia umanista provenga dalla lunga tradizione hollywoodiana nella cura del personaggio e del dialogo. Il protagonista è solo uno dei tanti “every day men” (uomini di tutti i giorni) che James Stewart ha saputo interpretare. Basti ricordare proprio la lunga militanza nel cinema di Frank Capra (L’eterna illusione, 1938, Mr. Smith va a Washington, 1939, La vita è meravigliosa, 1946), le collaborazioni con Ernst Lubitsch (Scrivimi fermo posta, 1940), per non parlare poi dei ruoli con Hitchcock, che secondo alcuni critici ne hanno trasformato la carriera portandolo su lidi meno ottimistici e sicuri (Nodo alla gola, 1948; La finestra sul cortile, 1954; L’uomo che sapeva troppo, 1956; La donna che visse due volte, 1958, forse il ruolo più oscuro e tragico di tutta la carriera). Dinoccolato, magro e legnoso, Stewart ha sempre evidenziato una sorta di “inadeguatezza” al mondo, di impossibilità ad essere completamente normale.

Egli è al tempo stesso il perfetto americano e il cittadino metropolitano lunare e toccato (vena folleggiante sviluppata soprattutto da Harvey, 1950). Per i motivi esposti, non ci poteva essere interprete migliore di Stewart per un film come Città magica. L’attore dà al suo giornalista senza scrupoli un’umanità impareggiabile, quella che permette all’uomo di sentirsi a casa anche senza volerlo, di trovare nella cittadina che lui stesso ha scovato il calore e la grazia della migliore provincia statunitense. Egli imparerà che quella città è “magica” perché è “everytown”, è cioè ogni cittadina d’America, con i suoi difetti e le sue bizzarrie, ma tuttavia sana e positiva come la nazione che la contiene. E’ il tipo di ottimismo e di sprone che Stewart ha saputo impersonare meglio di chiunque altro.

Il tono del film è comunque lieve. La galleria dei caratteri merita una menzione, poiché ogni personaggio rappresenta davvero un pezzo della comunità, a cominciare dai ragazzini, impegnati nel comprendere il basket e la vita, e a un certo punto persino indispensabili per la salvezza della città. Il merito di questa sensibilità narrativa è da attribuire, oltre che alla bravura del già citato soggettista, a William Wellman, cineasta oggi meno celebrato di altri, ma certamente non secondo ai nomi più noti.

Il piacere nel rivedere oggi film come La città magica sta proprio nella limpidezza del racconto e nella esemplarità della composizione. Si tratta del miglior cinema classico hollywoodiano, quello che – a fronte di una semplicità che sarebbe errato scambiare per ingenua – insegna a riflettere sulla società e sulle scelte umane.

FAR EAST FILM FESTIVAL 2020 – IL CASO Watanabe Hirobumi

Dopo la prima zingarata dentro il FEFF 2020 – ispirata a visioni anarcoidi e riflessioni estemporanee – oggi chiudiamo con la seconda e ultima incursione nella bellissima edizione online organizzata sulla piattaforma di MyMovies con i film retrospettivi. Oltre all’occasione di vedere opere a me conosciute di Im Sang-soo (The President’s Last Bang, sarcastica e raggelante ricostruzione dell’attentato al presidente/dittatore della Corea del Sud nel 1979, realizzato nel 2005 e ora già restaurato in versione non censurata) e di Hou Hsiao-hsien (Cheerful Wind, 1982, lieve, squilibrato e preziosamente indifeso), c’è stato modo di salutare il maestro Obasyashi Nobuhiko con la sua ultima mezza follia, le tre ore di Labyrinth of Cinema, girato prima di morire e summa della sua opera, un mix tra metacinema, Jodorowsky in salsa nip-pop, arte del collage e post-godardismo. Commovente nel suo assurdo e delizioso rifiuto di seriosità.

Per quanto mi riguarda, però, la vera sorpresa (e il vero bottino di conoscenza garantitomi dal FEFF) è il cinema di Watanabe Hirobumi, cineasta giapponese, capace di dirigere e prodursi i suoi film tipo ingegnoso e divertentissimo le cui presentazioni erano tutte un programma – un’inquadratura fissa tra Kaurismaki e Lynch dove ha presentato, con scenografia ironica e piena di oggetti sconnessi (tra cui ben due foto della nonna, icona-feticcio dei suoi film), ogni pellicola mantenendo un equilibrio perfetto tra aria sudaticcia e cortesia impeccabile.

I suoi film, in parte da lui stesso interpretati, stanno a metà tra cinema contemplativo contemporaneo e elementi comico-ironici non del tutto estranei a una tradizione “congelata” in stile Suleiman o Kitano. In I’m Really Good, il più tenero e meno sarcastico, le ore della giornata di alcuni bambini scorrono con immutabile monotonia salvo piccoli sprazzi di humour (l’arrivo di un venditore di libri ambulante che finisce involontariamente col diventare vittima degli stessi ragazzini che voleva truffare). In Cry il protagonista alleva maiali, mangia con la nonna e non fa null’altro per tutto il film salvo concedersi un film al cinema – dove vede proprio I’m Really Good – ma si addormenta. In Life Finds a Way, il più costruito, fa quasi una parodia del meta-film di un regista in crisi, ma i vuoti sostituiscono i pieni, mentre la salute fisica del protagonista va a farsi benedire per trascuratezza (la scena dal dentista è quasi insostenibilmente comica e sadica). In Party ‘Round the Globe, il personaggio-chiave – presente anche in altri film di questo strampalato “Watanabe Universe” – è Honda, che non spiaccica parola dall’inizio alla fine, mentre Watanabe lo incalza con monologhi senza senso e ragionamenti bizzarri.

Tutti in bianco e nero, questi film seducono perché anche quando la ricerca del personaggio “cool” o di un’ironia jarmuschiana orientale potrebbero sembrare troppo scoperte, il ricorso ai tempi morti e all’inquadratura fissa smonta con testardaggine ogni sospetto di astuzia. Il riproporsi inerme e trasparente delle azioni ripetitive di personaggi strutturano via via la nozione di tempo e la filosofia dell’autore, riuscendo a costruire per sottrazione di senso un’empatia non banale verso gli abitanti di questo Giappone insieme provinciale e mediatizzato.

Come scrive Matteo Boscarol “il discorso artistico/cinematografico portato avanti dai fratelli Watanabe (a Hirobumi come regista si affianca infatti quasi sempre nei suoi lavori anche il fratello Yuji, come autore delle musiche) [coinvolge] un po’ tutti i membri delle loro famiglie, che sembrano essere impegnati in queste produzioni dal tratto fortemente indipendente, quasi artigianale”. E ancora (citiamo perché concordiamo): “Bisogna un po’ essere dell’umore giusto per affrontarli e gustarli pienamente, abitano cioè quella zona abbastanza grigia ed indistinta che sta fra la riuscita artistica e il tentativo amatoriale. Detto questo, a lungo andare l’attenzione dello spettatore finisce per focalizzarsi inevitabilmente sull’immagine dell’inquadratura e tutto ciò che essa contiene”.

Continueremo a seguire anche in futuro questo regista e questa factory.

FROM A DISTANT OBSERVER – FAR EAST FILM FESTIVAL 2020

Dopo Biografilm e Annecy, continuiamo a esperire festival online. Le piattaforme (MyMovies in tal caso) continuano ad affinare le interfacce grafiche e a sperimentare operazioni editoriali, che – come già abbiamo detto – potrebbero in futuro non scomparire ma affiancare l’auspicabile ritorno dal vivo dei festival. Premessa: chi scrive non è un esperto di cinema orientale e, per motivi di sovrapposizioni con il lavoro, ha potuto raramente negli ultimi anni presenziare al glorioso Far East Film Festival di Udine. L’occasione è dunque benedetta, ma quanto segue ha le caratteristiche dell’osservazione “distante”, per forza di cose meno informata degli studiosi e appassionati del settore.

In ogni caso, molti film (tra quelli visti in maniera confusa e con cinefilia “ad immersione”, occhi aperti e cervello sgombro) hanno dato da pensare, a cominciare da Ashfall, il film di apertura. Un esempio perfetto di blockbuster coreano, con annessi elementi politici narrativizzati in forma epica (non senza ironia) dove sud e nord trovano un intreccio per scongiurare un disastro nucleare innescato da un terremoto devastante. Per un occidentale siamo dalle parti dei blockbuster “b” catastrofici con Dwayne Johnson, ma il respiro è decisamente più ampio.

C’è un terremoto – un certo punto – persino in Ip Man 4, episodio che conclude la bella saga con Donnie Yen. Ambientato a San Francisco a inizio anni Sessanta, con una fotografia eccezionale cui non deve essere estraneo il ricordo di C’era una volta a Hollywood, il capitolo offre finalmente una parte consistente anche a Bruce Lee, allievo del maestro, come personaggio. Ovviamente il tutto serve a sublimare la serie, che si conclude con “il meglio di”, una carrellata di momenti storici, compresa la lotta contro Mike Tyson del numero 3. La sensazione è che film come questo prefigurino e dialoghino con un pubblico ancora pop nel senso tradizionale del termine, quello che in Occidente sembra inghiottito dalle forme di consumo più algoritmiche.

Ingiudicabile, per quanto mi riguarda, l’ultimo film di Johnnie To, una sorta di melodramma sportivo giovanile intitolato Chasing Dream. Mi sembra di capire che appartiene alla filmografia più torrenziale, commerciale, di rapido consumo “Toiana”, e che To stia recentemente demansionando la sua figura autoriale. Certo è che si oscilla tra plastic kitsch quasi irritante e accensioni cromatiche, emozionali difficili da ignorare. Più potente e solido invece il ritorno di Andrew Lau, The Captain, su un capitano di aereo ancora più geniale e freddo del Sully americano. Propaganda industriale cinese pura, ma anche una rocciosissima adesione al compito.

C’è spazio negli spazi non concorsuali anche per film lontani dallo spirito primario del festival (più legato ai generi e ai racconti codificati), come I – Documentary of the Journalist, doc giapponese sulla storia di una giornalista molto scomoda e perseguitata, che scoperchia alcune nefandezze davvero preoccupanti legate all’entourage di Shinzo Abe. Nulla di nuovo sotto il sole del documentario militante, ma sicuramente coraggioso al limite dello spericolato. Di altri film (My Prince Edward, per esempio) sarebbe da dire principalmente il nitore narrativo, ma annegherebbero in valutazioni troppo ordinarie. Della bella retrospettiva dedicata al da me sconosciuto Watanabe diremo a parte.

Il cinema del nuovo millennio

Pubblicato da poco, ecco uno di quei volumi che aspettavamo. Aspettavamo nel senso che, all’altezza del 2020, un volume di guida teorica, orientamento culturale e riflessione cinematografica sui film del nuovo secolo – cioè del cosiddetto ultra-contemporaneo – era richiesto in quanto utilissimo. E più volte abbiamo anche accarezzato l’idea di scriverlo, vinti poi dalla pigrizia per un’impresa molto complessa, data la vastità della geografia cinematografica di questi due decenni.

Per fortuna c’è chi è stato più energico e attento, la curatrice Alessia Cervini, che ha dato alle stampe proprio Il cinema del nuovo millennio (Carocci, 34 euro), concependo un ricchissimo menu di interventi critici, storiografici e analitici, sia dedicati a tendenze e generi, sia concentrati su singole figure (gli studi di caso), che tradiscono forse una tendenza più cinefila, comunque di sicuro interesse.

Al solito, riportiamo la presentazione del volume, invece che parafrasarla ulteriormente: “A cosa pensiamo quando parliamo di cinema contemporaneo? A quali oggetti ci riferiamo? Il volume è una riflessione teorico-critica a più voci intorno al cinema degli anni Duemila, al modo in cui esso ha concepito le sue forme, ridisegnando i propri territori e confini e individuando nuove autorialità. Da questa indagine emerge una mappa per orientarsi nel panorama audiovisivo contemporaneo, attraverso quattro strade diverse – corrispondenti ad altrettante parti del libro: temi, geografie, autori, opere –, nel momento in cui la sua storia è consegnata a un destino i cui contorni sono ancora tutti da immaginare”.

In concreto, dopo una bella introduzione della curatrice, troviamo politica, generi, animazione, queer, documentario, serialità (Temi). Poi Europa, Medio Oriente, Maghreb, Nord America, America Latina, Far East (Geografie); alcuni autori tra cui Farhadi, Dolan, Kechiche, e alcuni film tra cui Vincere, Adieu au langage ma anche Twin Peaks – il ritorno. Mai occidente-centrico, molto attento alla produzione internazionale e alle forme in circolo nell’immaginario contemporaneo, il volume non ambisce a mettere un punto storiografico ma a costruire una esplorazione organizzata e globale dei fenomeni in atto, senza dimenticare – come si è visto – la rilocazione del cinema e le serie televisive. Il parco dei contributori (colleghi di razza) è decisamente all’altezza del compito non semplicissimo.

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE III

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Ecco la seconda puntata delle impressioni critiche su alcuni dei film (qui le altre puntate)

I Walk di Jørgen Leth. Quando il documentarista decide di voltare la camera verso se stesso può succedere di tutto, dall’estasi alla fesseria. Leth è uno che sa il fatto suo, e che ha spesso provocato il linguaggio cinematografico in passato. Affaticato nel passo, colpito da catastrofi naturali e personali, viaggia dentro la sua vecchiaia e spiega che cosa significa perdere le forze fisiche mentre il cervello è lo stesso di prima. Tra esotismo quasi coloniale e ironia stralunata, finisce con l’erigere (letteralmente) una tomba nella foresta a se stesso. Piuttosto inclassificabile.

Because of My Body di Francesco Cannavà. Di love giver avevamo solo sentito parlare nei film di finzione. Ma di gente che aiuta a ritrovare la sessualità le persone affette da handicap ne esiste davvero. In questa cronaca di rapporto tra uno specialista e una ragazza con gravi problemi alle gambe c’è tutta la difficoltà di una pratica che chiede al tempo stesso educazione erotica e distanza col paziente. Quasi impossibile, e infatti la protagonista del doc sviluppa sentimenti forti, che sfiorano il cinema sentimentale. Il regista tiene a bada la situazione, osservando i due punti di vista e rispettando il corpo della giovane donna. Fa come il terapeuta: ne spalanca l’intimità ma ne protegge la dignità.

Sing Me a Song di Thomas Balmès. Dopo Happiness, lo stesso regista parigino torna al protagonista del primo film, dieci anni dopo, sempre seguendo le vicende del Bhutan e del buddismo tibetano. Il tema, ben chiaro, è il rapporto tra la spiritualità e la tecnologia. Se vedere gli aspiranti monaci alle prese con gli smartphone fa una certa impressione, alla lunga il confronto serrato tra il personaggio e il ruolo della modernità rischia di avere solamente l’arma dell’accostamento come mezzo narrativo ed estetico. Impaginato come un film d’autore, non si farà ricordare a lungo.

King of the Cruise di Sphie Dros. il personaggio principale del documentario sarebbe uno strano sedicente barone, che – solo, anziano e terribilmente sovrappeso – se ne va in giro per le navi da crociera per trovare un po’ di compagnia e raccontare mirabolanti storie che sarebbero piaciute al grande falsario Orson Welles. Ma in verità la protagonista è la crociera, col problema che David Foster Wallace e molti film ed episodi di serie TV recenti hanno ormai narrato il kitsch umano di queste comunità in viaggio. E diventa davvero difficile sviluppare i sentimenti di ironica pietà che la regista si sforza di suscitare.

It Takes a Family di Susanne Kovács. Il nostro film preferito del festival, insieme al vincitore (che avevamo facilmente pronosticato), Walchensee Forever. Anche qui una tormentata storia di famiglia ricostruita dalla più giovane, ma se possibile ancora più dolorosa. Per riassumere: due nonni sopravvissuti ai campi di sterminio, un padre brutalizzato dallo stesso nonno vittima dei nazisti, una madre figlia di un soldato nazista (e dunque in dissidio con i suoceri), e in generale una isterica reticenza dei parenti a confessarsi davanti alla camera. Un film a suo modo eccezionale, già pronto per essere oggetto di trauma studies storici e psicanalitici, gestito con una volontà impressionante ma senza rinunciare alla fragilità di chi capisce e perdona le ferite inferte dal male assoluto.

Abbas by Abbas Kamy Pakdel. Come ho detto anche altrove, nel doc mi piacciono i progetti chiari e dichiarati. Il regista vuole raccontare la storia di un grande fotografo di guerra (e non solo). Lo trova malato e al termine della sua vita. Nessuno ne fa una questione patetica. Il fotografo accetta di raccontarsi, e soprattutto di strutturare in dieci categorie la sua opera, in una sorta di catalogo di metacritica. Curatore di sé stesso, Abbas spiega la sua estetica e la sua pratica, si congeda gestendo l’ultimo ciak, e poco dopo la fine delle riprese muore. Tutto qui (si fa per dire, ovviamente), con grande arricchimento dello spettatore.

Gli anni che cantano di Filippo Vendemmiati. Che roba era il Canzoniere delle Lame? Gli emiliani se lo ricordano: un gruppo di cultori ed esecutori della canzone politica e resistenziale che, tra gli anni ’60 e il 1980, ha tenuto centinaia di concerti. Qui, insieme a commoventi immagini di repertorio, li ritroviamo imbiancati, sopra un pulmino, a raccontare un’epoca finita per loro stessa scelta (inutile fare la “messa rossa” viene giustamente detto da chi ha deciso di togliere la spina). Il resto viene da sé, basta avere l’affetto che Vendemmiati possiede dietro la macchina da presa.

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE II

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Ecco la seconda puntata delle impressioni critiche su alcuni dei film (qui invece la prima puntata)

Irradiated (Irradiés) di Rithy Panh. Tre schermi, a volte allineati in simultanea, a volte separati. Tutte le atrocità del Novecento, che hanno affiancato la storia del cinema, in novanta minuti, senza sosta, senza dimenticare alcun totalitarismo, senza sollevare l’obiettivo dallo sterminio – salvo forse alla fine. Un film che dialoga con gli ultimi Godard, anche se non si può nascondere qualche dubbio sul senso dell’operazione di Panh, ai limiti del sadismo. L’orrore non è naturalmente ossessione piacevole, ma l’ipnosi è dietro l’angolo, e i corpi ammassati, torturati, senza vita e senza più forma fanno più male del discorso delle “immagini malgrado tutto”.

Barzakh di Alejandro Salgado. Il documentario contemporaneo lavora molto sui luoghi di passaggio, i confini strani e fantasmatici. Qui c’è Melilla, città autonoma spagnola in punta di Marocco, dove stazionano gli aspiranti migranti. Ciò che distingue dagli altri questo doc è che Salgado riprende tutto di notte, trasforma le rocce e le grotte sul mare in un castello gotico, e lascia le persone illuminate da fioche torce a parlare e parlarsi, in un clima estetico e psicologico a volte lacerante. Sospetti di estetismo? Forse, ma lo preferiamo a certo cinema del reale.

Love Child di Eva Mulvad. L’ultima volta dicevamo dei sotto-generi nel doc, soprattutto nell’epoca post-primavere arabe. Vicino al “filone siriano” (di grande importanza per la ridefinizione del visibile negli ultimi anni), questo probabile candidato alla vittoria finale riprende una famiglia di iraniani che fugge da una possibile esecuzione in patria. Ci sono un bambino, una mamma e un papà che però si era finto lo zio, perché non è il marito di Leila. La fuga si blocca in Turchia, e anche questa è una storia di congelamento e frustrazione. Meglio della lapidazione, certo, ma un rifugiato intanto ha perduto la patria. Bisogna accettare che i doc possano essere mélo (qui figli illegittimi, segreti enormi a fin di bene, suspense, pianti a dirotto, separazioni), purché non cinici. La regista Mulvad, testimone incessante della vita dei tre, non lo è.

Being Eriko di Jannik Splidsboel. Storia di Eriko Nakamura, ex fiore precoce del pianismo mondiale, poi artista e performer (un po’) estrema per liberarsi dalla ferocia dei concorsi e dei concerti. Una corte dei miracoli di artisti e figure sensibili accompagnano la continua ridefinizione dell’arte di Eriko. Di idee di documentario ce ne sono pochine, e purtroppo la limitatezza dei confronti dialogici tra i protagonisti si fa via via più irritante. Però non è che ne si può dire particolarmente male. Ed Eriko ha una tensione fisica e mentale che basta a sostenere parecchi muri pericolanti del film.

La pallina sulla conca di Francesca Iandiorio. Film-diploma conclusivo del CSC di Palermo. Un altro film sui problemi di corpo e di cibo (particolarmente presenti al Biografilm 2020). A differenza di altri, la Iandiorio trova un “partito preso” della messa in scena. Riprende tutto ma non se stessa. Parla di sé ma si occulta. Si rifrange nelle immagini altrui – il compagno, la madre… – e cerca di capire il proprio rapporto con l’atto del mangiare a partire dalla famiglia, dalle tradizioni, dalle relazioni (intuendo su se stessa un tema fondamentale del cibo, persino della cultura del cibo). Minimalista e metonimico, centrato, con un finale toccante.

#unfit: The Psychology of Donald J. Trump di Dan Partland. La teoria, sostenuta da un gruppo di psicologi americani, è che Trump abbia un serio disturbo narcisistico della personalità e dunque vada deposto. A partire da questo divertente spunto, si comincia a esaminare Trump da un punto di vista clinico, osservando una gran mole di interviste, tweet, momenti della carriera da imprenditore, per giungere sempre alla stessa conclusione: Trump è pazzo. Poco più di un documentario-birra da bersi dopo cena tra democratici, peccato per la seconda parte dove le analisi storiche (il confronto Trump/Mussolini) sono campate per aria e fanno sbandare questo film post-Michael Moore.

La casa dell’amore di Luca Ferri. Conclusione della trilogia dell’appartamento di Luca Ferri, per fortuna un regista che è sempre meno un segreto ben custodito del cinema sperimentale italiano. Massima ammirazione per questi due anni passati con la trans Bianca, che intrattiene clienti uno più bislacco e malinconico dell’altro. La vita di Bianca è vera, le scene con i clienti invece ricostruite con amici e attori. Avevamo apprezzato Dulcinea e adorato Pierino (forse il doc più tradizionale? Ma mica tanto). Qui si fa più fatica, a dire la verità, specialmente per le liturgie teatrali e vagamente sadiane degli incontri finzionali. Lodevole invece lo sguardo su Bianca: una affettuosa distanza, al tempo stesso impudica e legittima, seria, che accalora il tutto.

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE I

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Mentre la comunità di appassionati e cinefili si sta interrogando su questa modalità (trovando ovvie nostalgie dell’esperienza live ma anche la sensazione di poter accedere a una programmazione altrimenti esclusa per chi non si si sarebbe trovato nelle sedi delle manifestazioni…bisognerà riparlarne), noi inauguriamo la nuova sezione “Festival” del sito con brevi commenti da alcuni film. Ora – e in futuro – l’intervento sarà rapido e concettuale, non recensioni rotonde ma riflessioni a spigoli, senza pretese di esaustività.

Kubrick by Kubrick di Gregory Monro. Idea semplice ma ottima. Come più spesso bisognerebbe fare. Si prendono le registrazioni audio della famosa intervista di Michel Ciment a Stanley Kubrick, si affiancano immagini (di qualità) dai film del maestro, si intrecciano le rare auto-diagnosi del regista ai film e alla loro potenza comunicativa, si aggiunge qualche intervista rigorosamente di repertorio, e ci si limita a un’ora e un quarto. In un sottogenere (i doc sui grandi cineasti) pieno di robaccia, una boccata d’aria pulita.

Ecstasy di Moara Passoni. Tipico caso di sensazione sgradevole verso se stessi. Come puoi sottrarti a un film così sentito, sincero, quasi scorticato, sulla propria anoressia da parte di un’autrice chiaramente intelligente? Per di più non c’è nulla di didascalico e c’è persino una snervata ironia che punge in sottofondo. Ma spesso il doc corporeo contemporaneo fallisce proprio dove il dente duole: il corpo. Non ci sono gli strumenti stilistici (o politici, viste le recensioni plaudenti) per questa storia. Il corpo, anche se è il proprio, chiede il contrario del kitsch autobiografico. Purtroppo.

Walchensee Forever di Janna Ji Wonders. Chi segue il Biografilm (o altri festival internazionali centrati sul doc e sulle storie di vita) di questi film ne ha visti a decine. Una storia di ricostruzione intima famigliare, attraverso un ampio archivio di home movies e fotografie, diari e lettere, ricostruita dalla più giovane di alcune donne tedesche spalmate su tre generazioni. Ma anche se ne abbiamo visti a decine, questo premiato doc ha il merito di confermare la vitalità del sotto-genere e al contempo mostrare nuovamente il miracolo del transfert emotivo: nessuna storia famigliare è uguale a un’altra. Come commuovesi senza guardare dallo spioncino? Affidandosi a una brava regista, che sa come montare i materiali e come far marciare una storia.

Faith di Valentina Pedicini. Le piccole comunità di persone completamente fuori di testa sono sempre interessanti, specie se una regista in gamba si infila nel gruppo e resta il tempo necessario a conquistare fiducia e registrare. Questi sono i Guerrieri della Luce, un po’ cristiani rinati, un po’ monaci buddisti, un po’ combattenti di arti marziali con aria da raduno techno neonazi, un po’ sadomasochisti nascosti nella provincia marchigiana. Osservazione anatomica, mai del tutto entomologica, oggettiva ma comprensiva. Il bianco e nero assai elogiato forse “stampa” sul muro il progetto cinematografico, lasciandolo in bella vista ma senza concedergli la possibilità di un incanto o di un raccapriccio.

In un futuro aprile di Francesco Costabile e Federico Savonitto. Mi piacciono le idee nitide. Certo, quando uno oggi legge che c’è un nuovo doc su Pasolini, mette mano alla pistola. E invece si fa bene a dubitare del proprio pregiudizio. I registi ergono un gigantesco protagonista, Nico Naldini, cugino di PPP e testimone della sua infanzia a Casarsa. Bastano volto e voce. Lui che racconta e commenta, illuminato senza le luci smarmellate del documentario scemo. Il resto ce lo mette un gran lavoro d’archivio, dove ci sono anche i soliti grandi di Home Movies, e il gioco è fatto. Casarsa rivive, e crediamo a quel che ci raccontano. Che non è dire poco.

Il cinema musicale italiano

Si intitola Cinema, sorrisi e canzoni – Il film musicale italiano degli anni Sessanta (Rubettino, 18 euro) il nuovo saggio di Claudio Bisoni, docente DAMS e studioso di cinema popolare italiano e di processi di ricezione dei media. In effetti, la descrizione dell’autore ci mette già sulla strada giusta per la comprensione del volume. Nient’affatto uno studio cinefilo o da fan sul musicarello, bensì una ricca, solida e circostanziata analisi di questi genere (se di genere si tratta) che ha avuto caratteristiche peculiari e espressioni fenomeniche estremamente interessanti dentro la storia del cinema italiano.

Bisoni non ha alcun bisogno di legittimare culturalmente il film musicale in sé, caso mai lo fa con l’oggetto di studio. Già, a che cosa ci serve studiare titoli come Urlatori alla sbarra, In ginocchio da te, Rita la zanzara e molti altri assai meno conosciuti di questi (spesso in verità citati per sentito dire e poco altro)? Lo spiega lo stesso Bisoni, e come sempre le parole migliori appartengono ai peritesti del volume: “Tra le pagine emerge il modo in cui i film musicali hanno saputo sfruttare i cambiamenti sociali ai tempi del boom economico e stabilire un dialogo con le nuove generazioni di spettatori appassionati. Attraverso molteplici prospettive d’analisi, lo studio si concentra sugli aspetti più rilevanti del filone: le routine produttive dei film a basso costo, le dinamiche economiche che ne spiegano il successo, le forme espressive e narrative. Da un lato la canzone è incorporata nel linguaggio audiovisivo, dall’altro usa il cinema per promuoversi e per rafforzare i riti che la riguardano. Il libro prende inoltre in considerazione le pratiche concrete, troppo spesso trascurate, alla base del consumo quotidiano dei film e delle canzoni, insieme alla capacità di questo cinema di raccontare un capitolo della storia dei giovani, in un decennio di trasformazione dei costumi e dei ruoli di genere”.

Dunque, si parte dal film musicale ma poi si arriva parecchio lontano. I capitoli sono sei. I primi due hanno un taglio storico, economico e produttivo (una delle aree di maggior interesse dei film studies “italianisti” degli ultimi anni) con l’intelligente esito di considerare il musicarello non un luogo di improvvisazione a basso costo ma di routine produttiva artigianale ben organizzata. Anche la periodizzazione del genere viene ampliata e raffinata rispetto alle retoriche di ascesa e tramonto, che non di rado penalizzano anche le storie di altri generi coetanei a questo. Il terzo e il quarto capitolo sono teorici, e si occupano del rapporto tra forma-canzone, numero musicale, linguaggio cinematografico, intensificazione audiovisiva.

Infine, nell’ultima parte – i capitoli 5 e 6 – Bisoni osserva il rapporto negoziale che si crea tra cinema musicale, culture giovanili e spettatori, dove il film-canzone sembrerebbe possedere aspetti di contenimento e di “digestione” delle spinte più provocatorie che i media dell’epoca tendevano ad attribuire alle nuove generazioni. Molto utile – e per nulla scontato – infine il ricorso a questionari e interviste scritte, poi abilmente riassunte in forma discorsiva, ad alcuni testimoni dell’epoca che illuminano (non senza sorprese) il rapporto tra spettatori, età anagrafica, consapevolezza mediale e forme di rimediazione del ricordo.

Il limite dello sguardo

Si intitola così il nuovo, potente volume di Michele Guerra (Raffaello Cortina Editore, 16 euro). Di che cosa si tratta? Questa parte la facciamo spiegare all’editore e al saggista: “Che cosa hanno in comune La notte di Elie Wiesel, le fotografie dell’Album AuschwitzNotte e nebbia di Alain Resnais? La tragedia della Shoah, naturalmente. Ma per quanto scandaloso possa sembrare, non solo. Ognuna di queste opere porta all’estremo i limiti del nostro vedere e ci spiega che certe immagini funzionano solo in virtù di ciò che non si vede, immagini che se venissero analizzate soltanto per quello che mostrano non potrebbero essere comprese. Ognuna di queste opere ci chiede di cambiare il modo in cui ci poniamo rispetto al visivo, perché le loro immagini vivono della pressione del fuoricampo, fanno esperienza del vuoto. Sono quel fuoricampo e quel vuoto a interrogare oggi, dentro abitudini di lettura delle immagini sempre più automatizzate, la relazione morale e politica che lega il nostro sguardo al pensiero dell’estremo”.

Mai quarta di copertina fu più veritiera. In effetti, il ricco e articolato volume di Guerra rappresenta una summa delle letture sul rapporto tra cinema (e immagine audiovisiva, oltre che fotografica) e Shoah. Summa non nel senso che si pone come volume teorico definitivo, visto che non ne ha l’intenzione, bensì come interlocutore attento e preparato della vasta letteratura sull’argomento, messa poi a prova lungo tutto il libro, soprattutto grazie all’applicazione su singoli esempi (c’è anche una mirabile riflessione su film recenti, primo tra tutti il controverso Il figlio di Saul).

Tutto il saggio si snoda tra i poli dell’ “aver visto troppo” – in un’epoca mediale gonfia e incessante, nella quale persino la produzione sulla Shoah è diventato un genere per scuole e matinée con alunni – e dell’invisibile, elemento connaturato alla tragedia novecentesca e che non smette di essere presente. Un’assenza di immagine che non è contraddittoria rispetto al contemporaneo ma ne segna una latenza drammatica. O sorgiva, a seconda di come la si vuole osservare.

Ed è proprio lavorando su questa frattura ghiaiosa che Guerra individua gli strumenti più duttili, filosoficamente densi ma infine concreti, per guidarci in una lettura da cui – è raro dirlo per un saggio, francamente – si fa fatica a staccarsi.

LA SEQUENZA DEI GRAFFITI IN “BRIAN DI NAZARETH”

Comincia oggi una nuova rubrica (o categoria, più correttamente) del mio blog, ovvero l’analisi di singole sequenze di film (vecchi e nuovi, importanti o minori, di ogni parte del mondo) che possiedono motivi di interesse critico, accademico o cinefilo. Per il puro gusto di parlarne.

Cominciamo con Brian di Nazareth (1979) di Terry Jones, ovvero frutto collettivo degli indimenticati Monty Python. Il film per fortuna è oggi visibile su Netflix, e – anche se la copia porta i segni del tempo – può efficacemente essere abbinato alla completa disponibilità degli episodi di Flying Circus. Nella formidabile vicenda di Brian, “vita parallela” di Gesù e controparte sfigata del Divino, ne accadono di tutti i colori. A un certo punto, unitosi a un gruppo di ebrei rivoluzionari che vogliono rovesciare il dominio romano, Brian deve dimostrare ai nuovi compagni il suo coraggio scrivendo (stile graffiti) su un muro “Romani, andate a casa!”.

Totalmente inadeguato all’impresa, Brian pensa di approfittare delle tenebre e, credendosi protetto dal buio, comincia a dipingere. Ma in secondo piano, vediamo che gli si stanno avvicinando i soldati imperiali di cui lui non si accorge. Lo spettatore pregusta il momento della scoperta e immagina la magra figura di Brian. Qui, però, interviene la genialità dei Monty Python.

Il milite romano, invece che arrestarlo, lo rimprovera per gli errori di latino commessi nella scritta. Gli tira le orecchie, lo tratta come uno scolaretto somaro, e poi gli impone di scrivere la frase corretta decine di volte su tutto il palazzo per l’intera notte. Un capovolgimento strepitoso, che duplica e spiazza le attese spettatoriali, costruisce in forma di gag un ragionamento di logica rovesciata, mostra all’improvviso che sia il rivoluzionario sia l’occupante della Galilea altro non sono che due stupidi.

L’intero film è un manuale di ironia scorretta e sorprendente, che ha conquistato giustamente uno statuto di culto. E anche rivisto oggi continua ad essere consigliabile per chi scrive comicità: dalla parodia al paradosso, dalla satira politica alla caricatura, dallo slapstick al demenziale, dall’umorismo avant-garde al carnevalesco… non manca davvero nulla, ma senza darlo troppo a vedere.

Tornando alla “Cosa”

Cominciamo dal titolo di questo saggio (che riprendo da una vecchia pubblicazione oggi praticamente scomparsa, La superficie e l’abisso. Percorsi culturali politici nel cinema americano degli anni Ottanta, a cura di Enrico Cassini, 2010). Tornare alle cose concrete. Dure. Non riducibili. Indigeste,

Gli anni Ottanta sembrano davvero per la maggior parte come ce li ricordiamo: euforici. Certo, in ogni decennio coesistono tante diverse ipotesi di cinema, come dimostra in questo periodo la convivenza di Top Gun e di Videodrome, solo per fare un esempio. Eppure, il fantastico sembra davvero declinato in maniera infantile e rassicurante: robottini (Corto Circuito e seguiti), forme aliene paradisiache (Cocoon e seguiti), avventure preadolescenziali (Goonies), mostriciattoli colti e cattivelli ma tutto sommato dall’aspetto di giocattolo (Gremlins e seguiti), alieni buoni o buonissimi (dal capostipite E.T. ai vari Explorers e compagnia).

Naturalmente gli anni Ottanta sono anche la decade di Cronenberg e Lynch, di McNaughton e Mann, di Friedkin e di Romero. Tuttavia, bisogna forse concentrarsi più attentamente sul cinema mainstream e su una sfida particolare, quella portata da John Carpenter e dal suo La cosa, per comprendere meglio che cosa significa lavorare davvero “contro” il periodo di appartenenza.

Come si sa, il film di Carpenter, oggi quasi assurto al rango di culto, è stato all’epoca un grave insuccesso. Il film, costato circa 30 milioni di dollari, ne aveva guadagnati in America solo 13, e nel resto del mondo assai meno. Si è dunque trattato di un passo falso commerciale da parte di un autore assai stimato dal grande pubblico, che pareva non perdonargli un film così adulto, fosco e drammatico. The Thing in effetti usciva “rated R”, dopo la catastrofica minaccia iniziale di un “rated X” (quello dei porno), che gli avrebbe bloccato qualsiasi uscita. Ma già la “R”, e le voci di rimaneggiamenti e tagli sono stati sufficienti ad allontanare la massa e scontentare i fan duri e puri. Oggi il film è visibile integrale in DVD, ma all’epoca – anche in Italia – la copia che girava era assai tagliata.

Parliamo del 1982. Anno importante per tutto il cinema americano, sottoposto contemporaneamente a un terremoto fantascientifico senza precedenti (il già citato E.T. di Spielberg) e a un sovvertimento dell’immaginario apprezzato nella sua entità solo parecchio tempo dopo (Blade Runner). Basta la spiegazione del “troppo dark” per poter interpretare l’insuccesso del film di Carpenter? O non sarà forse che il pubblico non aveva alcun desiderio di confrontarsi con fobie così allarmanti e rappresentazioni tanto sanguinose del proprio presente? Come ogni grande film, infatti, anche La cosa – pur così “hawksiano”, diretto, concreto, ruvido, di genere – contiene ampie metafore. La microsocietà di cowboy del ghiaccio, annoiati e stanchi, immersi in un inverno senza fine, appare come l’esatto contrario di una società statunitense sempre più opulenta, affacciata al sogno reaganiano della deterrenza militare e della ricchezza borghese. Vedere questi stessi uomini, le “avanguardie” mandate in capo al mondo, esportare una democrazia fragile e autodistruttiva, divorati dal sospetto l’uno per l’altro e da un elemento esterno che si finge umano, fa risuonare molti echi. Va da sé, infatti, che la critica politica non tardi a sposare il film: “L’insostenibile, indigesto e demodé La cosa, remake hard e magnifico dell’Hawks/Nyby del ’51, firmato da John Carpenter in Alaska durante l’anno 1981, quasi all’inizio dell’era Reagan. Immagine e sostanza di quella ‘ferocia senza salvezza’ che è la sintesi del fantastico per Carpenter, di quell’America che credi amica e onesta e invece ti assalta al collo quando meno te lo aspetti”. Parole di Roberto Silvestri, sul Manifesto.[1]

Proporre in termini antinomici il confronto La cosa/E.T. è certamente scolastico. Molti hanno notato  come anche il film di Spielberg, in effetti, contenga accenti piuttosto critici nei confronti delle istituzioni e dei governanti, mal disposti ad accettare il diverso e a farlo convivere con noi. D’altra parte, è altrettanto vero che il cinema di Spielberg in questi anni tende a omogeneizzare il pubblico in nome dei valori comuni dell’America di provincia e dei fondamenti costituzionali cari ai registi umanisti e democratici. Il modello di E.T. è Frank Capra (che amava assai poco i governanti: dice nulla Mr. Smith va a Washington?), senza per questo vestire i panni del rivoluzionario. Il nume di Carpenter è invece – come più volte ammesso dallo stesso cineasta – Howard Hawks, in virtù del magistero di secchezza narrativa e ricchezza metaforica che ne deriva. Attraverso la sottrazione e il “levare”, si giunge al nocciolo. Azione pura, dunque, per questo film che non ha davvero un momento di tregua, che impressiona per densità e ritmo anche visto tanti anni più tardi.

Non è un caso che la critica americana, assai contraria alla violenza del film, abbia stigmatizzato la furia “hardcore” del lavoro di Carpenter. Non si tratta di pornografia nei termini tradizionali del concetto, evidentemente, piuttosto di una esposizione totale dell’orrore, di una disposizione a “vedere tutto” e a non occultare nulla, proprio come fa la “Cosa” quando fuoriesce dai corpi che la ospitano. Si tratta di una “pan-visibilità” diversa da quella di Cronenberg, perché accolta nell’alveo di un genere né denegato né intellettualizzato, laddove il cineasta canadese lavora sull’eccesso attraverso la speculazione filosofica. Questa profondità della visione, nella sua esplosione improvvisa a partire dal già noto o dall’apparentemente conosciuto, contiene più di un motivo interpretativo.

Di quello politico, abbiamo detto: l’America non è così pacifica come sembra, e le microsocietà che la rappresentano ne sono dimostrazione non appena vengono messe in discussione. Dal punto di vista meta-cinematografico, c’è altrettanta carne al fuoco (è il caso di dirlo, per un film in cui lattice e lanciafiamme prendono il sopravvento). La nota lettura di Enrico Ghezzi, per esempio, offre questa prospettiva: “La cosa è il principio stesso della trasformazione, adottato per la prima volta insieme come forma narrativa, oggetto della narrazione, generatore di immagini. Che la cosa sia il cinema ribaltato all’interno di se stesso è abbastanza chiaro. (…) Da sempre citazionale e referenziale, il cinema di Carpenter affrontando direttamente il ‘cinema’ con la forma-remake si concentra e si compatta di colpo in una macchina infernale che deve mordersi la coda senza alcun dolore o contraddizione, perché la macchina/cosa è questo mordersi la coda”. [2]

Sia che immaginiamo – con Ghezzi – che “the thing” sia il cinema, ovvero che il film di Carpenter parli di un oggetto metamorfico e irriducibile, ribelle e aggressivo, imprendibile (teoricamente) e affascinante (poiché ci guarda e ci pietrifica in stile Medusa, come dimostra il primo cadavere congelato a guisa di body art); sia che invece di meta-cinematografico nella Cosa troviamo soprattutto la sfida lanciata alla rappresentazione ottantesca del film americano; in entrambi i casi, diciamo dunque, la lettura non appare priva di fondamento. E anche quando si sfiora l’interpretazione in eccesso, essa viene tranquillamente riassorbita nell’ordine del credibile, almeno alla luce di quanto avvenuto nel cinema americano di quel decennio.

Secondo Luc Lagier e Jean-Baptiste Thoret, per esempio, l’orrore della “Cosa” “risiede anzitutto nell’incapacità dello spettatore a determinare la forma originale e invariante del nemico. Le sue aberrazioni organiche e morfologiche sfuggono infatti a ogni tentativo di classificazione. (…) La Cosa possiede tutte le caratteristiche di una creatura abietta”.[3]

Molto si deve all’unità di luogo e azione. L’Antartide offre uno spazio immenso ma evidentemente impraticabile. Il freddo assedia i protagonisti, per cui “là fuori” non c’è salvezza. Il che è molto suggestivo, visto che Carpenter non cerca neanche un momento di nascondere i propri riferimenti al western, a cominciare dall’abbigliamento dei personaggi, agghindati con orpelli da cowboy. MacReady – alias Kurt Russell –, poi, è un classico eroe westerner: di poche parole, rude, un po’ paranoico, insofferente alle regole, certamente impaurito ma con le caratteristiche immanenti del leader. Veste pantaloni sdruciti, giacche di cuoio, cappelli da cowboy e tiene la pistola nella fondina legata alla gamba. Ora, se ci limitassimo a queste allusioni di maniera, ci sarebbe poco da riflettere. Invece, il gioco di Carpenter è più sottile: il rifugio del gruppo è un fortino, un altro avamposto è stato assalito e la visita di MacReady e del dottore rimanda a quella di mille film western nei quali si giunge a carneficina avvenuta (ricordate la distesa dei corpi martoriati da Sierra Charriba quando arriva Charlton Heston, nell’omonimo film di Peckinpah?). Ma, sublime crudeltà, nessuno può prendere un cavallo e mettersi in fuga nelle distese rocciose o a spasso nella prateria. Il bivacco finale, anch’esso western, dei due sopravvissuti, è destinato a vita breve. Un po’ di whisky e qualche fiammella potranno proteggere ben poco i personaggi assediati dal gelo e dalla “Cosa”. Fuori non c’è salvezza (lo spazio aperto è dunque un luogo di morte certa) e dentro c’è il nemico. Una situazione senza uscita, dunque, oltre che un asse narrativo sul quale costruire gli elementi di tensione e sofferenza.

La cinefilia come remake permane – nel film di Carpenter – a temperature piuttosto basse, laddove invece la passione per il gioco, per la strizzata d’occhio, per il ludico disincanto permea le altre pellicole del decennio, al di là del valore che si vuole attribuire ad esse. Carpenter è seriamente deciso a escludere ogni tipo di pastiche, a trasformare l’originale in qualcosa di differente, capace cioè di “trattenere” elementi di inquietudine già presenti, in ciò offrendo davvero una nuova lettura interpretativa dell’archetipo. È ben facile, infatti, affermare che ogni remake fa luce su aspetti meno studiati del proprio modello testuale, ma quasi mai è vero. Con The Thing, invece, certamente siamo portati a guardare con occhi nuovi anche al film di Hawks/Nyby, riconoscendovi da una parte la mano del cineasta (non accreditato, come noto), e dall’altra i temi identitari e fantahorror che rimanevano un po’ celati (o gelati) a causa del ritmo non proprio travolgente della pellicola. Carpenter non gira perciò The Thing Reloaded bensì un film che cerca di estrarre, come oro dalla sabbia, la dimensione più pulsionale e diretta del capostipite.  “Per Hawks ‘la cosa’ cementava la coesione del gruppo, per Carpenter contribuisce definitivamente al suo disfacimento e i suoi invasori danno la misura di ciò che noi realmente siamo e non di quello che vorremmo essere, ribaltando non solo la visione di Hawks, ma di tutto il filone della cosiddetta ‘invasione aliena’ in voga negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta”.[4]

Secondo alcuni critici si tratta comunque di un’opera postmoderna: Philip Brophy afferma che “La Cosaè un film violentemente autoconsapevole” e Isabel Cristina Pinedo sostiene che il crollo di tutte le difese, rifugi, confini alla fine del film sia una metafora della postmodernità.[5] Forse è vero, a livello di materiali narrativi. Il nocciolo, però, è neoclassico, come sa essere Carpenter, solo forse insieme a Clint Eastwood. La cosa da un altro mondo, nella produzione americana degli anni Ottanta, non è il cinema in sé: è il cinema di John Carpenter.


[1] Roberto Silvestri, “Carpenter 1983-1986. Vomitando sull’orrido decennio”, in Giulia D’Agnolo Vallan, Roberto Turigliatto, a cura di, John Carpenter, Torino Film Festival, Lindau, 1999, p. 213.

[2] Enrico Ghezzi, “L’entità della cosa (il doppio del cinema)”, Paura e desiderio. Cose (mai) viste, Bompiani, Milano, 1995, p. 225.

[3] Luc Lagier, Jean-Baptiste Thoret, Mythes et masques: les fantômes de John Carpenter, Dreamland, Paris, 2006, p. 24 (traduzione mia).

[4] Fabrizio Liberti, John Carpenter, Il Castoro, Milano, 2003 (2° ed.), p. 60.

[5] Philip Brophy, “Horrorality – The Textuality of Contemporary Horror Films”, in Ken Gelder, a cura di, The Horror Reader, Routledge, London and New York, 2000, p. 282 (traduzione mia); Isabel Cristina Pinedo, “Postmodern Elements of the Contemporary Horror Film”, in Stephen Prince, a cura di, The Horror Film, Rutgers University Press, New Brunswuick, New Jersey and London, 1999, pp. 102-106 (traduzione mia).

IL MOMENTO IRRAPPRESENTABILE IN “CONTAGION”

Nuova puntata dei recuperi di articoli del passato (questo pezzo proviene dal mensile “Duellanti”, oggi cessato): rileggendo le righe interpretative sulle metafore del virus e sull’irrappresentabilità del contagio, ho considerato curioso ripubblicare queste righe sul film di Steven Soderbergh – ho solamente eliminato alcuni commenti su contesti di cronaca e politica di quel momento.

CONTAGION

Bisogna ammettere che Steven Soderbergh ha compiuto un viaggio molto lungo all’interno della critica cinefila. In molti, anche il sottoscritto, lo hanno accusato a lungo di furbizia, finta indipendenza, spocchia autoriale. Ora, dopo alcuni film epocali per il cinema contemporaneo – tali sono sia Che sia The Informant – il regista americano giunge a capitalizzare la sua estetica e la sua profonda politicità grazie a Contagion.

Perché Contagion sarebbe così importante? Per diversi motivi. Anzitutto, va ammesso onestamente che l’opzione di valore in questo caso decide di non tenere conto di alcuni squilibri strutturali, notati da molti critici – ad esempio la claudicante linea narrativa con Marion Cotillard ostaggio dei contadini asiatici, oppure la reticenza nei confronti di quel che avviene ai vicini di casa di Matt Damon, e altro ancora. Più macroscopicamente, tuttavia, Soderbergh supera di slancio questi sia pur seccanti problemi di scrittura, grazie a un’ipotesi di cinema di flagranza teorica sorprendente. Il tema del virus, che rischiava di essere ormai bollito e ribollito da film sempre più inetti e anodini (compreso il remake del seminale La città verrà distrutta all’alba), viene rilanciato con forza puntando tutto sulla metafora del contagio economico. Le borse e le merci ormai abitano un mondo reticolare dove, paradossalmente, tutto è in relazione di causa ed effetto proprio nel momento in cui tutto è atomizzato, senza più modelli sociali o ideologici che tengano (sia in Occidente sia nel mondo musulmano, come noto attraversato da onde anomale gigantesche). 

Il virus, ovviamente, viaggia rapidissimo insieme alle persone. E può annidarsi negli aeroporti e sui velivoli con nocività assai maggiore dei kamikaze dell’11 settembre. C’è di più, però. Soderbgerh, che non vuole (e forse non può, per motivi di budget) mettere in scena la consueta apocalisse urbana e spettacolare, flette sulla tecnologia il problema della rappresentazione. Il virus è un’entità concreta – le persone si ammalano e muoiono a migliaia – ma noi vediamo i personaggi quasi sempre alle prese con schermi, laptop, smartphone, video di sorveglianza, registrazioni digitali e analisi computerizzate. A sua volta la messa in scena, su un tappeto musicale artificiale, prosegue l’ossessiva ricerca di Soderbergh (uno dei pochi insieme a Michael Mann) sulla ripresa digitale, che garantisce una densificazione dello spazio rappresentato e, con le luci giuste, crea un effetto museale e video-artistico ad ogni ambiente inquadrato.

Siamo dentro un cinema ormai tecnologizzato in ogni sua particella: il film è girato in digitale, proiettato in digitale nei multiplex, rappresenta un mondo digitale, musicato digitalmente, ma ha a che fare con tosse, sputi, vomito, sudore, influenza e morte. Soderbergh ci restituisce – con un’allegoria che somiglia molto a un paradosso – la crisi economica sotto forma di catastrofe umanitaria. La tecnologia modifica i nostri comportamenti, la nostra società, la cultura e anche la natura, oltre ovviamente a modificare il cinema. La virtualizzazione delle procedure non significa però che la realtà sia una chimera inafferrabile, è anzi sempre lì a chiederci il conto, non fosse altro perché si muore, e si muore per le crisi economiche e per la guerre, per le carestie e per le dittature, e persino per tutte queste cose insieme, come nella tragedia somala.

Lo spiegano anche le svolte narrative del film. Contagion è uno dei pochi “virali” dove il governo si comporta tutto sommato correttamente. A parte quando gioca sporco con il placebo scambiato per antidoto allo scopo di dissequestrare la collega rapita, ci troviamo di fronte a istituzioni che seguono i protocolli, se divulgano informazioni segrete lo fanno in buona fede, e cercano di affrontare il dramma nella maniera più concreta. Il blogger antagonista ci fa una figura a dir poco sconcertante (anche se allo spettatore complottista Soderbergh concede la chance di credergli fino alla fine), e – con buona pace di chi trovasse in Contagion un discorso reazionario e pro-corporazioni – tutte le soluzioni alternative e miracolose si riducono a nulla.

Perché Soderbergh spazza via la tradizionale diffidenza del virale nei confronti delle istituzioni? Per realismo, appunto. E per ricordarci che i problemi stanno a monte. Il finale del film, in cui vediamo il pipistrello che contagia il maiale, funziona come causa primaria. Tutto nasce così: dal funzionamento industriale del capitalismo (e, aggiungiamo noi vegetariani, dallo sfruttamento intensivo dell’uomo sull’animale). Quando poi le crisi esplodono non c’è più modo di contenerle. Ci spazzano via in un attimo.

E Contagion ci ricorda anche che i protocolli, i sistemi governativi, le regole internazionali sono lente. Di fronte a una pandemia o a un default contagioso, la crisi viaggia a minuti mentre le contromosse necessitano di mesi. E non c’è nulla di diverso che si possa fare, almeno fino a che queste stesse istituzioni regolano il nostro mondo. Ecco perché Contagion esclude ogni elemento figurativo e narrativo di stampo religioso, magico o fantascientifico, per privilegiare invece la dimensione logica, etica, e di fatto laica del suo exemplum.

La crisi, qualunque essa sia, appare irrappresentabile. Come si capisce bene dalla sequenza più bella del film, quella in cui i ricercatori cercano di osservare – nel video di sorveglianza che riprende Gwyneth Paltrow, prima vittima – il momento esatto in cui, con un soffio o un contatto, la donna potrebbe aver contagiato qualcun altro. Ma il virus non ha una forma, e le telecamere, anche se ad alta definizione, non riescono a catturarlo. Il paradosso di Soderbergh: tra titoli tossici e malattie aeree, il mondo non ha più una materia cui fare riferimento, eppure il nostro corpo è ancora al centro della catastrofe.

ESTETICA DELL’ASSENZA

Ovviamente viviamo un periodo pessimo. Inutile negarlo. Cinema chiusi, produzione bloccata, intere professioni congelate e in crisi (dai doppiatori agli uffici stampa), festival rimandati, mondo dell’audiovisivo in panne. Certo, qualche piattaforma gonfia di contenuti ne sta approfittando, ma il fiato sarà corto ben presto.

In televisione le cose vanno appena meglio. Le library sono molto fornite, e alcuni programmi possono comunque andare in onda. In queste settimane, ottimi ascolti stanno premiando i programmi di informazione. La nuova estetica dei talk show e di altri appuntamenti di approfondimento è basata sull’assenza. Non solo il pubblico è assente – mancano solo le sagome per diventare parodia – ma anche gli ospiti rispondono per lo più da casa, in collegamento Skype (o simili).

Ogni tanto, visto che la televisione autoriflessiva è ormai cosa di tutti i giorni, il conduttore segnala che il collegamento è cattivo (e allora l’ospite si fa vedere in video ma parla al cellulare) o si complimenta perché buono (facendo riferimento alla fatidica “valigetta”, che permette nitidezza e trasmissione stabile). Ma, tutto sommato, non va malissimo, anche in evidente assenza di trattamenti estetici e di truccatori per quasi tutti. Anzi, spesso la fastidiosa attesa del digitale tra domanda del giornalista e risposta ritardata del politico o dell’esperto viene cancellata.

In questo contesto di estetica inselvatichita, lo studio vuoto è sicuramente l’aspetto più eclatante, specie per chi ne usava la profondità (pensate a che cosa avrebbe fatto Gianfranco Funari di questa televisione spoglia e apparentemente pauperistica). Lo studio mostra tutta la sua inconsistenza. L’idea stessa che fosse metonimia del mondo là fuori si schianta di fronte all’arena fatta di quinte posticce, sedili abbandonati, e telecamere isolate con i loro fili abbandonati per terra.

Il conduttore deve esasperare funzioni in eccesso: Giordano esplode in un freakshow da camicia di forza, la Gruber si crogiola nell’atteggiamento sanzionatorio (“Non uscite di casa”, “Non andate a fare la spesa troppo spesso”, ecc.), Formigli intensifica la dimensione tormentata del giornalismo d’indagine, Mentana scaraventa sullo spettatore l’aggressività che solitamente riserva ai collaboratori, Vespa non riesce a nascondere l’eccitazione di aver ritrovato le prime serate, e così via. Il contenimento e le negoziazioni che comunque il contesto scenografico e la presenza fisica di pubblico e ospiti garantivano sembrano saltati, lasciando l’informazione televisiva in uno stato di perenne oscillazione tra isteria e razionalità.

E alla fine, la disperata ricerca di voci autorevoli – con il trionfo dello scienziato, poco importa se virologo, epidemiologo, infettivologo, biologo, e altri mestieri abbastanza intercambiabili per il pubblico desideroso di vedere una via d’uscita – supera ogni tipo di limitazione estetica. Molti di loro sono in grado di salvare l’umanità ma non di dotarsi di una webcam decente. E così andiamo avanti in un trionfo di voci metalliche, sillabe saltate, pixel a mosaico, contorni sfocati, asincroni ghezziani, sfondi con foto del matrimonio, librerie mal illuminate e salotti con arazzi esotici negli angoli.

La speranza è che qualcuno stia censendo, registrando, catalogando e analizzando questo periodo eccezionale. La youtubizzazione della televisione generalista è cosa fatta, in poche settimane di lockdown.

un divano e una risata: la sitcom

Non mi viene in mente un genere televisivo più indicato della sitcom per gli spettatori che cercano nell’evasione narrativa un antidoto alla quarantena e alle preoccupazioni per la crisi sanitaria ed economica. Già, ma che cosa intendiamo con sitcom? Si tratta di un genere al tempo stesso riconoscibilissimo e difficile da normare. Per entrarci, senza sensi di colpa, c’è adesso il bel volume di Luca Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive.

Il primo effetto, nel leggere il volume (edito da Carocci, 15 euro), molto dettagliato e informato, è di rendersi conto con sorpresa di quante sitcom si sono viste nella vita senza talvolta nemmeno essersene accorti (si fa per dire, ovviamente) o aver pensato di catalogarle. Potremmo persino dire che per molte persone la propria esistenza potrebbe essere riassunta per capitoli attraverso le sitcom più celebri di ogni periodo vissuto.

Come si diceva, però, le cose non sono così semplici. E, tolto l’effetto nostalgia del rivedere Friends o Mary Tyler Moore, rimane un continente gigantesco, spesso considerato alla stregua di un volgare riempitivo (indicative le parole dei critici italiani all’epoca dell’arrivo delle sitcom nei nostri palinsesti, riportate da Barra), spesso privo di particolari valori linguistici o di evidenti tratti artistici, su cui la sottovalutazione analitica ha prodotto una scarsa considerazione e una ancora più scarsa letteratura.

Il volume (da I Love Lucy a Big Bang Theory, per citare due estremi celebri) prende in considerazione tutti gli aspetti connessi, coinvolgendo studi sulla produzione e ricostruzioni storiche, riflessioni sulla distribuzione e analisi delle trasformazioni narrative, attenzione agli adattamenti culturali e persino (lo si dice con ironia) un immeritato quanto affidabile bilancio del catastrofico tentativo di fare sitcom nazionali. Manca forse una riconsiderazione più profonda sui debiti della comedy e della sitcom verso le forme screwball della commedia cinematografica hollywoodiana, ma non era questo l’obiettivo del volume, concentrato sull’evoluzione del genere nel mezzo televisivo (la cui natura è a sua volta segnata e “stressata” dalla presenza della sitcom come genere onnipresente).